Un live tra amici, dieci canzoni che sembrano nate da una lunga improvvisazione, durata cinque anni e che hanno dato vita ad un disco dall’animo vero e tortuoso, con un groove avvolgente e sfaccettato. Si chiama Tornano sempre, l’ultimo album di Angela Baraldi uscito lo scorso 24 febbraio per Woodworm. Voci, respiri, rumori di fondo, nulla è stato sottratto alla realtà. Un gestazione lunga e attenta che però non ha voluto rinunciare a quelle tracce di improvvisazione che impreziosiscono il sound punk/rock tipico della Baraldi e che ne smussano gli spigoli, soffiano via un po’ di graffio e creano un’atmosfera introspettiva in pezzi come Michimouse, uno dei più intimisti del lavoro. Un disco ricco e denso, dieci tracce per dieci tematiche diverse, un’enciclopedia di sentimenti, un catalogo di argomenti che partono dalla sfera individuale ma che sono anche collettivi. Da Josephine, dedicata all’icona femminile del secolo scorso, al qualunquismo denunciato da Uomouovo, al ricordo di Federico Aldrovandi in Tutti a casa, fino alla tematica della guerra in Immobili. Tornano sempre è un lavoro che avvicina i margini al centro, analizza la periferia dell’esistenza. Il tutto sorretto da un sound rock dall’animo dolce, atmosfera decadente e introversa che parla la lingua dell’uomo e del suo infinito mondo interiore, che parla di noi, che parla della vita.
Tornano sempre nasce da una sorta di jam session di idee e musica tra amici. Tu Stewe DalCol, Vittoria Burattini. Come è nato il progetto?
A Il progetto è nato principalmente dall’incontro con Giorgio Canali e Stewe DalCol in occasione del tributo a Joy Division nel 2010. Ci riamo ritrovati a pensare di fare qualcosa insieme, di realizzare dei pezzi nuovi. Così dal 2011 abbiamo iniziato a registrare delle sessioni di improvvisazione senza neanche pensare troppo alla forma canzone e poi con questo materiale io mi sono ritrovata a scrivere. In quattro anni abbiamo fatto tre sessioni in musica poi tutto il resto l’ho fatto io nel tempo, ho anche suonato molto con Giorgio e Stivie. Vittoria è anche un’amica da tanti anni, con lei ho registrato Baraldi Lubrificanti e in questo ultimo disco suona con me.
Le 10 canzoni del disco sembrano 10 diversi capitoli di uno stesso libro. In ogni pezzo affronti una tematica diversa alternando problematiche interiori a quelle collettive. Perché questa scelta?
A È così, perché poi le battaglie interiori sono anche collettive. È venuto fuori un disco un po’ intimista. Finché non finisco un mio lavoro non riesco a dargli una definizione, è anche attraverso le interviste, parlando con la gente che prende forma però non è che c’è stato un progetto, una volta che ho messo insieme le canzoni ho capito che avevano qualcosa che le accomunava, con un retrogusto un po’ crudele, amaro.
Questo disco sembra voler dare spazio agli ultimi, dagli emarginati agli eroi decaduti, dalle vittime di ingiustizie a quelle della disumanizzazione tecnologica. C’era l’esigenza di dare voce a chi non ce l’ha?
A In realtà è più come farsi un giro in periferia invece che al centro della città, o come visitare una villa abbandonata piuttosto che una appena restaurata. C’è questa sensazione un po’ decadente.
Importanti le collaborazioni, da Vincenzo Vasi a Riccardo DalCol, da Emanuele Riverberi a Gianni Maroccolo. Cosa significa per te collaborare con altri artisti?
A Sempre amici in realtà. Avendo suonato tanto insieme in questi anni alla fine è nato anche un forte legame umano. Collaborare con altri artisti per me è fondamentale, io canto con il corpo quindi ho bisogno sempre di un musicista, cioè di qualcuno che mi accompagni, quindi mi sono sempre circondata di persone che suonano. Io sono cantante solista ma avrei sempre voluto essere cantante di un gruppo, perché mi piace l’insieme delle teste nella musica.
Il tuo legame con il mondo dell’arte è variegato: importanti infatti anche le tue esperienze in teatro e poi al cinema. Ce ne parli?
A Ho vissuto queste esperienze con la stessa passione che provo per la musica, sono forme diverse ma che hanno un senso uguale di disciplina, sono due lati di me. Tutte queste forme di arte rientrano nell’attrazione per il palcoscenico che ho sempre avuto, fin da piccola, non è un luogo estraneo per me, mi piace andarci, magari in teatro ci vai con un po’ più di controllo, la musica è più catartica.
Il primo marzo è stato l’anniversario dei 5 anni dalla morte di Lucio Dalla. Tu hai praticamente iniziato con lui, che ricordo hai?
A Lui era una persona molto interessante, sfaccettata, carismatica, ha avuto una vita variegata, ne ha avute tante secondo me, curioso, meraviglioso umanamente. È una figura che manca, manca alla mia città perché lui girava spesso per Bologna, manca come artista, manca come amico.
Invece con Francesco De Gregori? Cosa ti è rimasto dalla possibilità di aver lavorato con i grandi della musica italiana?
