Intervista esclusiva a Dimartino e Cammarata che cantano e scrivono “Un mondo raro”

di Luca.Ferri

Un mondo raro: Dimartino e Cammarata cantano e scrivono Chavela Vargas

Un disco e un libro nei quali i due cantanti siciliani raccontano una delle figure più suggestive della musica sudamericana del secolo scorso

Un’anima vibrante nella voce roca e struggente. Una vita di voli e schianti, tra le ombre delle bettole notturne e le luci dei più grandi palcoscenici del mondo. E poi tormentati canti d’amore, incontri, ribellioni, pianti disperati affogati in fiumi di tequila, di quelli che scoppiano in risate scelerate e che cercano solo conforto. Quella di Chavela Vargas è stata un’esistenza unica, la sua voce ha impersonato la filosofia della mexicanidad, di una vita perennemente intrisa di morte eppure continuamente esorcizzata da sbronze di esuberanza. Leggenda della musica sudamericana, icona omosessuale, musa di Almodòvar, amante di Frida Khalo, una figura mitica ma inspiegabilmente poco conosciuta nel nostro paese che meritava di essere raccontata. Questo ha spinto Antonio Dimartino e Fabrizio Cammarata a compiere un viaggio dalla Sicilia al Messico sulle tracce di Chavela dalla quale è nato Un mondo raro, un doppio progetto, discografico e letterario. Un ritratto profondo ma discreto, fatto di ammirazione e prudenza, sia nel racconto scritto che nella rielaborazione musicale di dieci brani della cantante ranchera. I due musicisti siciliani restituiscono l’essenza di una terra malinconica ma forte, fatta di riti shamanici, di contrasti e di sogni. Canti amari come Non tornerò, dove c’è la dolce rabbia di un amore perso accudito da chitarre leggere e nostalgici fiati tipicamente messicani. Piani tormentati e violini piangenti di Le cose semplici, fino al romanticismo disincantato di Pensami; un affascinante universo musicale tradotto in italiano con delicatezza, nel rispetto delle suggestioni e dei significati. Dieci pezzi e 268 pagine per lasciarsi incantare dalla shamana dalla voce graffiante e tenera, un viaggio surreale attraverso il quale Dimartino e Cammarata ci accompagnano ai confini dell’interiorità, in un mondo di emozioni autentiche…in un mondo raro.

Un mondo raro è un prodotto editoriale eterogeneo, un vero viaggio alla ricerca di un mito, Chavela Vargas, una delle voci più significative dell’America latina dello scorso secolo. Come è stata nella pratica la ricerca e la scrittura di questo libro?                                                         

C: “Tutto nasce dall’amicizia che unisce me e Antonio e da un viaggio che abbiamo deciso di condividere; in realtà siamo andati in Messico in modo quasi casuale ed è venuta fuori l’idea di fare un omaggio a Chavela Vargas. Il fatto di trovarsi in quei luoghi e conoscere persone a lei vicine ci ha ispirato moltissimo, è stato come sentire la sua voce che ci accompagnava attraverso chilometri e chilometri di strada”.

Avete “rischiato” di conoscerla vero?

C: “Nel 2011, in uno dei miei viaggi in Messico,  ho provato a conoscerla perché ero già un gran fan della sua musica e della sua voce. Le informazioni erano poche e confuse, dopo tante ricerche e incrociando varie indicazioni, sono riuscito a trovare la sua abitazione, modesta e umile. Con la chitarra in spalla mi aprì la badante dicendo che quel giorno Chavela non si sentiva bene e che se volevo sarei potuto passare il giorno seguente perché era sempre lieta di conoscere giovani musicisti. Mi dissi che ci sarebbero state altre occasioni, purtroppo un anno dopo lei ci lasciò e il rimpianto per averla sfiorata c’è stato. Tuttavia, quando un paio di anni dopo sono tornato con Antonio, in quella casa si sentiva ancora la sua presenza ed è stata un’occasione per assorbire storie e sensazioni”.

Nel disco c’è un apporto speciale, una traccia tangibile della Vargas, come se lei avesse in qualche modo partecipato al lavoro: sto parlando delle chitarre dei suoi musicisti con i quali avete inciso a Città del Messico. Come è andata?

C: “È stato un incontro prezioso, i macorinos sono due anziani chitarristi molto affabili dai quali abbiamo potuto trarre racconti, avvertendo l’essenza di Chavela, proprio da loro che avevano condiviso tante volte il palco con lei. Inoltre abbiamo avuto un canale di comunicazione facilitato da un fattore culturale: sembravano davvero dei vecchietti del sud Italia, di quelli che vedi seduti nelle piazze, hanno lo stesso tipo di ironia a cui noi siamo abituati e che quindi ci ha fatto sentire a casa”.                                                                                                                                                           D: “Dal punto di vista artistico ci hanno insegnato la loro visione della musica e dell’interpretazione. Noi all’inizio cantavamo secondo la nostra logica musicale, legata al tempo e al ritmo. Loro ci hanno detto di svincolarci totalmente da questo schema e di ritrovarci invece nella canzone, in quello che il pezzo stava dicendo, anche prendendoci una pausa, cercando il respiro giusto”.

C’è qualcosa che unisce il Messico alla Sicilia, due civiltà divise dall’oceano eppure simili nell’ impostazione esistenziale. “Terre tragicamente comiche” le avete definite.

