I Nosound sono una band Italiana dal respiro internazionale. Unico progetto nostrano facente parte del roster della casa discografica prog/new age britannica Kscope, Giancarlo Erra e co. rappresentano quella fetta di musica che, anche se ancora di nicchia, incarna il tentativo di fare un passo avanti rispetto al grande marasma prog tecnico che si è venuto a creare nell’ambiente negli ultimi anni. Lontani da frenesie musicali, scivolizie tecniche e barocchismi da muscolo sviluppato, i Nosound con Allow Yourself, il loro nuovo album, ci mostrano come, privandoci di un gran numero di sovrastrutture oggi fin troppo insistenti, si può giungere al cuore non solo dell’arte ma anche degli ascoltatori in maniera agile portando, allo stesso tempo, freschezza, mobilità e progresso in un panorama artistico apparentemente, ad oggi, piuttosto ristagnante.
Parliamo di questo e molto altro proprio con Giancarlo Erra, pianista, cantante e mente principale della band prog/post rock andando a snocciolare cosa troveremo in Allow Yourself e cosa ha portato alla sua nascita, sviluppo musicale e ideologia di base. Buona lettura a tutti!
Ciao Giancarlo! Come stai?
Benissimo, e voi? Ma Inside Music da quanto esiste?
Da circa un anno e mezzo.
Ragazzi, ma voi che siete in Italia [Giancarlo Erra vive a Londra da anni, N.d.R], potete dirmi quali sono i generi musicali che vanno per la maggiore?
Attualmente la trap.
Ah, e che cos’è?
Forse è meglio se non lo sai. Diciamo una sorta di hip hop con tematiche superficiali.
Ah sì, l’ho letto sui giornali. Insomma, è una sorta di rap dei poveri?
No, dei ricchi snobisti. Ma torniamo al prog, ti prego!
[ride]
Allora, che sensazioni hai su questo nuovo album? Lo ritieni il tuo migliore?
Sì, sicuramente. Diciamo che tutti gli artisti non pubblicano un lavoro che non considerino che sia il loro migliore. È un po’ diverso dai miei precedenti lavori, e per questo penso sia il migliore. Sono state lasciate indietro alcune cose che c’erano prima e si è aperto un po’ a ciò che ascolto di più.
Come il post rock?
Esattamente, come il post rock dei Mogwai, di cui sono patito. Il genere in cui mi trovo meglio è proprio il post rock: stando però con Kscope, siamo stati messi nella zona prog, cosa che non ci [Nosound] ha fatto proprio bene. Quando andiamo ai festival, il pubblico si aspetta una band prog rock e potrebbe rimanere delusa; ti aspetti i tempi dispari, le mid section. In questo album, una volta per tutte, volevo far piazza pulita di chi si aspetta quel tipo di musica e realizzare ciò che davvero amo.
Hai detto che quando vai ai festival prog la gente si aspetta una certa tipologia di musica. Sembra ci sia una sorta di barricata: da un lato il prog tecnico, quello degli Haken, e dall’altra ci siete voi, i The Pineapple Thief, i Porcupine Tree. Non credi sia limitante che il pubblico si aspetti tempi dispari martellanti e altri clichè da questo genere, senza approfondire eventuali contaminazioni?
Sì, assolutamente. Non è colpa del genere musicale, se vuoi, è più la maggioranza della gente che lo ascolta. Il genere è giusto che progredisca, quindi dovrebbe essere la progressione a dettare i gusti e non il contrario. Però, purtroppo, è così. Lo vediamo molto nelle statistiche della Kscope.
Hai nominato dunque la Kscope, la tua casa discografica, per la quale i Nosound hanno segnato dal lontano 2008, unica band italiana, il cui roster propone band in grado di unire, come voi, raffinatezza e godibilità. Come vi trovate? C’è una certa tendenza ad indirizzare la vostra scrittura o siete lasciati completamente liberi?
Ri-firmerei per loro altre mille volte. Non intervengono in alcun modo. Si prendono il master a cose finite. Sono io a mandare materiale in corso d’opera, per chiedere un parere, diciamo, commerciale, se un brano potrebbe essere ad esempio un singolo o meno. È più che altro un feedback. Negli anni, loro hanno avuto il mio stesso problema: hanno cominciato ad inserire band lontane dal prog, proprio per la necessità di rinnovamento, di evitare di trovarsi incasellati in un genere. La Kscope è stata felicissima del mio nuovo album in quanto li aiuta a essere accolti nell’ambito anche elettronico. Insomma, lo rifarei altre seimila volte!
Partendo dalle origini dei Nosound, il suono, inizialmente, era molto più languido e nebbioso. Mano a mano, dopo Afterthoughts, è risultato più concreto, più aderente alla realtà. C’è stato un qualche evento che ha fatto virare la tua composizione verso tale direzione o è venuto spontaneo?
