I Kraftwerk ad Ostia Antica: live report e photogallery

di InsideMusic
I Kraftwerk, primigeni pionieri della musica elettronica, sono a Roma per due date, 27 e 28 giugno, nella cornice di Ostia Antica all’interno del festival del Rock in Roma 2019. Noi c’eravamo, fra le rovine e i laser.

Il Teatro Romano di Ostia Antica è una delle venue più belle della capitale. In piedi da millenni, conserva una pregevole acustica ed un colpo d’occhio invidiabile. Chissà se gli attori, cantori, danzatori, che hanno interpretato tante tragedie e tante commedie, declamato tanti monologhi, avrebbero mai potuto immaginare che i Kraftwerk, paladini della musica elettronica e cantastorie cybernetiche, avrebbero mai riempito quelle gradinate?

Della formazione ancestrale dei Kraftwerk (centrale elettrica in tedesco) rimane solamente Ralf Hutter, e non vi è traccia di chitarristi, bassisti, flautisti, dell’inizio, degli anni ‘70: i quattro – Fritz Hilpert, Henning Schmitz, e Falk Grieffenhagen (interamente deputato all’interattività multimediale), oltre a Hutter – hanno scelto di percorrere la via sintetica; una via forse più pura, forse meno tangibile, ma sicuramente valida e modernissima.

Puntualissimi, alle 21:10, il quartetto sale sul palco – tutina cyber di poligoni bianchi su sfondo nero – e ciascuno prende posizione dietro alla propria consolle coloratissima di LED. La folla ancora accorre a prendere posizione sulle gradinate, mentre molti altri tentano ancora di capire come indossare gli occhialini 3D. Lo sguardo, però, mi cade su un uomo, a sinistra del palco: strizzo gli occhi nonostante la miopia, e intravedo sedie a rotelle. Ok, non è un figurante al soldo dei Kraftwerk, ma l’addetto all’assistenza invalidi: pantaloni catarifrangenti arancione evidenziatore, smartphone di fronte a sé, perfettamente in linea con la tematica laser e spaziale della serata.

Si parte dunque con Numbers, un ottimo metodo per imparare i numeri in tedesco: i numeri arabi, dal maxischermo 3D, invadono la platea – ripetizione, 1, 2, 3, 4, 5, 6, permutazioni infinite e alienanti, che perdono di senso. Di certo, mi domando, lo show dei Kraftwerk è pensato per stupire, ma anche per far viaggiare la mente: mi viene da pensare se, senza il sistema numerico decimale, saremmo mai stati in grado di scoprire la teoria dei vasi comunicanti o andare sulla luna. Senza soluzione di continuità, dal sistema decimale si è passato a quello binario di Computer World – Fbi, Deutsche Bank, Scotland Yard – e antichissimi commodore e AMIGA compaiono in rendering 3D sul maxischermo. I suoni raffinatissimi e impeccabili dei synth invadono le antiche rovine (bollenti, sia chiaro), scansione da parte di una civiltà aliena di resti di civiltà dimenticate su un pianeta abbandonato. Computer Love, e il plagio dei Coldplay in Talk da X&Y (ne abbiamo parlato qui), mi riportano coi piedi per terra.

Si prosegue con un classico dei Kraftwerk, The Man-Machine, dualismo uomo macchina, dal disco capolavoro del 1978, che includerà anche Neon Lights, The Models, e Spacelab: non mi ero mai accorta delal genialità della linea vocale del brano, basato su scale pentatoniche di accordi prima maggiori, poi diminuiti; poligoni coloratissimi, scomposti, basi di geometria, Mondrian elettronico, scorrono sullo schermo. Su altrettanto semplici scale è basata Spacelab, la cui resa video è avanguardistica e, per la prima volta, lascia spazio a digressioni su forme di vita intelligente nello spazio: un osservatorio, di una stazione spaziale old-style, su di un pianeta la cui atmosfera è verde – etano, metano, azoto? Come un visitatore non richiesto scorriamo lungo la superficie di quel mondo alieno, spie non desiderate. Un disco volante – a proposito, lo sapevate che il Terzo Reich ebbe in progetto la realizzazione di un VTOL a forma di disco volante? Ovviamente il coso non si alzò più di mezzo metro da terra – appare su uno zoom di Google Maps su Roma. Grazie ragazzi, molto rassicurante.

Si cambia decisamente registro con The Model – dive dimenticate, imbellettate e incipriate in un mondo in bianco e nero, dove non contava avere occhi azzurri o neri, un po’ come nei manga, bellezze sfiorite da decadi – ma la mia mente è ancora concentrata sugli UFO di Hitler e sui beat ripetitivi di Spacelab. I brani proseguono senza sosta, e gli unici movimenti del quartetto sono limitati a un tenere il tempo coi piedi. Neonlight riporta in auge i synth antichi degli anni ’80, quei suoni un po’ lo-fi che ancora imitavano vagamente la realtà analogica di un minimoog, ma le animazioni di reticoli di diffrazione sovrapposte e insegne a neon di bar, sexy shop, farmacie, traslano l’ascoltatore – o lo scienziato che ha avuto la sfiga di avere a che fare con la scienza – verso una dimensione di sofferenza e di libri scoloriti presi in prestito dalle biblioteche. Bassifondi di Hong Kong e Singapore, neuromanti tedeschi. Dopo cotanta claustrofobia, il classico Autobahn, brano che in molti (me compresa) attendevamo da inizio concerto nonostante io ami molte cose ma di certo non le autostrade, con il rendering 3D di un maggiolino Mercedes in una verde autostrada e i suoi suoni ariosi di archi campionati – una risposta elettronica e tedesca alla tanto blasonata road music americana.

