Negrita:“ Eravamo in un momento di profonda crisi personale. Era giunto il momento di correre ai ripari, ed eccoci di nuovo qua!”
Alla base di ogni grande band ci sono sempre delle singole persone che lavorano con l’onestà intellettuale del singolo e l’equilibrio di un gruppo, ma cosa succede se l’animo umano e le rogne della quotidianità si insinuano negli animi e minano questi equilibri ripercuotendosi anche sulla propria arte? È un quesito con cui i Negrita hanno dovuto imparare a fare i conti qualche anno fa, quando la critica li aveva dati per spacciati e alcuni dissapori avevano avuto la meglio anche sull’indissolubile rapporto lavorativo ormai decennale. Ma quando la motivazione è forte si smette di chiedersi il “perché” e si prova a correre ai ripari per ricucire vecchie ferite e solcare nuovi territori di scoperte, interiori e artistiche. Il nuovo viaggio parte dalla California, dalla base musicale ““Desert Yatch Club” in cui nuovi orizzonti musicali hanno preso il via, un misto di rock ed elettronica che può far incazzare i più radicati Insiders, ma che ci porta innegabilmente a dover dire che loro sono tornati, e stanno per scambiare quattro chiacchiere con noi.
Bentornati Negrita “voi siete di nuovo qua ma non vi prenderemo mai”. A gruppi come voi, i Litfiba e davvero pochi altri, noi italiani dobbiamo la genesi del rock made in Italy. Siamo all’album numero dieci, dopo venticinque anni di musica il brand Negrita resta un caposaldo. Che genesi ha questo nuovo lavoro?
Innanzitutto grazie mille per il “bentornati”. L’album nasce da un viaggio importante che abbiamo fatto organizzato in maniera del tutto improvvisata. Eravamo in un momento di profonda crisi, non tanto artistica quanto personale, e questo aveva generato logoramenti fra di noi e nel tempo aveva lacerato i nostri rapporti. Abbiamo capito che era giunto il momento di correre ai ripari organizzando un tour – direi quasi un piccolo giro del mondo – suonando a Londra, Tokyo e poi siamo passati dal Pacifico a abbiamo suonato a Los Angeles, da lì abbiamo affittato una casa spaziosa e siamo stati dieci giorni a comporre con un sistema che ci siamo portati dietro in tutto questo viaggio, gravitando dalla West Coast fino al deserto dell’interno limitrofo. Il nostro materiale era volutamente molto minimale, leggero e spartano, trasportabile facilmente. Un computer, un microfono, tre chitarre ed una scheda audio per registrare; il concetto era quello di cantare continuamente impressioni musicali sul computer come se fossero foto.
Spiegacelo questo parallelismo fra le canzoni e le foto….
Le foto si scattano perché si vuole un ricordo di un momento speciale e per vivere una situazione particolare devi essere nel posto. La tecnologia ora ti aiuta ad essere molto rapido, anche sulla musica volendo. Siamo tutti smanettoni sul computer e ci piace capire, quando eravamo adolescenti la chitarra poteva essere interessante per sperimentare, così come può esserlo una matita o un pennello e in questo caso il computer è diventato un mezzo espressivo. Quello che trovo affascinante è che oggi un computer come quello che ho adesso in mano io, ce l’hanno tutti i Negrita, ce l’ha mio figlio, ce l’hanno gli astronauti e i capi di stato, tutti abbiamo lo stesso mezzo.
“Desert Yatch Club” è il luogo in cui queste undici tracce hanno visto la luce: un’oasi californiana fondata dall’artista napoletano Alessandro Giuliano. Qui è nato anche il “Kitchen Groove”, un nuovo metodo di lavoro. La sperimentazione, non solo in sonorità ed armonizzazioni ma anche in logistica, è sempre all’origine della vostra arte?
