Ghostemane, il trapper che ha unito metalcore e industrial con tematiche depressive di inizio millennio, per la prima volta in Italia a Bologna.
Fin dai tempi antichi, il rap internazionale ha snobbato il pubblico italiano: non per antipatie particolari, ma per l’esclusione dell’Italia dal circuito di gran parte delle produzione europee. Per anni, la poca risposta di pubblico ha convinto le agenzie a rivolgersi altrove: Eminem è tornato a Milano soltanto l’anno scorso, quando il rap aveva riniziato a fare grossi numeri, e poco dopo è arrivata anche la coppia che scoppia Jay-Z e Beyoncé e poi Post Malone; la data di 6ix9ine a Brescia ebbe il sapore di un evento unico e irripetibile (e non intendo per l’imminente arresto del colorato).
L’Anno Domini 2019 si apre con una première che, nei piani degli organizzatori, doveva essere qualcosa destinato all’underground: la prima data italiana di Eric Whitney AKA Ghostemane era prevista per l’8 febbraio al Locomotiv Club di Bologna. Un locale piuttosto piccolo, per quanto attivissimo e dal calendario interessante: per dare un’idea, a novembre il sottoscritto ci vide Kaos One, non proprio un artista da pubblico oceanico.
I biglietti, però, sono andati rapidamente a ruba, finché l’agenzia Hellfire non ha deciso di spostare la location all’Estragon. Da parte mia, credo sia il caso di fare due considerazioni a riguardo: primo, il pubblico italiano è più attento alla scena rap internazionale di quanto non appaia a prima vista, e non si ferma ai soliti nomi noti; secondo, Ghostemane è un artista talmente particolare da riuscire a portare sotto al palco sia fan del rap sia seguaci di mondi affini.
Eric Whitney è uno di quei personaggi talmente particolari che vale la pena accennare alla sua vita, per approcciare correttamente alla musica: classe 1991, cresce in Florida, perde il padre a diciassette anni, si laurea in astrofisica, trova un lavoro da 65.000 $, poi abbandona tutto per andare a Los Angeles e seguire il sogno della musica. Cresce ascoltando l’hardcore e le frange metal più estreme, dal death all’industrial, fino a scoprire l’hip-hop del sud degli Stati Uniti, e poi avanti con l’ondata trap. Inizia a pubblicare i suoi pezzi su SoundCloud, e tra collettivi e collaborazioni inizia a farsi conoscere come Ghostemane; la viralità sui social network, soprattutto con il video di Mercury, fa il resto.
Ancora fresco dell’uscita dell’ultimo (sensazionale) album, N/O/I/S/E, gridato e prodotto in prima persona dal nostro astrofisico ricoperto di tatuaggi, Ghostemane dà il via a un tour europeo che, grazie al coraggio di Hellfire ed ERocks Production, tocca finalmente l’Italia. Con lui, Horus the Astroneer e Wavy Jone$.
Lo show è su misura per un piccolo club: produzione leggerissima, nessun contributo visivo, nessun effetto speciale, soltanto un buon accompagnamento del lighting e pochi musicisti, molto arrabbiati, sul palco. DJ, batterista, chitarrista, e qualche strana figura mascherata fanno da spalla a un front-man di tutto rispetto: Ghostemane tiene la scena con energia e infuocando un pubblico già su di giri.
Nelle strofe si alterna tra scream e voce dancehall, con qualche spolverata di sussurri à la Trent Reznor qua e là. Ed è proprio dei Nine Inch Nails la cover più riuscita della serata, risvegliando un dubbio che chi vi scrive cova da tempo: il sound di N/O/I/S/E risente pesantemente dell’influenza di Reznor, possibile che il talentuoso premio oscar (e produttore di Marilyn Manson, Saul Williams, eccetera) ci abbia messo direttamente le mani? Rimando la questione ai posteri.
I riff convincono diversi metallari a dare luogo a un pogo scatenato, mentre i drop caratteristici della trap spingono il pubblico più giovane fin sotto al palco. Vengono accontentati anche i nostalgici della techno hardcore, con un DJ ‘solo’ a BPM elevatissimi.
Quello che sulla carta sembra un miscuglio senza fine di influenze disparate, dal vivo funziona alla grande: lo show dura più di un’ora e lascia andare a casa esausti e soddisfatti tutti i presenti. L’udito impiega del tempo per riprendersi dalla doccia di basse frequenze.
Tra i momenti più caldi della serata, sicuramente vale la pena citare l’intro di Flesh e la strofa iper-depressa di D(R)Own, cantata in coro da tutti i presenti:
Fucked up and let down
No one to save me now
So alone, so alone
Face down on the ground
Looked up, saw no light
Everybody lied!
Piccola nota nostalgica in chiusura: lo stage diving poco riuscito di uno dei musicisti, similmente a quello di Cosmo all’ultimo Primo Maggio, ci convince del fatto che l’epoca dei tuffi è definitivamente chiusa. Anche le mandrie di punkettoni e trappari preferiscono salvare il cellulare da mille euro che tengono in mano, piuttosto che afferrare un musicista che ha spiccato il volo. Un po’ triste, ma tant’é. Il crowd surfing invece è andato benissimo, costole rotte a parte.
Tecnico, Marinaio, Giornalista, Intellettuale, Intelligente… non sono niente di tutto questo.