Linkin Park: i dieci brani più significativi della band

di InsideMusic
Vi sono alcune considerazioni da fare, prima di approcciare una panoramica sulla produzione dei Linkin Park. E scegliere dieci canzoni sarà davvero difficile.

Innanzitutto si deve tenere conto della lunga presenza della band, per quasi due decadi, sulle scene internazionali: pur essendo una band poco prolifica, si parla di sette album di inediti, due di remix, tre dal vivo, a cui si aggiungono raccolte, singoli sparsi in edizioni bonus, collaborazioni con altri artisti.

Poi, una seconda difficoltà è data dalla produzione molto sbilanciata del gruppo, caratterizzata da un esordio in major fulminante, lunghi periodi di silenzio, fini annunciate, ritorni inaspettati, successo altalenante di pubblico. Altre formazioni con una storia simile presentano percorsi ancora più travagliati (penso a Cranberries, Evanescence, System Of A Down).

Terzo ma non ultimo elemento di disturbo, la carica emotiva che circonda la band, impossibile da eludere del tutto, e che può essere al massimo domata, lasciata in secondo piano: il giudizio su un fenomeno generazionale rischia sempre di essere distorto; una sensazione che si è rivelata chiarissima nel momento della scomparsa di Chester Bennington, vero choc per una generazione di adolescenti che, ormai cresciuti, hanno visto scomparire quel fratello dato troppi anni per scontato.

Una volta messe le mani così avanti, posso delineare un profilo artistico dei Linkin Park attraverso dieci brani memorabili, giustificando ogni scelta.

Ora, il dittico Hybrid Theory e Meteora, completato dal Live in Texas del 2003, è inevitabilmente il più rappresentato. Nei due album della consacrazione, si nota già il carattere principale del fenomeno Linkin Park: essere una band ‘di lotta e di governo’, come si diceva una volta.

linkin park canzoni

Papercut è il brano che ha schiuso alle nostre orecchie il mondo di Shinoda e soci: loop di batteria e campioni ‘urban’, riff di matrice nu/alternative con chitarre spesso e volentieri droppate verso il basso, la strofa rap incrociata con le parti melodiche.

In genere, prevalgono in questa fase seminale poche soluzioni armonico/melodiche di rilievo, mentre il focus di concentra sull’alternanza dei cantanti, con una certa prevalenza del comparto rap.

Il testo, con continue riprese anaforiche delle parole chiave, riflette alcune ansie del suo tempo: la paranoia di essere sempre osservati, l’incapacità di affrontare la depressione, la confusione di fronte a una realtà fatta di chiaroscuri.

Cavallo di battaglia per tanti anni, tra le più amate da Chester Bennington, Papercut è stata la canzone che ha aperto il millennio: nell’epoca in cui la tracklist di un CD aveva ancora un senso, ha rappresentato a tutti gli effetti il brano ‘primo’.

Crawling prende gli stessi ingredienti, e li mischia in maniera opposta: la voce di Bennington può finalmente splendere in tutte le sue variabili, pulita, gridata di testa, gridata di petto, gridata di diaframma. Ecco, le grida sono un po’ dappertutto, e vengono da un cantante ancora giovane e apparentemente nel pieno della forma. Bella anche la variante acustica proposta nei concerti degli ultimi anni, capace di valorizzare il testo:

There’s something inside me that pulls beneath the surface

Consuming, confusing

This lack of self control I fear is never ending

Nell’ultimo concerto a Monza a questo punto abbiamo pianto in tanti, senza sapere ancora quanto dolore ci aspettava. Viene il dubbio che quella perdita di controllo evocata nel testo fosse già evidente nella voce di Chester, senza che ce ne rendessimo conto.

In The End non può essere esclusa dall’elenco, senza risultare inevitabilmente dei bastian contrari: forse la più radiofonica, la più quadrata, la più prevedibile. Eppure così intensa, non fosse altro per quel I tried so hard, and got so far/But, in the end, it doesn’t even matter urlato contro il mondo. Una nota nostalgica: fu colonna sonora di diversi video tribute primordiali di Youtube, e in qualche modo è diventata un pezzo di storia.

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Passando al secondo album, viene Numb. Si nota già un po’ di mestiere, di strutture ricorrenti; la voce di Bennington è di nuovo l’elemento chiave, e i testi si concentrano sull’insicurezza, sui traumi irrisolti. Splendide le linee vocali sovrapposte nell’ultimo chorus. Il successo di vendite è fuori da ogni previsione, e bisserà con il mush-up Numb/Encore con Jay-Z: per carità, si parla di un rapper tra i più insubordinati della scena, ma è già chiaro quel processo che, rimanendo in metafora, unisce l’attitudine di ‘lotta’ con i compromessi di ‘governo’.

Infine, per chiudere con la prima fase, Breaking The Habit. Esempio di una sperimentazione spinta in un album che doveva essere solo una riconferma: linea ripetitiva di chitarra, pesanti string pad dal comparto tastiere, e un loop drum’n’bass che regge tutta la linea vocale. Memorabile il video psichedelico in stile anime, prodotto dal celebre studio Gonzo e diretto dall’estro grafico di Joe Hahn, DJ della band.

Siamo già a cinque pezzi, e gli anni da coprire sono ancora molti: come si è detto, la carriera dei LP è fortemente sbilanciata, e vissuta spesso in rapporto agli inizi, in termini di continuità o distacco.

