Siberia, “Si vuole scappare” rappresenta in qualche modo un titolo generazionale.

di InsideMusic

Ospiti di questo primo Gioved-INDIE primaverile i Siberia, band livornese che lo scorso 23 febbraio ha pubblicato il secondo album in studio “Si vuole scappare” per l’etichetta Maciste Dischi. L’indipendenza di una generazione può essere ricercata nella costante fuga? Abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con Eugenio Sournia, voce ed autore dei testi del gruppo dark pop che lotta contro il tempo e la fragilità.

Ciao Eugenio, benvenuto nella nostra rubrica del giovedì più indipendente del web, Gioved-INDIE, domanda introduttiva generale: cos’è per te l’INDIE e cosa si mantiene ancora INDIPENDENTE?
Bella domanda! Al di là di quello che può essere il significato storico dei termini indipendente e mainstream, ho sempre inteso fare una grossa distinzione: la musica indipendente cerca in primis di essere di qualità ed ha solo come fine accessorio ma non necessario quello di ottenere buoni riscontri a livello economico; la musica mainstream, invece, pone al centro la riuscita economica, ciò non toglie che questa possa essere altrettanto se non più valida. Personalmente, tra questi due universi, scelgo quello indipendente, ora come ora mi interessa maggiormente la qualità rispetto al riscontro del pubblico ed è un obiettivo che io mi sforzerò di perseguire sempre. Ho avuto la fortuna di relazionarmi con persone dalle idee molto forti, sono stato educato da un padre è totalmente agnostico e da una madre completamente cattolica e ciò mi ha permesso di sperimentare punti vista estremi, ponendomi grossi quesiti sin da piccolo in un mondo nel quale raramente si entra in contatto con le grandi domande: più che indipendente, credo che questa cosa mi renda diverso a livello di mentalità rispetto a tante altre persone.

Perché avete deciso di chiamarvi Siberia? Vista e considerata l’affinità musicale, si tratta di un richiamo all’omonimo album dei Diaframma?
È una domanda alla quale cerchiamo di rispondere sempre con grande onestà. Nel momento in cui decidemmo di chiamarci in questo modo avevamo sentito parlare dei Diaframma, ma non eravamo a conoscenza di questo disco, quindi non facemmo mente locale su questa similitudine. Eravamo relativamente piccoli d’età e colpevolmente ignorammo quest’album, che rappresenta una pietra miliare. Purtroppo ero molto esterofilo, mi piacevano i Joy Division ed ignoravo il fatto che a pochi chilometri dalla mia Livorno, a Firenze, ci fosse una band seminale. La fascinazione per il nome “Siberia” è giunta dal libro di Nicolai Lilin “Educazione Siberiana”, ma non vuole essere più che un omaggio, i testi della band trattano tematiche anche molto distanti da quelle di Lilin. Inoltre il termine “Siberia” lo ritenevamo calzante per il progetto sia foneticamente sia nell’immaginario.

Il vostro nuovo album s’intitola “Si vuole scappare”. Secondo te da cosa rifugge e quanto è indipendente la nostra generazione?
“Si vuole scappare” è stato un titolo molto sofferto, le canzoni dell’album sono state tutte scritte in un lasso di tempo piuttosto breve, circa un anno, e solo successivamente alle registrazioni abbiamo deciso di intitolare il disco in questo modo. Credo che per quanto si cerchi di essere corali non si è mai del tutto indipendenti da se stessi e per quanto si cerchi di parlare di se stessi non si è mai del tutto scevri dall’essere corali. Penso che si tratti in qualche modo di un titolo generazionale. Da cosa vogliamo scappare? In primis dall’età adulta, anche la stessa musica indie italiana attuale insiste sulle tematiche della nostalgia, così come accade anche per quanto riguarda alcune pagine Facebook legate al calcio. Questa paura di fare il grande salto verso l’età adulta riguarda anche me, non mi tiro fuori da queste problematiche che rivivo in primissima persona. Inoltre, denoto una fuga dalla realtà che coinvolge non solo le generazioni più giovani ma anche i quarantenni ed i cinquantenni, pensando principalmente all’influenza della tecnologia sulle nostre vite, al numero di ore che noi ogni giorno trascorriamo nel mondo virtuale. Auspico un grande ritorno al concreto non solo per gli altri, ma anche e soprattutto per me stesso siccome questi fenomeni accadono nella mia vita ed in quella delle persone a me vicine.

