The Human Equation di Ayreon: la rinascita dell’opera rock!

di InsideMusic
La recensione di The Human Equation di Ayreon sbarca su InsideMusic!

Per qualche fortunosa ragione, nel 1995, il polistrumentalista olandese Arjen Anthony Lucassen, classe 1960 da Hilversum (Paesi Bassi) fondò Ayreon. Una parola esotica, dal sapore nordico, che unisce l’idea che Arjen ha della musica: un mezzo per raccontare e per esprimere emozioni. Un po’ come un antico bardo, che girava di locanda in locanda narrando, col suo strumento, epiche gesta compiute da eroi mitici, persi nella leggenda. Ed in tale figura lontana nel tempo Lucassen si identifica, un ometto biondo dall’aria felice e soddisfatta.

Arjen Lucassen the human equation recensione

Arjen Lucassen, aka Ayreon

Eppure Arjen non ci delizia soltanto con l’arpa a braccio tipica dei bardi medioevali, ma con altri strumenti che ha imparato a padroneggiare, disponendo, evidentemente, di un talento fuori dal comune: chitarra, mandolino, organo Hammond, basso, tastiere, “hawaian guitar” (strumento tanto caro a David Gilmour dei Pink Floyd), l’antichissimo dulcimer (una specie di ibrido fra chitarra e violino tipico della cultura popolare nordeuropea, suonabile sia a corde pizzicate che percosse con un archetto), batteria e percussioni varie. Ultimo ma non meno importante, Lucassen canta con un brillante e cristallino timbro tenorile. Questo porta alla comparsa di un genere ibrido, frutto di fusione con il gusto per l’epico tipicamente nordico ed una ricercatezza melodica e strumentale elevatissima; se a ciò poi si aggiungono suoni sintetici modulati in frequenza e distorti in fase, si vanno ad ampliare praticamente all’infinto le combinazioni possibili. La vera sfida, quando si dispone di così tanti mezzi, è scegliere quelli giusti ed armonizzarli per non scadere nell’eccesso, nel rococò musicale, nel pubblico ludibrio dell’eccesso. Se poi, con tali suoni, si vuole anche raccontare una storia, la faccenda si complica ulteriormente. E se la storia deve e vuole essere raccontata su più piani uditori, spaziali, temporali, il rischio di errare è gargantuesco.

Ma Lucassen non è uno sprovveduto, l’esperienza del bardo è puro oro e sa come farlo fruttare.  Arjen scrive freneticamente spartiti, mescola frasi musicali ed accordi precisi e dissonanti, crea storie e personaggi descritti da liriche e da strumenti ed un genere, unico, è infine nato. Viene alla luce così il primo album, successivo al lavoro solista (misconosciuto) Pools of Sorrow, Waves of Joy, il piccolo gioiello The Final Experiment, pubblicato nel 1995. Prende corpo, in esso, la figura di Ayreon, il cieco menestrello, protagonista di un thriller sci-fi che si consuma fra un oscuro futuro cyberpunk ed un passato avvolto nel mito e nel mistero del mondo di re Artù e Merlino. Si canta di incantesimi e di maledizioni, di Excalibur e del santo Graal.

L’album fu successo di pubblico e critica, rendendo Ayreon una realtà affermata quantomeno in Olanda, e, per gli appassionati delle categorie, trasformando de facto un genere che fino a quel momento era stato slegato dal metal: la rock opera. Già i The Who, nel lontano 1969, pubblicarono Tommy, disco estremamente sperimentale e innovativo per le tematiche psicologiche trattate: un ragazzo che rimane sordo e cieco, e due genitori che non hanno idea su come reagire alla tragedia. Non va poi assolutamente dimenticato l’impatto che ha avuto sulla fioritura dei concept album la pubblicazione di The Dark Side of the Moon, dei Pink Floyd, nel 1973, manifesto programmatico di una nuova idea di rock, più vicina all’opera classica, lontana dagli eccessi pop degli anni ’60. Negli anni ’80 si ebbe una sostanziale diminuzione dell’interesse del pubblico per gli LP che seguissero una propria storia, beneficiando le hit da classifica (con tutto il bene che ne è conseguito), e si deve, per l’appunto, attendere il 1995 con The Final Experiment. Il singolo Sail Away to Avalon, accompagnato da clavicembalo (o forse un’ancora più arcaica spinetta) e fanfare medioevali, fu estratto, il primo a nome di Ayreon ad entrare nelle classifiche.

