Siamo andati a prendere un caffè con Jacopo Lodigiani, in arte P-Greco: artista dell’hinterland milanese classe ’96, al momento sotto i riflettori, dopo anni di gavetta, per essere stato l’artista più premiato della finale durante l’Emergenza Music Festival grazie alla performance del 29 Giugno all’Alcatraz di Milano, che gli è valsa anche un contratto discografico con la Krishna Records.
Abbiamo fatto due chiacchiere parlando della sua adolescenza, di musica, della provincia, e dell’album in uscita a breve.
Partiamo da zero e parliamo di P-Greco: da dove nasce questo progetto? Che cosa ti ha portato a fare quello che fai?
È bello per me parlare di “progetto P-Greco”, perché di fatto P-Greco sono solo io, mi assumo tutte le responsabilità, anche se dietro di me c’è da sempre anche il mio produttore, Eski-B.
In realtà il progetto è mutato molto negli anni: inizialmente ero solo un ragazzino che rappava, forse anche solo per moda, seguendo l’onda lunga della Machete nel 2013/2014, di fatto ho iniziato ascoltando Nitro.
La strada definitiva e attuale, però, che questo progetto ha imboccato è quella di tentare di fare sentire meno soli i ragazzi: in un’era in cui si tende molto a isolarsi, a cercare senza successo la soluzione ai nostri problemi su internet o sui vari social network, io voglio rappresenta quella soluzione, quella risposta che si va cercando, veicolandola tramite la musica.
In particolare i social media sono strumenti molto versatili, tutto dipende dall’utilizzo che ne si fa: credo personalmente di essere riuscito a utilizzare un tipo di comunicazione pensata per essere veicolata in modo massificato e massificante, in maniera diversa dal convenzionale, veicolando un messaggio positivo e particolarmente intimistico.
Qual è stata la scintilla che ti ha fatto capire di dover cambiare approccio al rap?
All’inizio si cominciano a scrivere le prime battute e, per usare un francesismo, si fa cagare, capita a tutti.
Ciò che cambia le carte in tavola è il passare del tempo, che permette di maturare una sempre maggiore tecnica e consapevolezza artistica.
Quando, andando avanti, ci si rende conto che quel che si produce funziona, quando, parlando di tematiche intime e per certi aspetti anche spaventosamente delicate, le persone cominciano a ringraziarti perché ascoltando la tua musica riescono a identificarsi e a sentirsi meno sole, allora la direzione è giusta, e merita di essere perseguita.
Ma allora per chi fai musica? Per te o per il pubblico?
Tutto ciò che faccio mi appartiene. Se parlo di certe tematiche, e se faccio musica in un certo modo, allora vuol dire che quelle idee e quei suoni sono miei, li sento miei, li ho.
Mi reputo una di quelle persone che ha avuto la fortuna, o la sfortuna, di aver vissuto svariate vite: mi capita a volte di dover parlare con un amico riguardo un qualsiasi problema o situazione spiacevole, e molto spesso so esattamente cosa dire, perché avendo vissuto talmente tante situazioni differenti credo di potermi permettere il lusso di analizzare e parlare di moltissimi tipi di sensazioni ed emozioni diverse.
Il rapporto con il pubblico è un do ut des, non ho messaggi da veicolare a livello collettivo, mi piace comunicare in maniera estremamente personale: nel momento in cui una persona ti ringrazia e si sente anche solo un poco meno sola, o un poco meno incompresa, automaticamente anche tu ne trai beneficio e la ringrazi, perché a tua volta sarai un po’ meno solo e ti sentirai un po’ più compreso.
Cosa dire del disco che uscirà a breve?
Il disco è un’esplosione di emotività, tristezza, problemi e pensieri tra i più profondi che l’essere umano possa produrre, condensati in poche tracce, una decina circa.
Questo disco è il lavoro di un’esistenza, il lavoro di una vita.
Sin da quando ho iniziato a fare rap avevo in mente il concetto di apprendistato (il titolo dell’album, oltre che di una canzone contenuta al suo interno, ndr) come rappresentazione del periodo dell’adolescenza di un Uomo, in cui si impara ad essere Uomini per tutta la vita: un periodo in cui si matura l’esperienza, si fanno errori e da quelli si impara, per tentare di non sbagliare più.
In realtà poi la scoperta è che l’apprendistato dura per sempre, fino a quando non si muore si continua a imparare.
Il fatto che questo rappresenti il disco di una vita, però, non rischia di porre l’album come totale, come un macigno che ostacoli la strada ad altri progetti futuri?
È la mia paura più grande, e nell’ultimo periodo mi sta facendo più male che bene, perché sono anni che mi porto dietro questo disco: avrei potuto farlo uscire tranquillamente due o tre anni fa, ma sentivo dentro di me che ancora non andava bene, ogni volta cambiavo qualcosa.