“Nuovo pop italiano” è il pezzo promozionale del disco. Sentite in qualche modo di appartenere a questo freschissimo movimento musicale tutt’ora in atto?
Sì e no. È indubbio che sia in atto un’onda, “Nuovo pop italiano” è un grande hashtag in cui tutti ci vorrebbero salire, ma al tempo stesso bisogna esser capaci di individuare i primi scricchiolii e sganciarsene quando il trend topic comincia a svanire. Nonostante abbia una discreta padronanza con la lingua inglese, scrivo da sempre in italiano perché mi consente maggiori sfumature, sicuramente sentiamo di appartenere a questa scena anche perché c’è una certa identità di contenuti. Forse quello che ci differenzia dal nuovo pop italiano è l’attitudine. Io sono solito distinguere due filoni di questo nuovo pop italiano: un filone un po’ più svagato, al quale appartengono Gazzelle, Galeffi, Calcutta, ovvero artisti che parlano della vita quotidiana in termini esplicitamente pop, ed un filone molto più cupo ed incazzato, rappresentato dai Ministri, i Fast Animals and Slow Kids. Nel rispetto di questi  due filoni noi in qualche modo ci sentiamo di costituire un terzo polo, trattando tematiche comuni con un’indole riflessiva, con un nostro stilo ed un personale marchio di fabbrica.

Nel 2015 avete partecipato alle selezioni di Sarà Sanremo con il brano “Gioia”. Che cosa avete imparato da quell’esperienza?
La partecipazione a Sanremo ci ha tolto la classica “paura” dei ragazzini provenienti dall’underground nell’approcciarsi al mondo mainstream, regalandoci diversi risvolti positivi, a cominciare dalla preparazione tecnica e dall’organizzazione dello staff, spesso un concerto avviene in condizioni disagiate a livello di fonica e di mezzi. Abbiamo avuto modo di vedere come la canzone italiana abbia tante sfaccettature, quell’anno erano in gara anche Ermal Meta e Francesco Gabbani, i quali hanno poi intrapreso una carriera folgorante. Tra l’altro la canzone “Gioia” non venne in alcun modo pensata in ottica Sanremese, fu un tentativo, una scommessa fatta senza neanche troppa convinzione, poi ci ritrovammo a competere, appunto, con artisti che di lì a poco sarebbero diventati piccoli mostri sacri dell’odierna scena italiana. È stata un’esperienza positiva e formativa, quel giorno ricordo che dissi al mio chitarrista Matteo di aver deciso proprio quella sera di fare il musicista.

Quali sono le vostre principali influenze sia per quanto concerne i testi sia riguardo le sonorità? C’è un canzone in particolare che avreste voluto scrivere?
Dunque, sono io ad occuparmi della scrittura di testi e musica, anche se tutta la parte dell’arrangiamento è divisa tra band e produttore. Per quanto riguarda i testi, ho sempre avuto difficoltà a confrontarmi con i mostri sacri della musica italiani, De Andrè su tutti, ma anche De Gregori, Guccini e Battiato, per molti anni ho evitato quasi volontariamente di ascoltarli perché avevo il timore di essere troppo influenzato dalle loro opere. Se dovessi citare due band che mi hanno ispirato parecchio a livello di testi ti direi i CCCP Fedeli alla linea, anche come riferimento per quanto concerne i temi trattati, ed i Baustelle, band che più immediatamente richiamiamo ed alla quali spesso con onore veniamo accostati. Oltre ad essere un ottimo autore, Francesco Bianconi è stato capace di farmi giungere una sorta di “Bignami” della musica italiana, grazie alla sua opera son riuscito a condensare tante influenze, in seguito approfondite singolarmente, come ad esempio Luigi Tenco: se dovessi pensare al mio modello di scrittura, credo di avvicinarmi al suo linguaggio semplice, colto ma al tempo stesso alla portata di tutti. Invece, per quanto riguarda i suoni, siamo partiti come una band indie rock molto chitarristica, infatti all’inizio volevamo limitare il più possibile l’utilizzo delle tastiere e degli strumenti non analogici, poi con il tempo ci siamo accorti che ciò avrebbe potuto confinarci in una sorta di nicchia a livello sonoro. Il primo disco possiede alcune doti di modernità, ma sicuramente può essere inserito in un canone ben preciso, nel secondo album, invece, abbiamo cercato, grazie anche all’aiuto del nostro produttore Federico Nardelli, di creare un suono più moderno, ma che non tradisse la nostra identità. Abbiamo, dunque, cercato di innovarci, ad esempio il nostro batterista ascolta moltissima musica elettronica francese.

