Il Tè nel Deserto di Bernardo Bertolucci: esotismo e sensualita della soundtrack di Ryūichi Sakamoto

di InsideMusic
Nel 1990 uscì Il tè nel Deserto, film di Bernardo Bertolucci con John Malkovic, Debra Winger, e Campbell Scott, con colonna sonora di Ryūichi Sakamoto, che gli valse un Golden Globe. Ecco il nuovo episodio di Fra Note e Popcorn

Il recentemente scomparso Bernardo Bertolucci ha lasciato un vuoto enorme nel mondo del cinema. Una carriera stratosferica, anche se iniziata per merito di Pierpaolo Pasolini che lo volle come assistente in Accattone, tonnellate di premi – due Oscar, tre Golden Globe, due David di Donatello, un Nastro d’Argento, un Leone d’oro e una Palma D’oro – e film iconici che l’hanno consacrato come una delle divinità del cinema moderno.

È stato difficile scegliere un film con cui ricordarlo, fra Ultimo tango a Parigi, The Dreamers, L’Ultimo Imperatore, e l’indimenticabile Novecento; fra tutti, però, quello che ho trovato più bertolucciano è stato The Sheltering Sky, o IL tè nel Deserto, del 1990, tratto da un romanzo omonimo del 1949 di Paul Bowles. Perché il valore di un artista non si basa sui suoi capolavori, ma sui prodotti di routine: la qualità, assoluta, si assume sulle lunghe distanze, non sui picchi himalayani; laddove un film di routine di Steven Spielberg è Amistad, un film di routine di Bernardo Bertolucci è indubbiamente Il Tè nel Deserto.

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Campell Scott e Debra Winger.

Anni ’40, Algeria. Tre ricconi inglesi, composti dalla coppia formata da Port Moresby (John Malkovic) e Kit (Debra Winger) e dall’amico di Port, George Tunner (Campbell Scott), approdano a Tangeri in Algeria. Tralasciando il fatto che il personaggio di John Malkovic si chiama come la capitale della Papua Nuova Guinea, il terzetto – e le loro valigie, ingombranti più di un intero villaggio – si mettono in viaggio per il selvaggio Sahara, totalmente ignari dei pericoli che contiene. Così, fra scappatelle di Kit con Tunner e di Port con prostitute locali, l’orrenda coppia madre-figlio composta dalla Signora Lyle, giornalista di viaggi, e Eric Lyle (un particolarmente disturbante Timothy Spal; per imeno avvezzi, è il tipo che ha interpretato Codaliscia nei film di Harry Potter), che spende tutti i suoi soldi in sigarette e non ha interesse nei confronti della propria dirompente acne, il terzetto si addentra nel deserto perdendo però per strada Tunner, che ricomparirà solo a fine film. Ad un certo punto, il buon Port contrae la febbre tifoide – scelta un po’ sbagliata da parte non si sa del traduttore o dello scrittore, in quanto di febbre tifoide non si schiatta – e muore in un avamposto della Legione Straniera. Di Tunner non si hanno notizie, Kit pensa bene di unirsi ad una carovana di Tuareg, capitanata dal bel Belqassim (il maestro di danza classica francese Eric Vu-Han). Dopo tale evento, Il Tè nel Deserto si occuperà esclusivamente di Kit e della sua triste avventura in Niger.

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Il tè nel deserto finisce in modo dolceamaro, con un finale aperto, e soddisfacente secondo il mood momentaneo del fruitore. Data la carica erotica degli attori scelti, una certa morbosità di fondo è estremamente calcata ed evidente, a tratti quasi noiosa. Il tè nel deserto manca della desolazione antiromantica di Ultimo Tango a Parigi e anche dell’idillio di Io e Te: i tre protagonisti sono tutti odiosi, ad eccezione di Tunner, per il quale un po’ si empatizza, venendo brutalmente abbandonato dalla coppia in mezzo all’Algeria profonda. Port, invece, dice di se stesso di essere un viaggiatore nato, ma è l’emblema dell’inadeguatezza dell’uomo moderno di fronte alle zone della Madre Terra ancora non domate dal capitalismo americano, quali il profondo Sahara con i suoi uomini vestiti di Blu. Il personaggio tratteggiato in maniera peggiore è però la povera Kit, tramite cui una certa misoginia di fondo è nascosta in bella vista: totalmente priva di qualunque definizione caratteriale per tre quarti del film, dopo la morte del marito – di cui si prende amorevolmente cura fino alla fine e che muore fra le sue braccia – sembra assurgere ad un ruolo di Santa Maria Egiziaca, una penitente del deserto, una peccatrice destinata ad una vita di eremitaggio e nutrirsi solo alle fonti d’acqua salata come il Mar Morto presenti nel Grande Erg. Come se Kit si definisse come persona solamente tramite la sofferenza e la desolazione che la circondano durante il viaggio con la caravana Tuareg, cammelli dondolanti e vesti scure; come la sua unica funzione fosse relegata ad essere un oggettino sessuale di Port, di Tunner, del Principe Tuareg che la prende in moglie. Caratteristica presente più o meno in qualunque opera di Bernardo Bertolucci, cui sono state mosse più e più volte accuse di misoginia, maschilismo, a partire dalle dichiarazione di Maria Schneider, interprete femminile di Ultimo Tango a Parigi in coppia con Marlon Brando: le donne di Bertolucci sono funzione della storia, il più delle volte di redenzione; sono tutte Lilith e Eva, creature che esistono solo per sporcare l’Uomo, non sono persone. Non si capisce perché Debra Winger non abbia rifiutato l’ingaggio, essendo peraltro un’attrice già affermata ed apprezzata nel panorama internazionale.