A tale album seguì la pubblicazione di un album dalle tracce slegate ed unite solo dall’elemento fantasy: Actual Fantasy. L’album fu in insuccesso, e Arjen si ritirò temporaneamente dalle scene, promettendo un solo, ultimo album. Ed ecco apparire, nel 1998, Into the Electric Castle:

Arjen Lucassen the human equation recensione

La’album è un racconto sci-fi (anzi, una space opera), ambientato in un castello semovente aldilà dello spazio e del tempo (gli appassionati di Miyazaki sapranno di cosa sto parlando). Prog ed onnipresente organo Hammond che si mescolano ad elettronica oramai obbligata dall’argomento della narrazione, all’eterea voce di Sharon Den Adel dai conterranei Within Temptation, per creare un capolavoro che, ad ora, rimane l’album targato Ayreon più venduto, e quello che ha salvato la carriera di Arjen. Senza di esso, non avremmo avuto la gigantesca opera metal in due atti, uscita nel 2000 in un doppio LP , Universal Migrator. The Dream Sequencer, ossia il primo atto, analizza il tragico futuro di The Final Experiment arricchendone la cosmologia e dipingendo l’umanità su Marte tramite le voci di una Floor Jansen ancora bambina degli After Forever e di Hedlund dai Tiamat; Flight of the Migrator, invece, usa uno space rock mescolato al progressive rock e alla componente epica del power metal nordico già nota di Ayreon per illustrare lo spazio profondo, immersioni nei buchi neri e supernove in esplosione, ma senza l’efficacia del precedente.

Nel 2004 esce finalmente l’album che andremo a descrivere, ossia The Human Equation. La fantascienza passa in secondo piano, per riportare i virtuosismi strumentali di Lucassen in un mondo terreno, umano, e confinato alla coscienza umana. Ed il fulcro dell’album è proprio l’analisi della composizione della coscienza, come entità uniforme, e, allo stesso tempo, divisa in molteplici altre, che assumono l’aspetto di divinità a volte rassicuranti a volte tentatrici. La trascendenza tanto cercata nei precedenti lavori è trovata proprio nella ristrettezza dell’essere umano. Protagonista di The Human Equation è un uomo, di cui non sappiamo nulla e di cui non sa nulla neppure sé stesso: sa di trovarsi in un letto d’ospedale e che voci sussurrano al suo orecchio. Ma le voci provengono da dentro la sua testa? O è qualcuno al suo capezzale a parlare?

Arjen Lucassen the human equation recensione

L’artwork ricorda connessioni neuronali che si dipanano attorno alla coscienza di un uomo, ossia l’argomento stesso dell’opera. Infatti, attori attivi sono, un po’ come gli Eterni di Gaiman, i sentimenti dell’uomo. Amore, Paura, Rabbia, Agonia, Ragione, Orgoglio, ciascuno interpretato da un diverso cantante. Come se si fosse a teatro, e se l’uomo, circondato da macchinari che lo tengono in vita, fosse solo un oggetto scenico per un cast d’eccellenza che si agita intorno a lui, molto più di ombre danzanti ma creature reali.

Ulteriore enorme merito di Arjen Lucassen è l’essere stato in grado di riunire tanti grandi artisti (presentati nella successiva sezione) in un’unica opera, gigantesca sì, ma sempre facilmente ascoltabile anche per chi intende avvicinarvisi senza incorrere in sofismi troppo complessi.

 E come fu Tommy diviso in più parti, The Human Equation è suddiviso in due CD, concettualmente divisi.

Ayreon’s The Human Equation: Part One

Il disco parte con la breve quanto importante Day one: Vigil, una delicata ballata da un minuto e mezzo che anticipa i temi musicali che ricorreranno in tutto il disco, che si apre in La minore, accordo che stimola, nell’essere umano, un certo senso di attesa, inquietudine, e curiosità. Ci vengono presentati due personaggi, un uomo ed una donna, interpretati da Arjen stesso, forse miglior amico del protagonista, e da Marcela Bovio, la supposta moglie, che parlano fra di loro. Mi ha preso la mano? Può sentirci?, si chiede l’uomo, mentre in sottofondo il bip continuo del monitoraggio cardiaco è il solo segno della presenza del protagonista.