La vostra scena, quella toscana, ha sfornato artisti del calibro di Motta e The Zen Circus. Credete di poter ripercorrere il loro percorso?
Penso che l’ambizione sia quella di ripercorrere la carriera dei The Zen Circus, magari anche Motta, il quale però è esploso come solista. Sicuramente rappresentano buoni modelli per quello che ci proponiamo di fare, in particolare i The Zen Circus hanno suonato per molti anni nell’underground e, solo dopo aver pubblicato diversi album, sono riusciti ad emergere sino in fondo, la loro non è stata un’esplosione paragonabile a quella dei nuovi artisti indie, i quali magari con un solo disco all’attivo fanno registrano il sold out facilmente. Puntiamo ad avere un’identità ben precisa, a fare musica per tanti anni e magari a rinnovarci sempre, a cambiare pelle così come avvenuto un po’ nel passaggio dal primo al secondo lavoro discografico.

“Si vuole scappare” è stato prodotto ed arrangiato da Federico Nardelli di Maciste Dischi? Com’è nata questa collaborazione con lui e con la label indipendente?
Abbiamo avuto la fortuna di essere tra i primi artisti del roster della Maciste Dischi, il nostro primo disco fu prodotto dall’etichetta nel 2015. Si tratta di un percorso che poi si è rivelato vincente, la label ci ha sempre dato massima fiducia, è un rapporto sicuramente proficuo. Sebbene non siano mancati momenti più duri, abbiamo sempre avuto la possibilità di interfacciarci con figure che affrontano unicamente questa professione senza dedicarsi ad altri impieghi. Federico Nardelli è un ragazzo molto giovane, non lo conoscevamo di persona, ci fu proposto dal nostro manager, così iniziammo a collaborare a distanza con lui, rimanendo sin da subito super soddisfatti del lavoro svolto, senza snaturarci. In Italia ci sono poche band che fanno musica pop, mi vengono in mente i Canova o i Baustelle, mentre la maggior parte sono confinate in generi strumentali come il post rock o connotate da una certa aggressività. Nardelli, dunque, è stato bravo a coniugare il nostro desiderio di far parte di questa nuova scena pop senza andare a tradire le nostre attitudini da band, probabilmente è stato questo il punto di forza di questa collaborazione. Ci auguriamo di poter collaborare ancora con Federico in futuro, è stato molto piacevole umanamente registrare il disco con lui.

Ti saluto con un gioco: Scegli un tuo collega indipendente extra scena toscana a cui inviare un messaggio, una nota di stima, un vaffanculo, chiedere un featuring, io proverò a sentirlo ed aprirò la sua intervista con il tuo appello. Chi scegli e cosa senti di dirgli?
Premetto di essere una persona estremamente polemica, faccio prima a dire quali sono le persone che stimo rispetto a quelle che non stimo. Purtroppo sono io ad avere gusti difficili, ascolto pochissima musica, principalmente mentre gioco a Fifa. Scelgo i Coma_Cose, sono affascinato da questa commissione indie-rap, in qualche modo si tratta di un ritorno all’importanza del testo. Fausto è un songwriter maturo, tradisce di aver avuto ascolti più impegnativi e di non utilizzarli solo in chiave di citazione, ma anche di rielaborarli. Un featuring con loro ci piacerebbe sicuramente parecchio, se Fausto ha saputo rielaborare alla grande Battisti, rielaborare Sournia sarà un gioco per lui. Oppure ti direi anche Cosmo, abbiamo alcuni brani che si presterebbero molto ad un remix in chiave più elettronica.

A cura di Lorenzo Scuotto

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