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Bernardo Bertolucci e Vittorio Storaro.

Il tè nel deserto ha, però, anche dei lati positivi. La scenografia e la fotografia sono splendide. Quest’ultima, curata dal Maestro Vittorio Storaro, che aveva già vinto tre oscar, per Apocalypse Now, Reds, e L’Ultimo Imperatore già con Bertolucci, è fatta di colori bollenti, di luci accecanti che svelano ogni gocciolina di sudore malato sulla fronte del morente Port, ogni lacrima d’acqua nell’assetato deserto; ogni foglia verde in ogni minuscola oasi. Tutto è pervaso da un’aura di esotismo, mentre i tre protagonisti occidentali sembrano solo oopart, accessori fuori posto, che non appartengono alle case di mattoni di fango, alle selle ricamate dei cammelli, ai tappeti impolverati. La parte migliore del film, per quanto assurdo, è quella dominata dal silenzio e impregnata della luce di Vittorio Storaro, ossia la stanzetta del forte della Legione Straniera in cui, alla fine, Port morirà. Il vento della tempesta di sabbia si fa strada attraverso le imposte disseccate, e tinge ogni cosa d’oro. A ciò si aggiunge l’accurata scelta scenografica di Gianni Silvestri, cui si deve la scena in cui Kit e Port scalano la montagna nel deserto (in immagine).

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Insomma, Il Tè nel Deserto è un polpettone di falafel magnificamente confezionato, interpretato da attori belli come il sole, desolante, e meravigliosamente anacronistico. A ciò si aggiunge anche l’atmosfera creata dalla colonna sonora di Ryūichi Sakamoto, uno fra i compositori elettro-classici giapponesi che sono, attualmente, alla base delle mini-rivoluzioni culturali dell’Umanità, quale anche Susumu Hirasawa, Joe Hisashi e Nobuo Wematsu. La colonna sonora di Il Tè nel Deserto è valsa a Sakamoto un Golden Globe.

Sakamoto aveva già firmato la colonna sonora de L’Ultimo Imperatore; e fimerà, poi, quella di Piccolo Buddha e The Revenant, film che ha valso a Leonardo diCaprio il tanto agognato Oscar. Possiede un background di musica elettronica, dal momento che è membro degli Yellow Magic Orchestra, un trio di musicisti giapponesi eclettici che fondono svariati generi fra di loro e attivi fin dai tardi ’70: sfavillanti, gioiosi, antitetici al synth pop low-key che gravitava in Europa in quel periodo. Se solo ci regalassero una collaborazione con Giorgio Moroder… Alla soundtrack ha partecipato anche Richard Horowitz, compositore americano specializzato nella found music.

Ad ogni modo, Sakamoto si è trasformato in un pianista classico per la colonna sonora di Il tè nel deserto, e, all’occorrenza, direttore d’orchestra, mostrando, come già fatto per L’ultimo imperatore, un’enorme duttilità musicale. C’è però da dire che la colonna sonora di Il tè nel deserto è ricchissima di elementi di world music e musica tribale, quindi il ruolo di Sakamoto è stato principalmente quello di riunire in modo coerenze le sonorità atte a movimentare l’impianto scenico – impressionante, come ho già detto – e comporre un main theme che rimanesse iconico.

Tracklist e Artwork della colonna sonora di Il tè nel Deserto

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1 The Sacred Koran (Recitations)
2 The Sheltering Sky Theme
3 Belly
4 Port’s Composition
5 On The Bed (Dream)
6 Loneliness
7 On The Hill
8 Kyoto
9 Cemetery
10 Dying
11 Market
12 Grand Hotel
13 The Sheltering Sky Theme (Piano Version)
14 Je Chante
15 Midnight Sun
16 Fever Ride
17 Chant Avec Cithare
18 Marnia’s Tent
19 Goulou Limma
20 Happy Bus Ride
21 Night Train