Perché sei così preoccupato?, chiede lei. Le loro parole misteriose aleggiano nel finale, portandoci alla vera ouverture dell’album, Day two: Isolation: finalmente l’uomo parla, sorretto da chitarra ritmica. Si tratta di James LaBrie dei Dream Theater, vocalist di cui Lucassen riconosce la grandezza e cui affida il ruolo più importante e difficile. L’uomo non sa chi sia; eppure parte l’organo Hammond invadente e selvaggio, e ci si presenta Paura. Accordi diminuiti e chitarra elettrica, voce gracchiante dal timbro inconfodibile, ed è Mikeal Akerfeldt degli Opeth a cantare, e tenta con la carta dell’orrore e dell’abbandono il già confuso ego del protagonista. Ma la Ragione (Eric Clayton dai The Saviour Machine) improvvisa un duetto con l’uomo, promettendo di essergli da guida; subentra poi la Passione, assieme ad un cambio di ritmo sorprendente, a motivare l’uomo con un trascinante refrain interpretato dalla voce cristallina di Irene Jansen, sorella di Floor. L’Orgoglio, un ottimo Magnus Ekwall, le fa da eco, ricordando all’uomo che è lui, sempre e solo lui, a dover aver il controllo: il protagonista sembra essere una specie di squalo della vita, una forza inarrestabile. Una decelerazione, un flauto medioevale, e inizia a cantare l’Amore, donna dalla voce calda (Heather Findlay), seduttrice, che rassicura, sorretta dal Sì maggiore della strofa, tranquillizza, offre un petto su cui dormire ed una spalla su cui piangere. Un’illusione dolce e destinata a durare il tempo di un battito di cuore, per poi rituffarsi in modulazioni elettroniche angoscianti, che fanno pensare all’elettricità nei neuroni, alla corrente in un circuito, seguito da un break di chitarra elettrica, basso, e batteria. Infine, in quest’interminabile suite (quasi nove minuti) che introduce i temi musicali ed i personaggi della metal opera, la Passione e l’Orgoglio chiudono il cerchio.

The Human Equation è appena iniziato, calvario del suo protagonista. Si passa a Day Three: Pain. Viene presentato un altro attore, Agonia, interpretato da Devon Graves (Psycothic Waltz): un bellissimo duetto che parte lento, per poi accelerare in un emozionante refrain, di voci che si rincorrono, in cui quella di Agonia è distorta, misteriosa come la morte è, e quella di LaBrie cristallina ed espressiva. È un brano più semplice del precedente, ma che mescola lo scream di Graves, che urla frasi ancora più angosciose di Paura, con intermezzi di chitarra flamenco e flauto e violino. Viene presentato anche Rabbia, cioè un Devin Townsend (ex-Strapping young lad) in stato di grazia, che auspica la rivalsa del protagonista verso gli sconosciuti responsabili della sua condizione. L’Amore gli si alterna per ristabilire l’equilibrio e non cadere nel caos della follia.

Day Four: Mistery è interamente cantata dal Migliore Amico e dalla Moglie, introdotti in Day One. La componente misterica è affidata interamente alle liriche, in quanto la canzone in sé è serena, sembrerebbe parlar d’amore ma in realtà parla di morte (Il mistero sarà svelato o morirà con lui?, si domandano la donna ed il miglior amico) l’unica componente oscura è lasciata al bridge strumentale elettronico e all’organo hammond. È infine la coscienza del protagonista, assieme a Passione, Amore, Orgoglio, ed Agonia, a domandarsi, effettivamente, quale sia il mistero che si cela dietro l’incidente che l’ha portato su quel letto d’ospedale.