Beh, mi è venuto molto spontaneo. Diciamo che è un mix tra esperienza, maturazione, evoluzione dei propri gusti. Io sono un avido consumatore di streaming Spotify. Tutti i giorni amo scoprire nuove cose. Quando entri in quella mentalità, sei più incline a cambiare e a vedere lo shift continuo delle cose. Per quanto riguarda il gruppo è stato comunque un processo graduale. Afterthoughts è stato un sunto del “prima”, è stato Scintilla l’album del cambiamento. È un album molto più a fuoco, ricco di batteria. Negli anni mi sono spostato dal computer, che non uso più, e dalle chitarre.Ora mi dedico al pianoforte. In scintilla ho realizzato che volevo comporre senza pc, senza plugin, senza applicazioni: volevo tornare alla semplicità della composizione pianoforte voce. Con Allow Yourself ho realizzato l’idea che c’è stata in Scintilla, l’ho messa in pratica. C’è stato, dunque, un grosso cambiamento. A qualcuno è piaciuto, ad altri no, ma con i fan purtroppo è così.
Tu, Giancarlo Erra, perché credi che i tuoi fan possano aver cambiato opinione?
Beh, è comprensibile. Quando si ascolta un gruppo lo si fa nella convinzione di sapere già cosa trovarsi davanti. Per cui, sai, chi ci seguiva 10 anni fa, non è necessariamente contento del cambiamento. Però, Allow Yourself, il titolo è significativo. Da artista bisogno fregarsene e andare avanti per la propria strada.
Quindi, Allow Yourself: permettiti tutto, fai ciò che vuoi, lascia indietro ciò che non ami. È questo il concept dell’album?
Sì, ed è slegato dal concetto di artista. Certe cose, per essere vere, devono essere scisse dall’essere artista. Si cambia e si evolve anche come persone, ciò che scrivi è uno specchio di chi sei, altrimenti, mentre crei, fingi. Allow Yourself si riferisce ad un’evoluzione personale: si matura in vari modi, ce se ne rende conto, e questi modi riguardano il mondo esterno. Si pensa spesso che siano proprio gli elementi esterni a concorrere alla nostra maturazione, ma in realtà molto più da noi stessi che dalle circostanze. Il passo più difficile è permettersi di capire che l’ultimo ostacolo siamo noi stessi: non dobbiamo rinunciare al mondo esterno, ma il sentirsi in grado di uscire dalla propria comfort zone e trovare la soddisfazione nel continuo cambiamento e anche negli eventi spiacevoli. Musicalmente parlando, una bella cosa è stato il cambiamento nei miei gusti musicali: musica che non sopportavo, ora, ascoltandola sotto altri punti di vista, me la fa apprezzare. Ecco, Allow Yourself è anche questo: aprire la mente.
Dunque, possiamo dire, che questo album è quello della tua maturità artistica, in cui sei stato completamente sincero.
In realtà, in musica, ho sempre fatto ciò che volevo, ed è per questo che dicevo che non bisogna mai disgiungere artista e persona. Ciò che ero, io, Giancarlo, non era la versione più matura di me stesso. Quindi sì, è l’album della maturità.
Una curiosità personale. Dove sono virati i tuoi gusti musicali?
Non nella trap, ma ci proverò! Musica noise, glitch, elettronica molto sperimentale. Sono cose che ho cominciato ad apprezzare molto. Da musicista è facile guardare dall’alto verso il basso il dj, il producer, che fa musica senza uno strumento da suonare. Oppure, che so, prendi un Albano, una Lady Gaga, un Ed Sheeran: impari a riconoscere che, in qualcuno, per quanto lo detesti, esiste un valore artistico che queste persone hanno che io non percepisco, non risuona in me, ma c’è. Se realizzi questo fai pace con te stesso: scindi il tuo gusto e la qualità artistica che c’è, ma non piace.
Tornando ad Allow Yourself, il singolo di lancio, Don’t you Dare. Il video è molto da performance art, molto teatrale, molto da stage art. Il regista, Manuel Lobmaier, come lo hai conosciuto? Come dovremmo interpretare i movimenti del corvo e del cigno?
Lui l’ho conosciuto perché amico di un regista che conoscevo attraverso la fotografa Caroline Traitler. Diciamo che tendenzialmente evito di suggerire come interpretare le cose, non per fare il misterioso, ma se c’è qualcosa che amo della musica è che dal momento che la fai uscire la parte bella è che appartiene a tutti, non solo all’autore. Quando mi chiedono il significato, io chiedo di dirmi cosa significa per la persona. Sono molto più curioso delle interpretazioni personali che di ciò che ho voluto dire io. Ovviamente lì si parla di un contrasto interno, in cui il corvo in realtà è un lui, e il cigno è una lei. È come se il corvo dovesse venire a patti con qualcosa, ad esempio con la fine di una relazione, e la spia, come se volesse vederla un’ultima volta e poi uscire, come si vede alla fine del video. Un’altra interpretazione potrebbe essere quella di due persone incastrate in una situazione spiacevole e alla fine solo lui riesce ad evaderne e lei no, oppure solo lei. Ci sono vari modi: sta a voi. Il video suggerisce una storia.
Rimaniamo nel campo visual. Anche l’artwork di Allow Yourself. Sono due manichini, che almeno a me sono sembrate due figure maschili vestite con abiti femminili. C’è qualche ragione dietro questa scelta?