A Sì, anche Francesco è stata una figura importante. Dopo Sanremo mi arrivò la proposta di aprire il suo concerto che mi riempì di gioia e soddisfazione. Ci siamo ritrovati a cantare anche Anidride Solforosa dal vivo che poi è stata registrata ed è finita in un disco di Francesco che si chiama Bootleg e anche quella è stata una bellissima esperienza.
Questo disco ha avuto più di 4 anni di gestazione. Cosa è successo in questo lasso di tempo?
A È stato un privilegio poter mettere insieme le cose con calma, ho suonato veramente tanto in questi ultimi cinque anni, è stato bello poter tornare sopra al materiale, anche se per quanto riguarda la musica, la revisione è stata davvero minima. Per la scrittura, invece, mi sono ritagliata uno spazio di solitudine perché quella è un’attività che devo fare da sola, non sono mai riuscita a scrivere un testo in compagnia, anche se con Giorgio Canali per questo disco è capitato che quando mi bloccavo lui mi dava la parolina magica.
Il groove punk e rock non manca ma ci sono anche pezzi che suonano come ballate più melodiche. Mantieni la tua cifra stilistica ma esplori anche altri territori?
A Effettivamente mi ero un po’ stancata di urlare, questo è un disco molto intimista avevo voglia di fare un lavoro più confidenziale e allora sono venuti pezzi come Michimaus, che è una base registrata dal vivo, il primo esperimento di questo album.
In Tornano sempre dici: “tornano dagli amanti amati da quelli trascurati tornano dai sogni spesi da quelli guadagnati da incroci bloccati da giorni finiti tornano sempre…il più delle volte mentre io me ne sto andando”. Chi è che torna sempre?
A Il senso è un po’ ironico verso il mio lavoro rispetto a chi fa un mestiere “normale”, perché a me non sembra di lavorare, primo perché è la mia passione, poi perché i ritmi sono strani, esco di casa quando di solito gli altri rientrano, si suona la sera, quando la gente stacca io mi metto in azione. È un po’ la visione dell’outsider che guarda il resto del mondo che si muove tutto uguale, non è offensiva questa visione, è semplicemente la constatazione della particolarità del mio lavoro.
Josephine, dedicata a Josephine Baker che da schiava diventò un’icona. L’affermazione del nostro spessore morale può essere la più efficace forma di riscatto e, quindi, di libertà?
A Esatto! Poi mi piaceva molto l’idea che fosse una figura che appartiene al secolo scorso, quindi una vera avanguardia, antesignana di movimenti che poi hanno cambiato la storia delle donne. È stato un pezzo istintivo che ho scritto in cinque minuti, la canzone è venuta fuori dal testo. Non c’è tanta letteratura su di lei ma ci sono degli aneddoti spettacolari che mi hanno ispirata molto.
Tutti a casa scritta per il concerto dedicato a Federico Aldrovandi. Credi, in questo momento storico, nel potere di denuncia sociale della musica?
A Devo essere sincera, credo che una canzone possa cambiare uno stato d’animo ma non la società, in modo così immediato. Poi ci sono canzoni simbolo, altre maltrattate, usate in maniera impropria. Ci sono tanti modi di raccontare il disagio, la canzone di denuncia è quella che fa i nomi ed è giusto farlo. Forse sarebbe stato più bello che avessi risposto sì a questa domanda ma non penso che un pezzo possa cambiare una situazione storica, pensiamo alle canzoni sulla guerra, ne sono state scritte tante ma questa piaga dell’umanità purtroppo non si è mai fermata. Sono convinta, però, che la musica possa influire sull’interiorità del singolo e cambiando tante persone si può creare una moltitudine che sicuramente innesca un’evoluzione positiva, al livello di percezione e visione su certe tematiche.
Rumori di fondo, oggetti, voci. Sperimentazione sonora ?
A Quello è merito di Canali che ha lasciato anche delle “chiacchiere” che facevamo. È questo secondo me che rende prezioso questo disco, questo aspetto insolito di non rimettere le mani sul materiale lascia la traccia dell’istinto della prima volta che si prova. È un tema sul quale abbiamo discusso molto anche con Giorgio perché io tendo a cambiare le cose quindi abbiamo trovato un compromesso credo ben bilanciato, sono davvero soddisfatta di questo album.
Sabrina Pellegrini
Si appassiona alla musica sin da bambino, scoprendo la vena rock n roll alla tenera età di 8 anni folgorato dall’album EL DIABLO dei Litfiba e PARANOID dei BLACK SABBATH. Nel 2010, insieme a due amici, Alessio Mereu e Alessandro Cherubini fonda il LITFIBA CHANNEL che di li a poco diventerà la radio ufficiale della storica rock band di Piero Pelù e Ghigo Renzulli, all’interno della quale conduce il programma SOGNO RIBELLE scoprendo e intervistando insieme a GRAZIA PISTRITTO band come IL PAN DEL DIAVOLO, BLASTEMA, KUTSO, ILENIA VOLPE, METHARIA, FRANCESCO GUASTI, PAVIC, UROCK. Format portato anche in formato live organizzando serate di vera e propria musica live in alcuni locali di Roma. Nel 2017 dopo tre anni alla direzione di una webzine, decide di fondare e dar vita a INSIDE MUSIC insieme alla socia MARTA CROCE.