La chitarra acustica introduce poi a Day Five: Voices, che prosegue poi serenamente con archi e flauto che ricordano un mondo arcadico, in cui Orgoglio e Ragione tentano di riportare la coscienza confusa del protagonista su di un piano reale; Orgoglio canta in un maestoso Mi maggiore, Ragione, grillo parlante, in un interrogativo Mi minore; Amore rassicura, quelle persone che parlano sembrano familiari. Eppure, Paura, nel bridge in Fa, suggerisce qualcosa di estremamente importante: le voci sospirano colpevoli. Colpevoli di cosa? Gli attori della coscienza smettono di parlare, ed il protagonista sprofonda di nuovo nell’Arcadia della chitarra serena. La canzone si chiude con l’organo Hammond che riprende il motivo iniziale abbassato di un semitono, fornendo di nuovo una componente d’ansia.

Day Six: Childhood si apre con un flauto peruviano ed una melodia triste, che crea una dissonanza col titolo. È forse la canzone più triste in assoluto di Ayreon, un ritratto impietoso dell’infanzia di un uomo immaginario ma estremamente reale in ciò che dice e fa. Assieme a Paura ed Agonia viene cantata una ballad che, accompagnata da archi modulati e percussioni leggere, ripercorre il dolore di un bambino picchiato e maltrattato dal proprio padre. È da lì che nasce la sfiducia del protagonista verso gli esseri umani, la necessità di rinchiudersi in sé stesso con quei fantasmi a cantare con lui, l’incapacità di prendersi cura degli altri.

Day Seven: Hope sarebbe, forse, potuta essere la hit dell’album: ha sonorità anni ’60, da Beatles, ed una durata perfetta per i riff memorabili di tastiera; orecchiabile, narra delle avventure giovanili del protagonista e del Migliore Amico, che lo prega di tornare da lui. La nota di ipocrisia che si inizia ad avvertire nella voce di LaBrie dovrebbe dare un indizio sulla risoluzione del mistero…

Paura, nella forma di Akeferldt, apre Day Eight: School. Si parte con chitarra acustica: Paura consiglia di guardare dentro, di capire le ragioni della sua solitudine, e l’uomo ripercorre il periodo dell’infanzia. Il refrain cambia totalmente: la melodia è dura, sorretta da chitarre elettriche e narrato dallo scream di Rabbia, nella persona di Devon Townsend, che, si sa, non canta mai melodie da lui non composte; il suo tocco si nota eccome. L’uomo è solo, soffre nel ricordare il bullismo e la depressione da esso derivata. Da metà canzone, è come se il sole squarciasse un cielo nuvoloso: archi felici e motivati lasciano spazio a Orgoglio, Ragione, e alla rossa Passione, alla maturità mascolina del protagonista. L’effetto è epico, è geniale, è indimenticabile.

C’è poi la strumentale Day Nine: Playground. Necessaria, per staccare dall’intensità emotiva delle canzoni precedenti ed introdurre un motivo musicale riutilizzato più avanti. Ariosa, deliziosa, dà respiro.

Day Ten: Memories riprende The Human Equation come l’intro dell’album dal terribile bip, bip, bip delle macchine, segno che l’azione si svolge all’esterno della mente. Il migliore amico e la moglie ci danno informazioni, parlando fra loro, sulla condizione del protagonista. La canzone è un bel mix di effetti elettronici e chitarra acustica, e la voce di Marcela Bovio è poesia mentre narra, assieme ad Amore e al Migliore amico, la proposta di matrimonio del protagonista. Tornano infine Passione e Ragione, che si domandano perché, per quale ragione, l’uomo sia ancora intrappolato nel mondo vellutato dei ricordi.

Ma ormai l’uomo è adulto, e c’è spazio, nella sua vita, anche per l’altra metà del cielo. Nasce così Day Eleven: Love, ballata in sol maggiore. L’intro è prettamente metal, ma la canzone evolve poi in una romance medioevale suonata al clavicembalo in cui Amore ed il protagonista ricordano l’incontro fra lui e la futura moglie; nel chorus, chitarra elettrica pesante che riprende il motivo dell’intro e l’accordo in re quinta, intervengono Orgoglio e Passione. Sembrerebbe andare tutto per il meglio, ma Agonia interviene nel bridge, voce deformata come a volerlo nascondere: le insidie dietro l’amore sono le stesse che hanno portato la tua famiglia alla rovina. Eppure il protagonista e la futura moglie hanno continuato a ballare sulle note di un valzer di Listz.