Il tema principale è, infatti, composto di archi e accordi diminuiti che straziano l’anima e creano un tremendo senso di nostalgia, intervallati da distantissime percussioni; di una bellezza così eterea da rivaleggiare col tema di The Mission. Presente è anche la versione al pianoforte, bellissima ballata minimal tanto da far invidia ad alcune composizioni di Ludovico Einaudi. Viene declinato con estrema dolcezza in Belly, brano in cui il terzetto dei protagonisti ancora era a Tangeri, nella civiltà. Ho omesso di raccontare che il lavoro con cui Port Moresby sembra tirare a campare è quello del compositore, ed un piccolo brano da lui composto si può udire nel film: nella soundtrack è chiamato Port’s Composition. Si tratta di un breve pezzo di musica barocca, ricca di contrappunti ed angosciose orchestrazioni, che alla fine convergono nel main theme reinterpretato più low-key di On the Bed (Dream), momento di una delle tante litigate stucchevoli fra Port e Kit. La grandezza del panorama sahariano è ben espressa in Loneliness, ballata al pianoforte in cui viene riproposto il main theme, e che descrive il momento in cui Kit è totalmente persa, dopo la morte del marito.

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Un netto stacco è On the Hill, colonna sonora della scena in cui Kit e Port, apparentemente felici e innamorati, scalano la collina nel deserto: struggente coi suoi accordi lentissimi, evocativi di enormi distese. Le brevi note dissonanti e affilate di Kyoto ci conducono a Cemetery, che anima la scena in cui, in un cimitero di una cittadina nel nulla del deserto in cui Kit e Port stanno soggiornando, Port annuncia di aver freddo, mentre camminano fra lapidi disseccate. È il preludio alla febbre tifoide che lo porterà alla morte; accordi diminuti e fiati dolcissimi, una nenia mortale. La morte avviene con Dying, brano neoclassico in cui archi bassi, vibranti, crescono in un malinconico addio; il vento del deserto porta la sabbia nella stanza ed il tema principale fa capolino con timidezza.

La tracklist dei brani non segue la cronologia in cui si odono nel film, ed abbiamo dunque, ora, Market, soundtrack del vagabondaggio solitario di Port a Tangeri. Archi, orientaleggianti, che finiscono in un’esplosione finale di timpani tremendamente angosciosa. Il finale della porzione composta da Ryuichi Sakamoto della colonna sonora di Il Tè nel Deserto è affidato a Grand Hotel, ossia l’ultimo hotel in cui i nostri soggiornano prima di sparire dai radar della civiltà: salgono sul terrazzo e si godono il distante paesaggio dei monti polverosi, fra archi sincopati che divengon il tema principale, e grida di beduini. Presente è anche Happy Bus Ride che porta la firma di Sakamoto, quando il trio Port-Kit-Tunner era ancora riunito: in un autobus stracolmo, mosche assediano i viaggiatori, ed un canto popolare si alza.

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La seconda parte della colonna sonora è affidata a grandi classici anni ’40 e a alla found music. Vi sono richiami alla preghiera giornaliera, come in The Sacred Koran, e brani arabi come Goulou Limma della cantante Chaba Zahouiana, talentuosissima artista algerino-marocchina che è fra gli esponenti più noti della musica rai, tipico folk del mondo arabo mediterraneo. Troviamo Je Chante di Charles Trenet, storico cantautore e paroliere francese, e Midnight Sun di Lionel Hampton, jazzista, xylofonista, e swing man indimenticabile. I brani composti da Richard Horowitz (che sembra poi essere sparito dalla circolazione) sono Fever Ride, relativi alla tragica corsa in autobus durante la quale Port ha la febbre alta, è assediato dalle mosche, e Kit cerca disperatemente un hotel. Archi e mani che applaudono, piedi che battono a terra, flauti folk: ed inizia il viaggio sempre più addentro a quella terra feroce. Proprio in quella città, Kit lascerà Port in mezzo ai vicoli, e lo ritroverà attorniato da musicisti del posto che si diletttano in una folle musica psichedelica, che di certo nonaiuta la condizione fisica dell’uomo.

Marnia’s tent descrive il momento in cui Port tradisce Kit con una prostituta beduina: percussioni e flauti folk, l’accampamento è silenzioso nella notte e lei è bellissima.

La colonna sonora di Il tè nel deserto si chiude con Night Train, breve brano di Horowitz che descrive la carovana cui si unisce l’infelice Kit.

Il tè nel deserto è un film molto, molto, sensuale. Con un’enorme carica erotica, ma anche desolante. Un terzetto di ingenui, presi dai loro problemi, incapace di resistere alla ferocia del mondo reale; ai mostri che animano il Sahara, dalla febbre tifoide alle mogli dei bei beduini; un luogo crudele, che parla con loro, ne permea le vite, un personaggio che non parla mai con voce umana eppure che dirige ogni cosa. Il tè nel deserto va, dunque, giudicato per quel che è: un’esperienza sensoriale.

Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita, forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna… forse venti, eppure tutto sembra senza limite.

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