Ora che sono convinto di farlo uscire, ora che al suo interno ci sono pezzi che continuano a convincermi anche a settimane di distanza, durante l’ascolto, la sensazione è stupenda, d’altro canto però artisticamente mi sta un po’ prosciugando: rimanere incagliati su di un concetto, e in generale su un lavoro, può essere molto ostico. Per questo voglio che esca adesso, ma la paura per il futuro rimane.
In tal senso, quali potrebbero essere i prossimi potenziali stimoli, artisticamente e musicalmente?
Ho notato, e le persone a me vicine che hanno ascoltato le canzoni in questi giorni lo hanno notato in maniera ancora più marcata, che ogni storia, ogni realtà descritta nel disco si ispira esplicitamente e anzi fotografa una serie di esperienze di vita realmente vissute.
È il mio disco, è il nostro disco, gli attimi vissuti nella mia e nella nostra vita sono stati trasformati direttamente in canzoni, gli stimoli sono, e saranno sempre, provenienti da ciò che vivo e ho vissuto.
A volte sono stimoli più empirici, quindi puri racconti di esperienze; altre volte l’influenza è più romantica, à la Wordsworth: nasce sempre dall’osservare un qualcosa di reale, ma da un’esperienza di vita poi si passa a un’elaborazione poeticamente associativa, in cerca di corrispondenze, e questo è il caso di “Marte”, ad esempio.
Non pensi che questo continuo riferimento a esperienze di vita personali possano interferire con l’ampiezza stessa del tuo pubblico?
In realtà nemmeno troppo, poiché ogni esperienza è sì singolare, ma allo stesso tempo può elevarsi a simbolo ed esperienza condivisa da più persone.
Parlando di pubblico, in particolare ho notato “Mama” statisticamente sta andando meglio nella fascia 13-17 che in quella 18-24, che per me è qualcosa di inedito ma allo stesso tempo piacevole: sono contento perché, nonostante sia una fascia di pubblico molto criticata, spero che ascoltando il pezzo possano coglierlo nella maniera giusta.
È palese che “Mama” sia contro gli psicofarmaci, è molto schietto, e lo è volutamente: ho voluto precisamente rivolgermi a quei ragazzi in modo tale da potergli dare una via di immedesimazione e consolazione, per evitare che si sentano soli e si abbandonino alla disperazione.
Da quando ho occasione di ascoltarti, ho notato che la tua crescita tecnica e musicale, è corrisposta a una sempre maggiore introspezione e intimità? È un caso o le due cose sono in qualche modo relazionate?
Quando scrivo cerco di essere sempre il più triste possibile, da felice non so scrivere e in generale non so scrivere a caso, necessito di un concetto serio o significativo in testa, altrimenti non riesco.
Scrivo anche pezzi più leggeri, ma generalmente si riducono a esercizi di stile, utili tecnicamente ma che non sento realmente miei; le volte che escono, invece, è perché anche in quel caso sono ispirati a un’esperienza personale.
Prendi “Bocconi freestyle”, in quel caso non ero triste, ma ero incazzato, e quel pezzo rappresentava il mio stato d’animo.
Forse sarò bipolare, ma la mia produzione artistica è segnata da questo binomio di tristezza e rabbia, e dalla loro repentina alternanza.
Un altro artista che in parte ragiona e scrive in questo modo, servendosi degli stessi motori propulsori in questo momento è Massimo Pericolo.
Ecco, so che ne stanno parlando tutti molto bene ma ancora non l’ho ascoltato; non per pigrizia, ma semplicemente perché essendo alla ricerca di suoni nuovi, sto evitando totalmente di ascoltare musica italiana. Per dire, penso di essere l’unico in Italia che non ha ancora ascoltato il nuovo mixtape della Machete.
Nella mia musica si sente molto un Logic, un XXXTentacion, paradossalmente il mio obbiettivo nella musica è portare a termine la missione di X qua in Italia.
Ho sofferto tanto la sua scomparsa e amato tantissimo la sua musica, è stato l’ultimo artista di quei tre o quattro che hanno cambiato la mia vita, musicalmente parlando ma non solo; la sua musica mi rappresenta moltissimo, e molta della mia musica è ispirata alla sua.
È bello perché non ho la sua stessa sonorità, per cui non vengo accusato di plagio, ma allo stesso tempo le tematiche e le motivazioni sono molto simili, per cui dire che la mia musica assomiglia alla sua, per me sarebbe il complimento più grande.
A proposito di XXXTentacion, il giorno della sua scomparsa, l’opinione pubblica americana, e in parte anche quella italiana, si è spaccata letteralmente in due tra chi si rifiutava di ricordarlo positivamente, a causa dei suoi controversi trascorsi, e chi riteneva che andasse ricordato e ringraziato per quello che ha lasciato musicalmente e per quello che ha rappresentato. Tu come la vedi, il rapporto tra il prodotto di un artista e la sua vita privata quale dovrebbe essere?