Termina così il disco 1. Un’opera gigantesca e dalla realizzazione certosina, che inizia con la solitudine e finisce col ricordo degli anni d’oro; il protagonista, descritto dalle migliaia di voci nella sua testa e dalle melodie, dalle coloriture, da tutti gli strumenti di Arjen, sembra sempre più reale. Passiamo così alla parte conclusiva di The Human Equation.

Ayreon’s The Human Equation: Part Two

Tanto quanto la parte precedente si era conclusa in tono gioioso, Day Twelve: Trauma apre il sipario in tragedia. A malapena ripetuti nell’intro i motivi di Hope e Love, venogno soppiantati da effetti organistici e sintetici e dal basso interrogativo di Arjen; Ragione, monumentale e pervasivo, canta in mi maggiore baritonale e apre le danze per il growl di Paura. Forse dovevi morire, dice al protagonista. Hai abbandonato tua madre, aggiunge poi Agonia. Il pezzo è progressive, si usano tempi dispari e cambi di ritmo frequenti, e c’è l’organo Hammond, che mancava da un po’. Intermezzo femminile di Passione, che fornisce ariosità e un tocco celestiale alla traccia, anche se, in realtà, annuncia che il fantasma della madre mai, mai, mai, abbandonerà il protagonista. Il tono scende, campane tubulari annunciano l’arrivo di Ragione, grillo parlante cinico e inflessibile; si sfocia in sonorità lente e depressive, death metal. Paura procede sulla stessa falsariga, ma alternando growl e voce pulita in una mescolanza inquietante e disturbante. Orgoglio fornisce poi, con voce acuta, la giusta dose di rivalsa: le note si alzano ed allungano, ma solo per un istante. Day Twelve è, assieme a Day Two, la più bella suite dell’album. La sua teatralità è debitrice, forse, in parte, di canzoni tratte dai musical di Andrew Lloyd Webber, ma non c’è plagio, solo geniale interpretazione.

Ecco Day Thirteen: Sign: flauto arcadico, georgico, ed un guizzo di medioevo si intravede quando inizia a cantare Amore; Arjen ha ritrovato il cantastorie in lui. Gli assoli di violino sono emozionanti ed eleganti, evocano il senso di perdita dell’amore lontano ed abbandonato, la solitudine del cuore. Nel contesto si inserisce perfettamente la voce della Moglie, che prega il marito, in un irish lament, di tornare da lei. Torna il clavicembalo, torna LaBrie per un’accorata richiesta di scuse. Il crescendo finale di voci intrecciante è impareggiabile.

Tanto quanto Sign fu l’amore e l’emozione serena, il sangue che scorre tranquillo nelle vene, Day Fourteen: Pride è un’ode alla violenza che si infligge a se stessi quando ci si costringe a fare qualcosa per soddisfare l’orgoglio. Le ferite dovute ad esso sono ardue da rimarginare; il condizionamento mentale è invece ciò che lo crea. Questi concetti sono meravigliosamente espressi in tale traccia; Pride è un Fantasia disneyano oscuro, progressive, interrotto da flauti andini. Na einai kalitero anthropo apo ton patera tou, sii un uomo migliore di tuo padre.

Campane distorte aprono Day Fifteen: Betrayal. La trama di The Human Equation è qui portata avanti, ed altri tasselli si aggiungono al mosaico: Paura, Ragione, Passione, danno spazio ai pensieri del protagonista riguardo al padre. È sempre stato lui, l’uomo migliore. Bellissima la sezione operistica, violino sincopato ed effetti elettronici, un tocco di space rock da The Final Experiment.

Cornamusa elettrica alla Hevia, violino pizzicato, e sorprendente chitarra folk preludono al growl del Padre, finora deus ex machina del dramma, impersonato da Mike Baker (cantante degli Shadow Gallery, scomparso nel 2008), per la vera hit dell’album: Day Sixteen: Loser. Sei un fottuto perdente, dice al figlio, che giace nel letto d’ospedale. Solo, senza difese, come fu la madre. La melodia degli archi è orecchiabile, da ballata medioevale; Baker canta con grandiosa teatralità, da musical. Lo stacco strumentale è affidato a batteria ed organo hammond, l’intro folk è ripetuto nelle strofe. Lo spazio finale lasciato al growl del caro Devin, Rabbia, chiude ottimamente la traccia.