D: “In Sicilia, come in Messico, la tragedia non è mai vissuta davvero come una tragedia, c’è sempre quel pizzico di commedia, anche nella morte c’è del grottesco. Basta pensare che sia i siciliani che i messicani festeggiano i morti, c’è la tendenza di aggraziarsi questo passaggio così temuto. Questo crea uno stravolgimento totale perché distorcendo la visione della morte si distorce anche quella della vita; questa è una tendenza che accomuna i due popoli e che emerge anche in un certo approccio nei confronti dell’arte”.

Il titolo viene da una canzone di José Alfredo Jiménez, carissimo amico di Chavela, cantautore di ballate rancheras, forse il rapporto più profondo della sua vita. “Veniamo entrambi da un mondo raro, Chavelita”, le disse. Cosa è il “mondo raro”?

D: “È un mondo puro, fatto di momenti semplici; il fatto stesso che un artista regali un pezzo ad un’interprete amica ci ha colpiti, sono cose che succedono solo in una realtà pulita, alla quale non siamo più molto abituati. L’idea della canzone come dono può esistere solo in un mondo raro; in generale poi la vita e l’approccio alla musica di Chavela Vargas è qualcosa di davvero particolare, difficile da trovare. Sono stati pochi, a mio avviso, gli artisti del ‘900 che hanno lasciato una traccia così profonda, cambiando tanto la musica del loro paese”.

La figura e la vita della Vargas racchiudono il senso di una libertà assoluta. Lei fu tutt’altro che una militante politica ma i suoi atti furono un vero esempio di rivoluzione rispetto a schemi e convenzioni. Credete nel potere di cambiamento della musica?

C: “Lei fin da piccola ha avuto una vocazione verso il raggiungimento della libertà, dell’emancipazione. Questo si avverte nella sua voce, nelle scelte che ha fatto, tutta la sua vita è stata una militanza intesa come attivismo personale per attuare una sommossa interiore. Anche se le sue canzoni non sono state cantate dai rivoluzionari o nelle piazze, sicuramente sono arrivate alle persone, nel segreto delle loro stanze e dei loro cuori e hanno prodotto in ognuno un cambiamento. Unire una moltitudine e farla scendere in campo è una grande rivoluzione, ma riuscire a prendere quelle persone nella propria individualità, innescando una scintilla nel singolo è ancora più forte, credo che questo sia il più grande atto politico che la musica possa compiere”.

L’album è composto da dieci brani di Chavela che voi avete tradotto e reinterpretato. Il pezzo più famoso della Vargas, tuttavia, anche grazie all’interpretazione della stessa cantante nel film di Julie Taymor sulla vita di Frida Khalo, è la Llorona, figura mitica di donna piangente, simbolo della morte. Come mai non l’avete inserita nel disco?

C: “La Llorona non poteva essere tradotta, in ogni concerto della Vargas il momento di questo pezzo apriva una dimensione a parte, qualcosa in cui la musica non c’entrava quasi nulla, ci sia avvicinava più a un rituale magico, quasi a una preghiera demoniaca. Non ci sentivamo liberi di poterla maneggiare, tanto meno di renderla in italiano, sarebbe stata sicuramente un’operazione  a perdere”.

D: “Ci siamo orientati verso canzoni più semplici da tradurre, che avessero anche una certa immediatezza in italiano. Pensami è una delle traduzioni più riuscite e credibili nella nostra lingua; nelle scelte c’è stata soprattutto una voglia di restituire un’immagine senza imitare o stravolgere il senso”.

C: “La cosa che ci ha sorpresi di più nel lavoro discografico è che nel momento di trasmigrazione da una lingua all’altra le canzoni si sono schiuse verso un altro mondo, perdendo quasi quelle caratteristiche che ci sembravano tanto legate al Messico. Invece poi abbiamo capito che si trattava di pezzi davvero trasversali, eterni”.

Da pagina 145 a pagina 185 il libro riporta fogli coperti di inchiostro nero, a rappresentare quel lungo periodo di silenzio, quando si era persa ogni traccia di Chavela, tanto da essere creduta morta. Nel vostro viaggio siete riusciti a scoprire qualcosa di quei vent’anni di oblio?

C: “È stato molto difficile cercare notizie anche tra le persone a lei più vicine. Di quel periodo nessuno sa qualcosa di certo, lei stessa ne parlava con molta vaghezza, anche geograficamente dava davvero pochissime indicazioni. Ad un certo punto abbiamo capito che lei per prima non avrebbe mai voluto raccontarli quei venti anni, quindi neanche noi abbiamo sentito il permesso di fantasticare su quella fase, ci siamo limitati a descrivere quell’ultimo giorno in cui lei si ricorda di essere ancora viva e di essere Chavela Vargas”.

D: “C’era l’idea di far immaginare al lettore che quelle pagine le avevamo scritte e che poi ce ne eravamo pentiti; in realtà noi quella storia non la conoscevamo affatto”.

C: “Poi, essendo dei musicisti, abbiamo sempre cercato di tenere presente il ritmo, il tempo della lettura; queste pagine nere sono immaginate come momento in cui in un pentagramma hai una lunga pausa e, leggendo il libro, quelle pagine vanno sfogliate perché in quel momento il lettore deve avere il tempo di metabolizzare quei venti anni”.

Almodovar la definì “la rude voce della tenerezza”. Una vostra epigrafica definizione di Chavela?

C: “Per me è stata una madre artistica, ha aperto le porte della mia percezione e della mia interpretazione”.

D: “Nel libro si parla di quando viene nominata shamana, con il nome Cupaima che significa “sorella che ti capisce” o “sorella vicina al popolo”; questa credo sia la sua definizione e credo anche che sarebbe stata felice di essere chiamata così”.

Sabrina Pellegrini  

 

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