Il caso di X è doppiamente spinoso, non si capisce dove finiscano le sue colpe eccettive e inizi l’accanimento mediatico, siccome certi aspetti della vicenda (è stato accusato di avere picchiato la propria ragazza, incinta, ndr)
non sono ancora stati appurati e confermati.
Io sono una persona molto empatica, e guardando all’ultimo periodo della sua vita mi ha dato l’impressione che stesse tentando di redimersi, soprattutto con l’ultimo album; in questo senso il suo percorso musicale è emblematico del suo stesso vissuto.
In ogni caso, al di là di tutto, io tendo a staccare il personaggio dalla persona e la persona dall’artista: ascolto six9ne anche se è stato arrestato, ascolto X avidamente; se di un artista non condivido i pensieri o le azioni magari non andrò a vedere il suo concerto, ma se la sua musica (così come qualsiasi altra forma di produzione artistica) ha effettivamente un valore e mi piace, perché non dovrei ascoltarla?
Pensa a Paolo Villaggio: è conclamato fosse una pessima persona, eppure Fantozzi è stata la colonna comica di questo Paese, il ritratto di una generazione.
Gli artisti così, quelli in viso al mondo, sono ancora più geniali degli altri, perché riescono a far trionfare l’arte su tutto il resto e a farla valere per ciò che realmente è, al di là delle proprie simpatie.
Tornando in Italia, tu dici di evitare il più possibile la musica italiana quando crei, di modo da evitare influenze, però di fatto la percezione che si ha ascoltando “Birra e paglia” è che le sonorità e la costruzione del pezzo ricordino molto quelle che negli ultimi anni hanno dominato la scena romana.
Innanzitutto fammela tirare, perché questi suoni si sono sviluppati molto nel corso dell’ultimo anno e mezzo, con l’avvento dell’ondata indie e la conseguente contaminazione con il mondo del rap, però questo pezzo l’ho scritto tre anni e mezzo fa. (Ride, ndr)
A dir la verità io non credo che esistano dei filoni musicali veri e propri legati alle città, per me esiste solo la musica che mi piace, mi reputo un artista molto crossover, molto versatile.
Faccio quello che mi piace, lavoro molto per sensazioni e sensibilità: quello è un pezzo da falò, da amici che, la notte, cantano in un campeggio; e quello è anche ciò di cui effettivamente parlo nel pezzo, di un gruppo di amici che si beve una birra e si fuma una sigaretta nella piazzetta del quartiere.
L’obbiettivo è stato proprio quello di ricreare in musica i concetti e le immagini espresse in parole.
Dato che ne parli, che rapporto hai con la provincia, con il tuo quartiere, e qual è il rapporto che invece hai con “il centro”, e in generale con Milano?
La mia visione è parecchio simile a quella di Ernia: il rapporto con la provincia è viscerale, e Milano è l’obbiettivo da raggiungere con la mia personalissima 68, che in questo caso sarebbe la 66, la 902 o la z-415.
Sono molto affezionato al mio quartiere, mi piace molto di più la vita di periferia; ho sempre vissuto tra due fuochi, tra la classica educazione della Milano bene, da bravi ragazzi, e appunto la periferia, crescendo a pane, botte e motorini.
Sono cose che ti segnano, la mentalità della provincia è qualcosa che ti porti dentro per sempre: le persone intelligenti riescono a capire quali sono gli elementi positivi da carpire da entrambi i mondi, scartando quelle nocive.
Quali sono gli elementi positivi della periferia?
La fame.
La fame, l’intraprendenza, la voglia di riscatto, decisamente più grande rispetto a un qualsiasi ragazzo, figlio di, che abita nel centro della Milano bene.
Se hai voglia di andare a prenderti qualcosa, quella cosa la prendi, e se devi trovare qualcuno che abbia voglia di farlo, è molto più facile trovarlo in periferia.
Si cresce in maniera diversa, in periferia c’è di meno, si parte svantaggiati, e questo influisce molto.
Io non odio chi è ricco, non odio chi è avvantaggiato rispetto a me, semplicemente non sopporto chi è ricco e ne fa un vanto, ne fa una questione di superiorità, soprattutto nel caso in cui la propria ricchezza non derivi dai propri meriti.
Parlando di “Mama”, il singolo che in questo momento ti sta aprendo molte porte: come è nato?
Dietro “Mama” c’è una storia interessantissima. Innanzitutto, non è un singolo prodotto da Eski, ma da RKH; mi ricordo che è nato per una sfida con mio padre: stavamo guardando le selezioni di X-Factor, e dal nulla spuntò fuori Anastasio, con un remix pazzesco di generale, riscrivendola e rappando sulla strumentale.