L’odioso ronzio di interferenze di un contatore Geiger ci introduce a Geiger counter/Radioactivity, medley pensato per il tour 3D dei nuovi Kraftwerk; brano tremendamente aggiornato, con l’aggiunta di Fukushima fra le tragedie nucleari. Tema, peraltro, particolarmente sentito attualmente, dato lo strepitoso successo della miniserie tv di HBO riguardo il disastro di Chernobyl. Come ho già detto, dietro l’impatto scenico profondamente intellettuale c’è sicuramente la volontà di sconvolgere e far pensare: l’intrusione di “mutation DNA” nelle frasi pronunciate dal vocoder di Hutter mi riporta alla mente – e non avrei voluto – il report clinico della morte per radiazioni. Elettroni, o particelle alfa, che si scontrano contro nuclei massivi: animazione del decadimento nucleare, fonte di energia e fonte di morte. Riguardo ciò i Kraftwerk hanno le idee chiare: il brano si conclude con un ossessivo STOP RADIOACTIVITY che lascia poco spazio a elucubrazioni. Si rimane in tema fisico chimico con le animazioni di Electric Cafè: sullo schermo appaiono quattro frecce allineate che puntano verso l’alto, come i quattro componenti del gruppo, e come NON dovrebbe essere l’orientazione degli elettroni negli orbitali di un atomo di uranio – il principio di esclusione di Pauli che viene violato, e l’esplosione che tutto polverizza. L’uomo con i pantaloni arancioni, poco impressionato, continua a guardare il suo smartphone.

Fortunatamente, dopo tanto terrore, si passa alla vita: la lunghissima suite sul Tour de France, circa quindici minuti di trance agonistica; videotape di eroi su due ruote, ansiti di respiri di cuori giganteschi, ghiacciai che non esistono più nelle tappe alpine. Cambiamo mezzo di trasporto, decisamente più cyberpunk, e ci lanciamo nel sogno positivista mai realizzato del Trans Europa Express: avete mai visto Metropia? Lo sferragliare dei binari diventa musica in Kling Klang Music film, il filmato in 3d dietro alle consolle. La trance qui non è agonistica, è l’estasi del metallo, della civiltà occidentale, sublimata nella traccia successiva: il classico The Robots. Terrificanti androidi/manichini, rigidi e spettrali, modellati sulle fattezze dei Kraftwerk, appaiono sullo schermo: movimenti rigidi, espressioni fisse e gelide; ci sarà mai necessità di applicare le leggi sulla robotica di Isaac Asimov? Ad ora il massimo di robot cui l’uomo comune può aspirare è una calcolatrice tascabile di Mini calculator – numeri appaiono sullo schermo della calcolatrice, senza alcuna correlazione apparente, come in Lost: 9,13,48,56. Rimaniamo, però, nel tema della tecnologia a servizio dell’umanità in Aero dynamik, e liscissime superfici aerodinamiche, ascensori per il nulla, mi riportano alla mente Manifesto di Julian Rosefeldt: nel documentario interpretato da Cate Blanchett il manifesto del Suprematismo russo è declamato da una scienziata che lavora, apparentemente, in un centro di ricerca di super-materiali. Planet of visions è da prologo al grandioso finale, in cui, finalmente, la folla sotto al palco si scalda e si inizia a ballare: ecco in sequenza Boom Boom Tschak, in cui l’onomatopea a fumetto è padrona, la più pop (appunto) Techno Pop. In chiusura, Music non stop: beqquadri, chiavi di soprano e violino e basso, crome, biscrome, pause, notazioni musicale dimenticata, investe feroce l’ascoltatore e il fruitore – andando a suggellare come anche la musica elettronica, per i Kraftwerk, ha e deve avere la stessa dignità di quella concreta, la found music di Brian Eno e il barocco degli italiani e il neoclassico di Mozart.

Uno show, quello dei Kraftwerk, concepito per far riflettere, sconvolgere, ballare; forse, purtroppo, troppo poco fruibile a chi non abbia voglia di seguire gli ipotetici collegamenti fra l’animazione di ogni traccia, e che voglia semplicemente godersi l’esperienza: come Manifesto di Rosefeldt, come un nanotubo di carbonio, come la fusione fredda, il tour 3D dei Kraftwerk rimane un’idea geniale e bellissima. Buonanotte dalle rovine silenziose e dai fantasmi dei suonatori di cetra.

 

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