Brava, “logistica” è proprio la parola che mi piace perché nella vita contemporanea la logistica è fondamentale anche solo per organizzarsi per accompagnare i figli a scuola o nelle attività pomeridiane. Questo “Kitchen Groove” ti ho anticipato già prima quale sia il concetto ma quello che posso aggiungere è che a noi serviva fondamentalmente un tavolo e solitamente lo trovi in cucina. Il pc dell’equipaggio Negrita del Kitchen Groupe era acceso h24 su un tavolo, in situazioni casalinghe o in quelle particolarissime come nel deserto in cui abbiamo piantato tre tende e due roulotte tra le dune in mezzo al nulla, per vivere la natura estrema e le quattro stagioni nel giro di ventiquattro ore. Le casse di questo computer emettevano musica a ripetizione e se tu – ad esempio – passavi l’intero pomeriggio in tenda a leggere un libro, notavi che la musica si stava evolvendo, magari avevi la chitarra e ti inserivi in quelle sonorità che provenivano dal tavolo con un giro di accordi, ti mettevi poi al pc e aggiungevi la tua idea.
A proposito di “Kitchen”, nei momenti di assenza dalle scene pubbliche, dopo rumors di problemi interni alla band e di un ipotetico scioglimento dei Negrita, voci che peraltro mi hai appena confermato, siete stati immortalati di nuovo tutti insieme in giro per il mondo. Che sia proprio “in un bicchiere di vino, in un panino e nella vostra amicizia” il segreto del vostro successo?
In realtà io sono una persona che ama i suoi momenti di solitudine, perché mi riempiono, li uso per rielaborare le cose che vivo. In realtà poi quando si viaggia – ed effettivamente me ne rendo conto proprio oggi – ma non parlo di vacanza quanto di esplorazione, questi momenti di condivisione ed amicizia ti pervadono, e noi viaggiamo per fare la musica ormai da un po’ di anni.
Parliamo dell’album. “E’ un album di rottura che guarda al passato senza nostalgia ed al futuro con la giusta arroganza!”. Molte tracce sono la versione 2.0 di vecchi brani cardine della vostra carriera: ad “Ehi! Negrita” rispondete con “Siamo ancora qua”. Un monito ai vostri fans che da quel momento sono decuplicati o un voler sbeffeggiare chi vi aveva dati per spacciati negli ultimi anni?
Qui posso risponderti dal punto di vista personale, da Drigo non da Negrita. Io anche nella vita privata ho problemi a fare promesse a persone che mi chiedono di non cambiare mai, mi sembra una richiesta egoistica ed egocentrica che non mi sento di assecondare, anche perché nel momento in cui non cambi vuol dire che non ti stai evolvendo. Per quanto riguarda la musica dell’album, noi sappiamo benissimo di essere nel nostro imprinting musicale, è rock. È la musica stessa che ha dimostrato che può cambiare il corso delle cose, se pensi agli anni ’70 quando Dylan iniziò a parlare della guerra in Vietnam si sono mossi milioni di persone dopo le sue parole. Il “Flower Power” fece preoccupare anche i capi di stato, fece prendere delle decisioni internazionali, insomma la musica è riuscita in molti casi ad esprimere davvero il suo potere. Questa cosa qua è affascinante, ma allo stesso tempo è necessario dover riconoscere che nelle sonorità sta cambiando. Oggigiorno grazie al computer c’è la possibilità di realizzare album pur non essendo musicisti, molta gente, molti giovani che emergono adesso e fanno numeri straordinari non sono musicisti, eppure hanno qualcosa da proporre. La musica è musica ma ci sono anche contenuti. Rimaniamo quindi con le orecchie ben aperte, posso ascoltare i Led Zeppelin o gli U2, così come quello di Fabri Fibra e restarne entusiasmato allo stesso modo. Oggi è l’epoca non degli album ma delle playlist, ed attraverso esse è possibile continuamente scoprire delle novità.
“Non torneranno più i giorni da buttare, le sbronze prese male, le cattive compagnie”, un inno di nostalgia. Qual è il rimpianto più grande dei Negrita?