Torniamo agli effetti elettronici spaziali con Day Seventeen: Accident?, rimpiangendo un po’ di quanto appena ascoltato. Si viene a sapere che “l’incidente” è stato in realtà in auto, nella più classica delle tragedie moderne. Il pezzo è sussurrato dal timbro mascolino di Ragione, che, finalmente spiega, assieme alla Moglie, quanto accaduto. Un bel pezzo rock classico, anni ’70, un po’ The Who, che rivela il perché dell’incidente, ossia un tradimento da parte dell’amata moglie. Rapidamente si scorre verso Day Eighteen: Realization. È il fulcro ideale dell’album, il suo zenith, ed è ottimamente realizzato: Arjen non sbaglia un colpo in questa traccia che parte con corno delicato, e si apre con ariose melodie progressive organistiche e flautistiche. Si prosegue con lo stesso fraseggio ripetuto con chitarra acustica, elettrica, fagotto, effetti elettronici, campionamenti corali, viola, organo Lawrey ed infine Hammond, per un’esplosione rock sinfonico. L’uomo ha capito, il suo orgoglio è rinato dalle proprie ceneri, uccide Agonia. Il cantato è lasciato per l’ultima parte della traccia.

La traccia più corale di tutte è però la penultima (purtroppo), Day Nineteen: Disclosure. Il Migliore amico e la Moglie ammettono il tradimento, ma giurano eterno affetto e dedizione solo all’uomo che giace lì, per colpa loro, in quel letto d’ospedale. Arjen e Marcela Bovio si inseguono in una ballad lenta e sofferta, in un disperato tentativi di chiedere scusa. La voce della Bovio è celestiale, tenterebbe anche gli angeli. Unico stacco strumentale è affidato ad organo Hammond ed assolo di chitarra elettrica.

Siamo alla fine. Si torna su toni oscuri dell’inizio di The Human Equation con Day Twenty: Confrontation. La traccia è quasi gothic metal, ricorda i Sirenia, e colpisce corde dell’animo profondo con quelle chitarre ed il cantato operistico. Bentornato alla realtà, dice Agonia; Vieni da me, ti amerò sempre, dicono la Moglie ed Amore. Bentornato alla realtà!, fa eco Ragione. Hai vinto la tua battaglia, conclude Orgoglio. Il crescendo progressive porta al chorus finale, in cui, finalmente, LaBrie esclama: SONO VIVO!

Eppure, c’è spazio per un’ultima sorpresa. Qualche attimo dopo il termine di Confrontation, una voce robotica annuncia la fine dell’esperimento dell’equazione umana, e l’inizializzazione del Dream Sequencer. L’album si chiude dunque con una domanda che ossessiona da sempre l’umanità: come si distingue la realtà dal sogno? La Moglie ed il Miglior Amico sono realmente più veri di Passione, Amore, Paura, Orgoglio, Ragione, Agonia? Dove finisce la realtà ed inizia la fantasia?

In conclusione, The Human Equation di Ayreon è un’opera monumentale che merita, sempre, almeno un ascolto; la prima parte è meravigliosa ed impeccabile. Gli attori hanno dato il meglio di sé in ogni occasione, complice anche l’ottima scrittura da parte di Lucassen e la scelta di dar carta bianca a Devin Townsend. Star dell’album è ovviamente James LaBrie, uno dei vocalist migliori nella scena metal internazionale: il suo timbro tenorile ha fornito personalità ad un personaggio di fantasia.. Sono stati inoltre realizzati videoclip di Loser, Hope, Isolation, e Love. È  stato tratto un rarissimo dvd live, The Theater Equation, un vero e proprio musical con gli interpreti originali (con la sostituzione di Akerfeldt, Lucassen, e Townsend) di cui sono state, purtroppo, svolte solo cinque date.

Arjen Lucassen the human equation recensione

Mike Mills (nel ruolo di Rabbia) e James LaBrie Credits to Bert Treep from www.teamrock.com

Spero di essere stata in grado di convincervi a darle un’opportunità, non ve ne pentirete. Spero di essere stata in grado di convincervi a darle un’opportunità, non ve ne pentirete.

A cura di Giulia Della Pelle

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