Siete musicisti? Volete suonare Metal? Avete a disposizione una macchina del tempo? Allora evitate di farvi trasportare tra il 1992 e il 1999, perché le leggi di mercato non sono dalla vostra parte e rischiereste l’oblio. Ne sanno qualcosa i Dream Theater, band di riferimento del Progressive Metal e ormai rinomata in tutto il mondo. Ma negli anni Novanta, dopo il grande successo di “Images and Words” (1992), i gusti del pubblico cambiarono e il successivo “Awake” (1994) non riuscì a confermare il numero di vendite. Si aggiunga poi un po’ di pioggia sul bagnato: il tastierista Kevin Moore lasciò il gruppo dopo quell’album e con lui la fantasia compositiva di quasi metà del repertorio del Teatro dei Sogni.
La band è dotata ma perde colpi e il pubblico non dà conferme. Dopo l’EP “A Change of Seasons”, registrato con Derek Sherinian alle tastiere, qualcosa doveva cambiare. La produzione chiese brani più concisi e radiofonici, incontrando il benestare di Petrucci e il rifiuto di Portnoy. La registrazione di un doppio album demo, con tanto di minitour annesso per mostrare come il materiale fosse promettente, non convinse la East West Records. L’etichetta affidò quindi il quintetto statunitense al noto Kevin Shirley, affinché plasmasse da tutto il materiale un prodotto valido per il mercato.
Innanzitutto, niente doppio album: dalla tracklist vengono eliminate, tra le varie, “Raise the Knife” e “Metropolis Part 2”. “You or Me” viene modificata in “You not Me” e la stesura del testo è affidata al paroliere Desmond Child. “Burning My Soul” viene tagliata in due e la sua sezione strumentale diventa “Hell’s Kitchen”. La lenta e commovente ballad “Take Away My Pain” viene ravvivata con un groove più rapido e lontanamente afrocubano. Tanti altri piccoli accorgimenti riguarderanno tutti gli altri brani.
Mettendo a confronto la versione demo (diffusa in rete da Portnoy) con quella dell’album, si può notare come Shirley abbia realizzato un mezzo miracolo. “Falling Into Infinity” effettivamente ne guadagna in leggerezza, divenendo un album di più ampio respiro rispetto alla versione originale composta dalla band. I brani hanno una loro fluidità, un loro senso e una identità mai più ripercorsa.
Effettivamente “Falling Into Infinitiy” resta un qualcosa di insolito nella discografia dei Dream Theater. Tutto l’album è caratterizzato da un suono più grezzo, meno pulito ma non per questo meno bello. Basti ascoltare l’opener “New Millennium”: brano pregevolissimo, orecchiabile ma non scontato e assolutamente imprescindibile per ogni fan dei Dream Theater e del Progressive Metal in generale. Le tastiere di Sherinian sono una vera chicca, mai più riproposte da Rudess, sempre attento a suoni più puliti e meno Hard Rock, ma anche aperto a diversi tipi di sperimentazioni, come le sue varie app per iPad dimostrano. Sherinian era più un musicista da sperimentazioni sul synth, con suoni ruvidi e talvolta futuristici.
La successiva “You Not Me”, totalmente dimenticata da tutti, Dream Theater compresi, è un brano quasi Pop Rock, non consueto per il Teatro dei Sogni, ma è assolutamente qualcosa di pregiato. Tralasciando un Portnoy sempre in ottima forma dietro la batteria, il brano presenta un bellissimo ritornello e uno degli assoli più sperimentali di Petrucci: niente shredding, qui ci si muove su un altro territorio.
E’ tutto un altro modo di concepire la musica dei Dream Theater. Con “Peruvian Skies” si entra appieno nell’universo Prog Rock che caratterizza un po’ tutta l’opera: impossibile non riconoscere i Pink Floyd in certi passaggi. Ma anche la delicata ballad “Hollow Years” è un piccolo assaggio di repertorio insolito e comunque struggente e difficile da dimenticare. Con “Burning My Soul” si ritorna ad atmosfere più metal, tra l’altro con ottimi risultati, seguiti da una delle strumentali più epiche che il quintetto statunitense abbia mai realizzato (e si ringrazi Kevin Shirley per averlo evidenziato, concedendogli una traccia tutta per sé: quattro minuti di autentica estasi).