Guarda quella canzone parla effettivamente di un rimpianto però abbiamo voluto che questa sensazione durasse un solo giorno. Il testo è stato scritto da Pau e ha voluto ricordare la festa di un amico carissimo scomparso per una malattia, il rimpianto ci sta è inevitabile, ma non è uno dei nostri rimpianti più importanti.
Un cammeo a questa canzone può sembrare il brano “La rivoluzione è avere vent’anni”. Dopo un dialogo fra una generazione che i venti li ha salutati da un po’, largo alle paure di questa stessa per le generazioni successive. Di cosa pensate stiano peccando maggiormente le generazioni dei millennials?
Di nulla, assolutamente di niente. A volte da genitore irrita vedere che i propri figli stiano troppo tempo davanti al computer o al telefono, ma a me per esempio piace mettermi lì a spulciare cosa stanno guardando o seguendo. Nella maggior parte dei casi seguono blogger, e vedo che questi blogger sono ragazzini come loro, che hanno iniziato nelle proprie camere e sono diventati ricchi e famosi grazie alla loro facilità di linguaggio alla capacità di intrattenimento, che sono ragazzi intelligenti perché propongono un genere di interazione diverso ma non superficiale. Anche i programmi scolastici di adesso sono molto più serrati, più veloci, più densi in informazioni. I giovani di oggi sono più avanti di come lo eravamo noi.
Quindi la fretta non è un limite per te?
La modernità in questo momento non da risposte precise, bisogna più che altro studiare la situazione, sfruttando le sue potenzialità senza venirne danneggiati. Io per imparare la chitarra quando ero ragazzo dovevo comprarmi un vinile, far girare lentamente con il dito il disco per capire nota per nota il giro di accordi dell’assolo, oggi apri YouTube e ci sono i tutorial. Un ragazzino che abita nel villaggio dell’Africa e che ha una connessione internet può accedere a dei contenuti che sono gli stessi della parte del globo più industrializzata. Ci sono dei vantaggi enormi.
Oltre ai testi – di cui la capacità di parlare per immagini è lapalissiana – di questo album colpiscono molto le incursioni elettroniche, una contaminazione alle musicalità rock nell’accezione più classica del termine. In “Talkin’ to you”, proprio tu Drigo, sembra che riesci a far dialogare fra loro le due chitarre e le induci a raccontarsi…
Diciamo innanzitutto che tra i nostri beniamini musicali ci sono sempre state realtà che integravano l’elettronica con le chitarra, come ad esempio i Depeche Mode.
(in sottofondo: “Non sparare cazzate Drigo, fai la persona seria… Ciao sono Pau dei Negrita, volevo intervenire anche io in questa chiacchierata!”).
Torniamo a noi, il discorso delle due chitarre sapevamo che la musica elettronica avrebbe fatto storcere il naso a qualcuno, ma sapevamo anche che questa scelta la volevamo fare. Dal punto di vista chitarristico le due chitarre lì le ho sovrapposte io. Avevo voglia di lasciare spazio all’elettronica e volevo giocare sul colpo di scena, non sull’onnipresenza della chitarra in ogni 3 minuti e 40 di un brano.
Il discorso è questo: noi artisti, nel nostro caso noi Negrita, siamo su un binario parallelo di vita rispetto ad esempio ai genitori dei compagni di scuola dei nostri figli, è una vita differente che offre stimoli differenti e quello che impariamo ci va di riproporlo in musica. L’attitudine di vedere più di quello che abbiamo già ottenuto non la troviamo stimolante, anche attraverso questi cambi radicali che facciamo in sonorità vogliono comunicare proprio questo, il cercare di evolversi sempre, anche con la mentalità.
A questa nostalgia, ai blocchi artistici a cui abbiamo risposto con “No problem”, alle nuove generazioni che come brand hanno solo la loro età, ai momenti bui e ai nuovi inizi diciamo “Adios paranoia” “Aspettando l’alba” in questa “Notte mediterranea”?
Beh direi proprio di sì. È un’ottima conclusione da Negrita in effetti.
A cura di Fabiana Criscuolo
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