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I lunghi anni di attesa prima di vedere Minutes to Midnight, riguardante un’Apocalisse nucleare,fanno temere uno scioglimento. Invece, l’album del 2007 è l’inizio di una nuova rotta: entra in scena Rick Rubin (Red Hot Chili Peppers, U2, Metallica solo in quegli anni), saldamente al comando nel ruolo di produttore artistico. La sua mano è pesante e si incontra con la chiara volontà del gruppo di abbandonare l’alternative. Il risultato è un album dai suoni cristallini, iper-compressi, e dalle tematiche socialmente impegnate (più à la U2 che non alla Rage Against The Machine, sia chiaro).

Vi sono brani scritti con tutti i crismi, capaci di fare breccia nel cuore di chiunque: penso a What I’ve Done, singolo di lancio, o alla delicatissima Leave Out All The Rest. Rimangono però dei compitini fatti fin troppo bene, basati sui proverbiali quattro accordi: scelgo perciò il brano Given Up.

Musicalmente dialoga con gli album precedenti, ma si sente che qualcosa è cambiato: il riff vuole essere aggressivo, ma suona troppo pulito, troppo discreto, troppo pettinato. Ancora la linea vocale regala la vera perla: nel break-down prima dell’ultimo ritornello, Chester trascina una sillaba gridata per oltre sedici secondi, seguita da un cambio repentino in registro pulito, con la prima nota del refrain all’altezza notevole del Si4.

Il contrasto tra musica e testo non può essere più evidente: il soggetto è un dialogo con se stessi, dove il passato è un peso insostenibile, e il futuro privo di speranza. Niente di pettinato, insomma:

God! Put me out of my misery.

E ancora: Tell me what the fuck is wrong with me.

Per l’appunto, quel misery viene gridato per sedici secondi. Solo per ribadire. Sedici secondi.

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Corriamo avanti, limitandoci agli album canonici. Il 2010 è l’anno di A Thousand Sun: un concept che prende i fan in contropiede, distante anni luce dagli esordi per sonorità, per tematiche, per progettazione. Album raffinato, da ascoltare molte volte: il tentativo forse riuscito solo a metà di diventare maturi. Premio Burning In The Skyes perché chiusura di un’introduzione all’album perfetta, in tre tracce, dove i nostri non sbagliano una nota e non sbagliano una parola. Il tema è la distruzione nucleare, ma sempre sotto forma di un dialogo con se stessi: la denuncia sociale si lega all’intimismo che abbiamo già conosciuto.

Da questa canzone in poi, qualcosa nell’album perde di focus, e canzoni valide si mischiano a brani fuori asse. Per fortuna Mike e Chester, mai così posati, dopo un mondo in fiamme ci conducono a un finale tra i più speranzosi di sempre:

When you’ve suffered enough […]

Remember you’re loved, and you always will be.

Ci avviamo verso la fine: Living Things, in quanto successore e insieme traditore dell’album precedente, sarà il grande assente di questa lista, nonostante alcuni brani riusciti.

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Drawbar è la canzone scelta, invece, da The Hunting Party: l’album è piuttosto confuso, indeciso tra citazionismo, messaggi di ribellione, collaborazioni più o meno azzeccate. Ci sono pezzi molto validi, ma premio la coraggiosa Drawbar con Tom Morello: strumentale, con qualcosa di post-rock; in ogni caso, un breve viaggio che apre la parte finale dell’album, la più riuscita. Un pezzo di ‘lotta’, a suo modo: quando anche l’hardcore diventa maniera (e nel 2014 lo era da un pezzo), un vero ribelle sceglie l’introspezione.

Siamo all’ultimo album, il contestatissimo One More Light. I LP ci hanno creduto molto, in questo materiale: le liriche, più di tutto, suonano inquietanti nella loro autenticità, e spesso salvano dei brani altrimenti troppo dimenticabili. Questi sono i primi versi del CD, cantati da Chester Bennington quasi con il sorriso:

I’m dancing with my demons

I’m hanging off the edge.

Due mesi dopo la pubblicazione dell’album, si toglie la vita.

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Scelgo allora la title track, One More Light, che negli ultimi live andava a braccetto con Crawling: l’inizio e la fine di un percorso in caduta libera, che non aveva niente di finto, niente di recitato o di plasticoso. One more light è stata la canzone che Chester dedica all’amico e modello di una vita, Chris Cornell, esempio estremo anche nell’ultimo atto.

Who cares if one more light goes out

In a sky of a million stars.

Per l’ultimo e decimo pezzo, mi permetto di chiudere in maniera frivola: scelgo una canzone inserita solo in una raccolta e in qualche versione bonus di A Thousand Suns; un pezzo senza grandi pretese, ruffiano, ma che dovrebbe stare sui manuali alla voce ‘come comporre una hit rock da stadio’. Parlo di New Divide, brano utilizzato nella colonna sonora del film tamarro per eccellenza, Transformers 2 (che selezione di pezzi in quelli colonna sonora, però!). Il testo non è particolarmente raffinato, ma segue note che tra alti e bassi metterebbero in crisi tanti cantanti professionisti.

Ecco, i Linkin Park preferisco ricordarli così, gridanti e nel pieno della vita; capaci di unire le diverse anime del rock, portando su uno stesso palco Jonathan Davis, Steve Aoki e Bebe Rexha; perfetti nel restituire uno spaccato di inizio millennio alle generazioni che verranno.

Giovanni Seltralia

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