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Phronesis, il nuovo album dei Monuments. [RECENSIONE]

by InsideMusic
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E’ uscito il 5 ottobre il nuovo album dei Monuments intitolato “Phronesis”, per Century Media. E’ il loro terzo lavoro, dopo il debutto nel 2012 con “Gnosis” e il seguente “The Amanuensis”, pubblicato nel 2014.

Sono passati ben quattro anni ma non sono stati spesi tutti nella composizione di “Phronesis”: infatti I membri della band si stavano dedicando a progetti secondari come il quello del chitarrista John Browne, chiamato Flux Conduct, del quale nel frattempo sono usciti ben due album. Sembra che la band Monuments fosse in una vera e propria pausa, ma data la grande richiesta di un nuovo lavoro da parte dei fan, che tanto avevano apprezzato “The Amanuensis”, alla fine i componenti della band si sono riuniti per scrivere ed incidere questo terzo lavoro.

Il sound dell’album rispetta i canoni di genere a cui i Monuments sono sempre rimasti più o meno fedeli, anche se questa volta, in primo piano nella miscela delle parti la voce assume un ruolo centrale e toglie (purtroppo) spazio agli intricati riff di chitarra, mentre nei brani più semplici questa scelta amplifica la struttura da canzone tradizionale e si rivela un formato vincente. La batteria è sempre molto presente, e sebbene la sezione ritmica sia importante in questo genere in alcuni punti si ha l’impressione che soffochi il resto del mix. Da notare che le parti di batteria sono state incise da Anup Sastry, che pur non essendo ufficialmente nella band si è prestato alla registrazione in studio ed è stato sostituito per gli show dal vivo da Daniel Lang.

Phronesis dei Monument: Artwork e tracklist:
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  • W.O.L.
  • Hollow King
  • Vanta
  • Mirror Image
  • Ivory
  • Stygian Blue
  • Leviathan
  • Celeste
  • Jukai
  • The Watch

 

Phronesis si apre con A.W.O.L. ( acronimo militare statunitense che sta per “absent without official leave”  e quindi significa “disertore”), una traccia degna del predecessore intitolata Questo pezzo ha un’introduzione epica ed è carico di energia, la batteria segue bene chitarre e basso, la voce si esprime in tutto il suo potenziale sia nelle sezioni cantate che nelle parti in scream e si percepiscono altri suoni orchestrali che completano il tutto e restituiscono una canzone orecchiabile ma ricca di dettagli. Dopo aver ascoltato interamente l’album capisco perché è stato scelto questo come primo singolo, infatti è uno dei brani meglio riusciti e più fedeli alle sonorità affermate in passato dai Monuments.

La successiva “Hollow king” è una traccia che sembra incompleta e posizionata male nella tracklist: inizia e finisce in modo molto secco, è breve e sembra blanda anche nel momento in cui dovrebbe esplodere, con un breakdown già sentito e non molto accattivante. L’aspetto più interessante risiede nella voce che si cimenta in alcune note lunghe armonizzate che ricordano lo stile di Ashe O’Hara in Altered State dei TesseracT.

Ed è proprio dei meno recenti Tesseract che si sente l’influenza nella successiva “Vanta”, che si apre con un arpeggio di chitarre pulito che mi fa dubitare quale dei due gruppi citati stia ascoltando. Procedendo nella strofa invece emerge di più lo stile dei Monuments, e la musica non lascia respiro fino al ritornello di voce pulita. Rispetto alla canzone precedente si percepisce più attenzione nella linea melodica del ritornello, intervallato da brevi intercalare in scream, il quale porta ad un riff finale che sembra quasi un bridge e sebbene ci si aspetti un ritornello, emerge un bell’outro di pianoforte che conclude il brano in modo inaspettato.

Mirror Image riprende la sonorità classica del pianoforte con un’introduzione orchestrale, il ritmo e la velocità sono sempre presenti, ma questo brano viene presentato come una canzone più tranquilla e si capisce dal fatto che la strofa sia cantata con una dinamica più bassa e le chitarre si limitino ad un ipnotico giro di tapping pulito. In questo, che è il terzo singolo uscito prima della pubblicazione dell’album, Chris Barretto afferma il suo modo di appoggiare le sillabe sulla ritmica che ricorda molto Michael Jackson e questa sovrapposizione di stili porta ad una soluzione efficace che unisce l’orecchiabilità della musica pop con la complessità del metal tecnico. Al posto di una seconda strofa, dopo il ritornello i Monuments traghettano l’ascoltatore ad una pausa di cantato intimo che esplode in un urlo liberatorio e ci ritroviamo nuovamente nel ritornello. Il pezzo poi si chiude con quello che sembra un frammento del giro che nella strofa serviva da accompagnamento, questa volta però in primo piano e distorto.

