Già. I Diamond Head. Quelli di “Am I Evil”. Una delle varie band che insieme agli Iron Maiden (tanto per citare qualcuno) si impegnò tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta a rilanciare l’Heavy Metal nel movimento noto come New Wave of British Heavy Metal. Dopo due buoni dischi che li fanno notare al grande pubblico, il quartetto capitanato da Brian Tatler alla chitarra e Sean Harris alla voce si cimentano nella composizione della terza opera. A questo punto della carriera bisogna confermare il successo e magari fare un salto di qualità. Gli Iron Maiden hanno realizzato “The Number of The Beast” e da lì hanno iniziato la scalata all’Olimpo del Metal, i Def Leppard hanno fatto il botto con “Pyromania”. Ma fin dagli albori i Diamond Head sono stati artisti molto atipici nell’ambiente.
Il nuovo album si allontana dai canoni del genere con un coraggio quanto mai ammirevole.
Innanzitutto il titolo: “Canterbury”. Un richiamo al Medioevo e ai Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, opera fondamentale della letteratura antica inglese. Quindi un piglio parzialmente intellettuale fin dal principio. Nessun richiamo goliardico a Satana, niente fuoco, niente fiamme, niente violenza. Il Metal per i Diamond Head può anche essere altro.
Il secondo aspetto fondamentale è la copertina: cupa, con una semplice illustrazione in bianco e nero ad imitare le atmosfere medievali che racchiude un’aura di storia e mistero molto a tema con diverse canzoni dell’album. Di nuovo, qualcosa di molto lontano dai canoni del Metal dei primi anni Ottanta.
E infine le canzoni. Difatti l’opener è “Makin’ Music” e fin da subito ci troviamo di fronte a qualcosa di insolito per una band prettamente Heavy Metal. Le atmosfere sono molto delicate, senza l’aggressività tipica di altri artisti e con una grande spensieratezza di fondo. Dal sound prodotto dalle chitarre e dai trigger della batteria, nonché dal groove incalzante, sembra anzi strizzare parecchio l’occhio al Pop Metal, che in quegli anni stava conoscendo un notevole successo (soprattutto grazie a “Pyromania” dei Def Leppard, uscito alcuni mesi prima di Canterbury). Tra l’altro è un brano niente male, orecchiabile e capace di ottenere subito l’attenzione dell’ascoltatore.
Ma la successiva “Out of Phase” è un ibrido ancora più eterogeneo. Il sound è chiaramente ispirato agli anni Settanta, molto vicino al Rock ‘n’ Roll, ma senza dotare il brano di una struttura semplice: anzi il quartetto si impegna a rendere più complesso l’ascolto, con diverse sezioni diversificate ma tutte collegate da un ritornello catchy. Addirittura, nello special viene dato spazio a tempi dispari, che rendono la sezione leggermente più sorprendente e originale, molto vicina al Progressive Rock settantiano.
Con “The Kingmaker” l’atmosfera si fa più cupa. Inquietanti effetti sonori e un lugubre coro introducono una delle canzoni più complesse dell’album. A dare consistenza al brano giungono anche accompagnamenti di tastiera, oltre a numerosi passaggi molto vicini alla discografia dei Led Zeppelin (difficile non riconoscere “Kashmir” nell’ostinato che inizia a metà canzone). Brano insolito, privo di un vero ritornello e di una struttura della canzone tipica, ma il coro iniziale e gli sviluppi successivi lasciano una traccia indelebile nella memoria.
Con la successiva “One More Night” si ritorna alle atmosfere dei primi due brani, stavolta senza mezzi termini nel mondo Rock ‘n’ Roll e un po’ Twist, altra stranezza di questo album particolare. Eppure il ritornello è indimenticabile e la resa del brano è superba, senza dimenticare che il suo groove è capace di risvegliare i morti. Unica pecca probabilmente è voler allungare il finale del brano in maniera eccessiva: un minuto in meno avrebbe portato risultati migliori.