La lunga “Lines In The Sand”, ritoccata solo in minimi punti rispetto alla versione demo, conferma lo spirito insolito della composizione dreamtheateriana di quegli anni. Principalmente su base Prog Rock, con fortissimi richiami ad atmosfere alla Emerson Lake & Palmer, la traccia presenta un riff di pianoforte molto (moltissimo) vicino al jazz degli anni Novanta, in particolare degli Esbjorn Svensson Trio. Brano pregiato, forse fiaccato dalla guest vocal di Doug Pinnick dei King’s X, completamente esagerata e fuori luogo.
“Take Away My Pain”, struggente canzone di cordoglio di Petrucci dedicata al padre defunto di cancro, presenta, come già detto, un groove più veloce e lontanamente etnico rispetto all’originale. Il brano ne guadagna in musicalità, ma poi i Dream Theater preferiranno in tour eseguire la versione originale, per poi dimentacarla negli anni a seguire. Una delle tante belle canzoni abbandonate lungo la strada e che avrebbero meritato miglior sorte, sicuramente più di quanto prodotto negli anni a seguire, in particolare nell’epoca post-Portnoy.
Assolutamente da panico la vivacissima “Just Let Me Breath”, caratterizzata da riff mozzafiato e da un’atmosfera vicina all’Alternative (da notare su tutto il ritornello cantato al megafono…). Segue probabilmente l’unico passo falso del disco, la piano-ballad “Anna Lee” alla Elton John, anche se aprirà il percorso a tutta una serie di ballad Pop a cui i Dream Theater difficilmente rinunceranno (come “The Answers Lies Within”) e creando un mood che si presenterà in brani anche più impegnati (come”The Ministry of Lost Souls”). Brano comunque apprezzabile, a modo suo, quindi un po’ ma non troppo.
Per concludere, il lungo albume ci regala una delle suite più belle mai prodotte in assoluto: “Trial of Tears”. Costituita da tre sezioni, scritta dalle poetiche mani del bassista John Myung, il brano si muove delicatamente tra atmosfere Prog Ambient alla Rush, avvicinandosi a un Prog Metal delicato, con pregevoli assoli di synth e chitarra e un ritornello da cantare a squarciagola, per non parlare del climax ascendente che scorre tra strofe, ritornello e finale.
“Falling Into Infinity” è quindi un disco splendido, uno dei più interessanti di tutta la discografia dei Dream Theater, assolutamente da non trascurare, sicuramente uno dei più particolari. Le atmosfere che questo disco riesce a creare non verranno ulteriormente indagate: il disco percorre una strada presto abbandonata. Il motivo è facile da spiegare. Le vendite furono, nuovamente, scarse e il successivo “Metropolis Part 2 – Scenes From a Memory”, cambiando percorso ed esplorando quanto lasciato da “Images And Words”, avrà un notevole successo.
Questo disco quasi dimenticato del 1997, amato solo dai fan più accaniti, spesso trascurato dai più, meriterebbe più importanza di quanto il destino gli abbia riservato. Costituisce un fondamentale passo in avanti nella costruzione dell’identità musicale di una delle band più importanti del Metal. Dopo un esordio flop, un capolavoro assoluto, un capolavoro non riconosciuto, i Dream Theater dovevano ancora capire cosa potevano offrire al mondo e cosa il mondo chiedeva loro. Falling Into Infinity, con la sua svolta più delicata, vicina alle mode dei tempi ma ispirata anche da atmosfere passate da vent’anni, era una fase del percorso di crescita e maturità.
I Dream Theater poi, col successo di Metropolis Part 2, si muoveranno sempre, più o meno, su quei binari sicuri, riproponendo spesso la stessa qualità di registrazione, lo stesso tipo di sonorità, perdendo spesso in originalità, costruendosi negli anni 2000 un fandom di appassionati numeroso ma difficilmente allargabile. Chissà. Un grande successo di “Falling Into Infinity” poteva cambiare notevolmente le cose. Magari ci avrebbe privato delle bellezze di “Metropolis Part 2”, ma allo stesso tempo avrebbe consentito a una band ancora giovane di sperimentare e muoversi su territori vasti e inesplorati, evitandoci quindi qualche album di troppo, un po’ troppo simile a quello che lo precedeva e di cui magari gli ascoltatori non avevano bisogno, ma le leggi di mercato e di vendita sì.
Daniele Carlo
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