Ivory è un altro pezzo abbastanza breve che non presenta segni particolari, fatta eccezione per un tempo piuttosto lento e dei riff che si mantengono chiaramente nei registri più gravi degli strumenti. Anche in questo caso il breakdown che viene piazzato come riff finale non è molto fantasioso ma acquista un certo senso non appena Barretto esplode con un urlo piuttosto energico e lungo che chiude il tutto.

Stygian Blue è un altro brano dal bpm lento (per gli standard dei Monuments) che si apre con una breve intro distorta e diventa subito più tranquillo, con ostinati di chitarra e una batteria che segue bene il ritmo tagliato. Il pre-ritornello funziona molto bene, accorciando ancora la ritmica. Niente da dire sul ritornello, mentre è degno di nota il bridge che si presenta al posto di una seconda strofa inesistente nella stuttura di questa canzone.

Arriviamo a Leviathan, un pezzo che per qualche motivo mi ricorda alcuni aspetti del numetal: sebbene i riff di chitarra siano sempre ricchi di piccoli dettagli e variazioni, il giro di base è piuttosto semplice, in più il crescendo del bridge rispetta quel mix di frustrazione e rabbia che caratterizza molti dei brani di band come i Linkin Park a inizio carriera. Sopra a quest’ondata di nostalgia viene spalmato il cantato ritmico e saltellante di Barretto, sia nelle strofe che nei cori in background del ritornello. Credo che questo sia il brano più riuscito in tutto il disco ed è chiaro perché è stato pubblicato anche questo come singolo in anteprima rispetto all’uscita dell’album.

Celeste è un brano che parte con noncuranza, direttamente dal ritornello. Sembra quasi che sia stato arrangiato in post produzione di Phronesis, poiché presenta subito dopo una strofa e un breakdown brevi ma dal groove preciso ed incalzante. Dopo un ulteriore ritornello si sente un’apertura liberatoria della melodia della voce, come un secondo ponte, ma il tutto sfocia in una pausa in cui possiamo sentire i layer di strumenti orchestrali che successivamente si scoprono essere praticamente sempre presenti in sottofondo. Sul finale ritroviamo di nuovo quel breakdown molto fitto inserito nuovamente per chiudere in modo deciso e risoluto, che sembra ispirato ai groove del disco “Madness of Many” degli Animals As Leaders.

A seguire Jukai, ritorna con un sapore di Tesseract nella strofa, dove le distorsioni gravi lasciano spazio a basso e batteria. Questa volta il ritornello è più interessante, con una melodia abbastanza ripetitiva ma non così scontata. Anche in questo caso non c’è tempo per una seconda strofa, si passa ad un’altra sezione che cresce sempre di più, sovrastata dalle linee di scream veramente cariche di Chris Barretto. L’ultimo ritornello infine si trasforma in un giro di chitarra ipnotico che porta la firma di John Browne: ho pensato immediatamente al brano “In Pursuit Of Happiness” del suo side-project Flux Conduct in cui, come per il finale di Jukai, le pause vengono abbandonate e rimane l’architettura ossessiva degli incastri tra batteria e strumenti a corda.

Phronesis si chiude con The Watch, un’altro pezzo abbastanza lento. Questa volta però non c’è spazio per sezioni più calme e riflessive. Le chitarre, il basso e la batteria viaggiano sempre insieme, supportate da arpeggi onnipresenti in sottofondo. Per quest’ultimo pezzo Barretto ha scelto di mantenere linee melodiche con note molto lunghe e questo è un vantaggio perché rende The Watch meno confusa, amplificando l’armonia e sottolineando ulteriormente gli accenti ritmici della band. Improvvisamente si ha un cambiamento con un breakdown che da l’impressione di rallentare il ritmo tenuto per tutto l’album, il quale è poco utile come chiusura del brano ma funge bene da chiusura per l’intera opera, sfumando di volume e dando l’impressione che questo giro continui fino al prossimo album.

I Monuments hanno prodotto un disco che non si distingue particolarmente nel panorama della musica metal, eppure sono rimasti fedeli alla loro identità prendendosi qualche rischio solo nelle parti cantate e quello che ne è risultato, è un lavoro coerente con qualche canzone ben fatta che rimane in testa subito ed altre che saranno probabilmente apprezzate solo dai fan più accaniti.

Vi ricordiamo che i Monuments suoneranno presto in Italia insieme ai danesi VOLA e ai francesi Kadinja in ben tre occasioni:

12/10/2018
Vicenza – CS Bocciodromo

13/10/2018
Milano – Circolo Svolta

14/10/2018
Bologna – Alchemica Music Club

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