A seguire ci sono probabilmente le due migliori canzoni dell’album e le due più vicine al Metal, mantenendo comunque una abbondante dose di originalità per i tempi: “To the Devil Is Due” e “Knight of the Swords”. La prima, dopo un’introduzione poliritmica a tempi dispari di chitarre e voce, ci porta subito al tema del drammatico ritornello; uno Sean Harris in forma smagliante, capace di giostrare su vari registri e stili vocali, è accompagnato da chitarre e tastiere, con strofe, bridge e ritornelli con un climax di cupezza di ammirevole composizione. Lo special viene trascinato da un inquietante riff di chitarra lievemente distorta, seguito da un coro sperimentale accompagnato da un tappeto di tastiere e un mini assolo di chitarra, per poi finire in sfumare. La seconda parte con un’introduzione veloce e poderosa che non lascia scampo all’ascoltatore: è così che il semplice ritornello si fissa nella mente per un indeterminato periodo di tempo. L’arpeggio che apre la strada al lungo e complesso assolo di chitarra è un gioiello di composizione e i quasi sette minuti di canzone scorrono senza pesare, anzi.
Dopo questo doppio affondo, il quartetto non molla la presa. Spostandoci in Oriente, come i suoni di sottofondo ci suggeriscono, un arpeggio in tempi dispari apre un brano dal ritmo serrato e dalle sonorità straordinarie: “Ishmael”. Profumo d’Oriente e Metal occidentale: gli Iron Maiden ci impiegheranno un anno di più, con “Powerslave” per riuscirci, e per Dream Theater e Myrath bisogna ancora aspettare diversi anni. Questo la dice lunga sull’originalità compositiva dei Diamond Head.
I “Need Your Love” è un altro brano molto vicino alla corrente Pop Metal, come titolo e sonorità suggeriscono. Evidentemente si avverte un’enorme affinità con i Def Leppard di quegli anni. I tre minuti di canzone offrono un altro brano estremamente piacevole, oltre a un altro ingrediente dell’eterogeneo prodotto qual è Canterbury.
L’album si chiude con la titletrack. Un’insolita piano ballad per i primi due minuti, con forti richiami alla musica medievale che lasciano spazio ad accordi dissonanti nel bridge e a un ritornello maestoso. Il brano poi si sviluppa, grazie anche al supporto di diverse tastiere, in una cavalcata terzinata vicina allo stile degli Iron Maiden. Sicuramente il brano meno riuscito dell’album, ma comunque è doveroso rendere merito alla band per il coraggio necessario a simili sperimentazioni.
Canterbury è sicuramente un album atipico nel Metal, se non uno dei più atipici. Non si fa problemi a spaziare tra generi vicini e non, sapendo quando alleggerire i toni e quando invece diventare più heavy. La sua eterogeneità presenta qualche punto debole, come “One More Night” e la stessa “titletrack”, ma ciò non nega il valore di tutte le altre tracce. Rivalutato positivamente solo di recente, l’album nel 1983 fu un flop clamoroso. I fan non apprezzarono il sound più leggero rispetto ai dischi precedenti né tantomeno le numerose sperimentazioni (è sempre rischioso mettere troppe tastiere nell’Heavy Metal degli anni Ottanta: lo sanno i Judas Priest di “Turbo” e parzialmente gli Iron Maiden di “Somewhere in Time”. L’elaborato tessuto di brani come “The Kingmaker”, “To the Devil Is Due”, “Knight of the Swords” e “Ishmael” era probabilmente qualcosa di troppo per i primi anni Ottanta: il Progressive Rock era finito da diversi anni e il Punk avevano tarpato parecchio le ali della fantasia compositiva e dell’ascolto. Sicuramente, Tatler e Harris osarono troppo per l’epoca. Il gruppo fu quindi costretto a sciogliersi di lì a poco, dato anche l’insorgere di numerosi dissidi conseguenti all’insuccesso. Questo stroncherà per sempre la carriera dei Diamond Head, che ritenteranno la fortuna negli anni Novanta, pubblicando altri due dischi e sciogliendosi nuovamente: la ripartenza negli anni Duemila è stata poi costellata da mille problematiche che ne hanno di fatto fiaccato l’intensità. Non resta che un forte rammarico per quella che poteva essere una delle band più interessanti dell’Heavy Metal inglese, ma che alla fine non è mai riuscita ad inserirsi in quell’Olimpo che ha invece ospitato tanti altri nomi oggi altisonanti.
Daniele Carlo
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