Non ci avevo mai fatto caso! Vedi che ho ragione? Ognuno vede ciò che vuole. Quando ho scattato quella fotografia, a Vienna, sapevo già il titolo dell’album. Quello che ha colpito me è stata l’espressione enigmatica, il fatto che fossero uno di fronte all’altro, in questo negozio abbandonato. Una posa strana, misteriosa: una delle due figure è seduta, rassegnata, ma l’altra con la mano sembra che inciti l’altro. Mi sembra una perfetta rappresentazione del titolo, un buon equilibrio fra l’essere fitting e l’enigmatico, col giusto simbolismo. Nelle alte copertine, si trattava più che altro di foto. Qui, invece, sfociamo nella simbologia: la musica, dunque, come abbiamo già detto, è molto più focalizzata.
Andando a considerare l’ultimo album, rispetto a Scintilla, c’è questa enorme tendenza al minimal, all’incasellamento degli strumenti. Il sound è cupo, scarno, nonostante vi siano elementi orchestrali, elettronici, e così via. Una scelta particolarissima è la voce: se non in rari casi, in cui nel primo pezzo, chemi ha ricordato i Radiohead, manca il coro, che sia dubbing, contrappunti, o innesti di altre voci. Tendenzialmente, dà l’idea di un sound malinconico, scarno, sofferente, eppure sincero. Come mai hai compiuto tale scelta?
Sì, ci sta. Innanzitutto, nell’album ci sono molte meno cose. È più minimalista. Gli elementi orchestrali sono ridotti ad un quartetto d’archi, synth analogici, nessuna chitarra, tranne in Weights. Sulla voce, le armonizzazioni sono un elemento caratteristico del rock pomposo di cui io non sono mai stato grandissimo estimatore. Probabilmente una parte del cambio è dovuta al fatto che negli ultimi tre quattro anni ho studiato voce e pianoforte, qui, in Inghilterra. È stato un riflesso del fatto che ho avuto a disposizione più possibilità con la mia voce, permettendomi di pensare di poter gestire tutta la parte vocale da solo, senza la necessità tecnica delle armonizzazioni. È un album personale e minimalista, è anche naturale che la maggior parte delle voci le abbia curate io: non ci sono neanche effetti.
Riguardo a questa tua ideologia, ti sei andato ad inscrivere in quella cerchia di musicisti che rifiuta la musica digitale/elettrica, utilizzando strumenti, oramai, vintage, quali il minimoog. Come ti sei trovato nel salto da Cubase a questo?
Mi sono trovato da Dio. È legato al discorso del titolo dell’album: quando ci si libra dalle troppe scelte, emerge la tua natura più vera. Io non sono mai stato un amante dei pre-set, ho sempre fatto molto sound design, perché è da dove provengo. Usare strumenti analogici senza pre-set, in cui, per alcuni, devi farti le foto e segnarti la sequenza dei pomellini che hai mosso per creare un certo effetto, fa uscire ciò che cercavo in Scintilla, ossia la vera essenza dell’ispirazione. Ho sempre disapprovato chi fa musica improvvisando, andando in studia, suonando a caso, e vedendo che esce. Se c’è un produttore, poi, si fa copia incolla delle idee e si crea il pezzo. Per me, un pezzo, se non viene composto tutto insieme, al pianoforte, con linea vocale, non esiste: non c’è ispirazione. Essere lontano dal computer, aiuta moltissimo, perché si è completamente concentrati, registri tutto in audio mp3, senza midi, non si può cambiare in corso d’opera: devi registrare tutto da capo, scaldare il synth, trovare la combinazione di tasti, e così via. È un ostacolo così grande che ti costringe e filtrare le idee. Amo scrivere così.
Quindi quando devi lavorare ad un nuovo album parti da un concept o da una scelta stilistica, evitando l’improvvisazione?
Deve trattarsi di un’idea che vale la pena sviluppare. Se non mi convince da subito, non ci perdo tempo. C’è comunque una terza via, non amo il concetto di concept, non lo amavo neppure da ascoltatore: le idee devono venire da sé, e poi ti accorgi dopo che c’è un filone fra quelle canzoni. Io scrivo musica quotidianamente, che poi riascolto e talvolta mi accorgo che alcune idee posso percepire che sono legate: è così che nasce l’album. C’è del naturale, così, perché segue il periodo della tua vita.
Concludiamo con una curiosità. Fra i brani di Allow Yourself, At Peace mi ha colpito particolarmente. Al di là del titolo, il brano esprime un’enorme pace. A cosa pensavi quando l’hai composta?
Pensavo alla serenità. All’illuminazione che si ha nel momento in cui si riesce a staccarsi dalle ansie, a vivere nell’ora. Sai, c‘era un video per At Peace. Avevano interpretato il brano come la pace che un suicida raggiunge dopo aver posto fine alla propria vita. Ovviamente non l’ho accettato. È però anche bello che le persone interpretino a piacere la mia musica.
Giulia della Pelle
Lorenzo Natali
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