Mio padre fu estasiato, mi disse che non sarei mai riuscito a fare qualcosa del genere.
In tutta risposta, ispirandomi proprio al genere di musica che mio padre ascolta, e che mi ha influenzato moltissimo musicalmente, ho deciso di prendere “Mama” dei Genesis: in un pomeriggio di Ottobre arriva la strumentale, erano le tre e mezza; alle 5 e mezza ho inviato al produttore il primo provino di “Mama”, in due ore era stata scritta e registrata.
All’inizio non ci siamo resi nemmeno conto di quanto funzionasse, ma da quando abbiamo cominciato a suonarla live, le persone ci hanno fatto notare che era uno dei pezzi più potenti in assoluto.
Secondo te perché viene percepita così dal pubblico?
Probabilmente perché la canzone, e soprattutto il ritornello, è molto di impatto: è urlata, e le tematiche trattate sono molto pesanti, si parla di psicofarmaci, le parole sono schiette e crude, in più è ispirata a un dramma di vita, un’amicizia dolorosamente persa che forse riesce a trasmettere un’ulteriore aurea di credibilità all’insieme.
Porterai avanti l’urlo?
Assolutamente sì, magari alternato a momenti di calma, ma il mood di “Mama” è qualcosa che porterò sicuramente avanti, in realtà mi piacerebbe anche imparare qualche tecnica di scream o growl.
Soprattutto nell’ultimo periodo l’hard rock e il progressive mi hanno influenzato molto, e in realtà fin da bambino son sempre cresciuto più in mezzo al rock che in mezzo al rap.
Parlando di produzioni, non credi che una collaborazione così stretta e così presente con Eski-B da un punto di vista musicale possa essere in parte “limitante” rispetto a un certo stile?
È un qualcosa a cui penso spesso, ma allo stesso momento dico a me stesso che non è il momento: per adesso continuare a lavorare con Eski si è dimostrata la mossa vincente.
Potrebbe essere che un giorno la mia musica possa suonare monotona, però così come io sto attraversando un percorso di crescita attraverso il quale sono cambiato molto, anche Eski è passato e sta tuttora passando attraverso un’evoluzione musicale, che è costante ed è naturale che avvenga.
Detto ciò, è logico che un giorno io possa aprirmi a collaborazioni differenti, è normale e capita a tutti, vedi Sfera Ebbasta ad esempio.
E con il contratto discografico cosa cambierà?
Ci sarà una fase di passaggio in cui dovrò somatizzare, al momento mi manca un po’ la serenità riguardo intraprendere un progetto del genere, ci stiamo lanciando un un mondo totalmente diverso.
Non temo di perdere autenticità, ma di non riuscire a lavorare con la spensieratezza con cui lavoravo prima: ho delle aspettative, so che gli altri hanno delle aspettative, e ho paura di deluderle.
Il giudizio degli altri, il timore che gli altri possano dirti che non sentono più la scintilla di una volta, è una paura enorme, ed è una paura che hanno tutti.
Meglio viverla così che adagiarsi sugli allori, in fondo, il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista, Caparezza dixit.
Cosa ti aspetti dall’album?
Se l’album dovesse andare bene e fra 20 mi dovessero chiedere se me l’aspettassi, risponderei di no, ma che lo sognavo.
È ovvio che il sogno sia quello di sfondare, sarebbe il coronamento del lavoro di un’esistenza.
Per adesso a me basta che ci siano sempre più persone che apprezzino questo lavoro, l’obbiettivo è quello di porre un’altra mattonella, di crescere, passo dopo passo.
Sicuramente, se un giorno dovessi farcela con la musica, farei un Remaster perché tutti dovranno conoscere quest’album, chissà se mi riuscirà più un album così. La gente piange quando ascolta queste canzoni.
Facciamo una giravolta e torniamo all’origine per la domanda finale: com’è nato il tuo nome d’arte?
Il nome P-Greco è nato durante una gita di classe ad Amsterdam, puoi ben immaginare le condizioni psichiche.
Un mio amico, dal nulla mi accusò di essere un p-greco, e io gli chiesi spiegazioni: sostanzialmente, grazie non so a quale volo pindarico, aveva notato che le iniziali del mio nome, Jacopo, e del mio cognome, Lodigiani, se accostate vanno a formare una figura simile alle due stanghette del p-greco.
La spiegazione mi fece molto ridere, e mi affezionai sempre più a quel nome, sino ad appropriarmene, quando rimuginandoci su trovai un significato metaforico che mi piacque molto: così come il semplice simbolo del p-greco nasconde al suo interno una sfilza letteralmente infinita di numeri, allo stesso modo ogni uomo, al suo interno, contiene un numero infinito di significati.