Va premesso che gli Evanescence hanno, da sempre, una carriera travagliata. Synthesis potrebbe essere l’inizio di un nuovo ciclo.
La band, o l’aggregato di musicisti orbitanti attorno alla camaleontica Amy Lee, è stata soggetta a cambi di line-up, sabotaggi dalle case discografiche, relazioni finite male, depressione da parte di componenti, infarti, malattie, lutti. L’attuale line-up conta la stessa Lee, Jen Majura alla chitarra, Tim McCord (basso), Will Hunt (batteria, reduce dalla collaborazione con Vasco), Troy McLawhorn (chitarra e cori). Parte del leone è svolta dal compositore David Campbell, che ha riarrangiato, con l’ausilio di un’intera orchestra, molte delle canzoni della band. Infatti, Synthesis, contiene solo due inediti: Hi-Lo, un’outtake da Evanescence, e Imperfection, singolo estratto dall’album. Produttore è un omonimo del batterista, Will D. Hunt, accreditato assieme alla stessa Amy.
Ho atteso molto prima di fare questa recensione, dal momento che l’album Synthesis è uscito il 10 novembre. Ho atteso di acquistarne la copia fisica, di avere il tempo necessario per ascoltare con attenzione ogni traccia e di essere in grado di fornire un giudizio obbiettivo e circostanziato.
Amy Lee si sentiva, indubbiamente, in debito con se stessa. Aveva molto da dire, dopo l’album tronco, Evanescence, stuprato dalle scelte della casa discografica, che decise motu proprio di tarpare le ali alla virata elettronica che la musica stava prendendo. Elettronica che Amy ha sempre amato, sin dai tempi del primo, rarissimo, Origin, che contiene felici episodi sintetici. Da sempre, la Lee ha affermato che la sua prima ispirazione è l’islandese Bjork, alla cui figura eterea la band deve anche il nome. Ed infatti di Bjork e di cantautrici nordiche si avverte subito l’ispirazione.
Ma andiamo con ordine. Se ci si aspetta un classico disco rock, si rimarrà delusi. Se si pensa ad un’opera orchestrale, anche. Se si è reduci dall’ascolto di Orca Simphony di Serj Tankian, si resterà disgustati. Se si pensa ad una sintesi fra tutto ciò, allora si avrà la mentalità giusta per comprendere le intenzioni della band. Perché Synthesis è sostanzialmente un greatest hits, ma contenente le canzoni preferite dai fan, non le più note. Mancano infatti Going Under, Everybody’s fool, Call me When you’re Sober, All That I’m living for ed altre. Synthesis è diretto ai fan, ed ai fan soli: ma amplia il sound della band ad un livello fruibile a chiunque, universale e pervasivo.
Partiamo dalla copertina. Un felice ritorno al colore per Amy, che posa con un abito gotico presumibilmente di sua stessa fattura (è solita disegnare da sola i propri vestiti), a mo’ di farfalla. Come a dire: ora abbiamo le ali. Nessuna dannata major ce le ruberà mai più. Il motivo delle ali di insetto, delicate ed effimere, si ripete nel libretto, in cui si vede Amy tenere in mano una sfera contenente un’immagine della band tutta. Infatti, per quanto la presenza della Lee sia totalizzante, questa volta sembra si tratti di un lavoro di squadra: qualche pagina più tardi è presente una bellissima foto promozionale in pieno stile steam-punk della band al completo, assieme ai crediti e ai ringraziamenti. C’è un che di circense e barocco, a prima vista: nulla di più lontano da Fallen.
L’album inizia con una vera e propria ouverture operistica estremamente gotica ed oscura, violini e piano che si inseguono e rincorrono in un crescendo che trascina verso Never Go Back, tratta da Evanescence. Originariamente si trattava di una traccia energica, ma priva d’anima come, del resto, tutto l’album. Ora si assiste ad un grande cambio di rotta: si inizia con calma, poi gli effetti elettronici aumentano di pari passo con i violini ed appare anche un oboe nel refrain. Lo stacco con l’originale è incredibile ascoltando con attenzione l’interpretazione della Lee, che, sembra, finalmente, sentire lei stessa ciò che sta cantando. La sua voce è espressiva, ha una potente componente teatrale: nel bridge diviene un sussurro sulle onde del mare.
Il primo dei due inediti è Hi-Lo, una ballad elettronica che inizia piano con piano e fiati; è un outtake da Evanescence. Le tematiche trattate ricordano la Amy dei tempi andati: un amore perduto e violento, di cui lei finalmente riesce a disfarsi. Probabilmente qui la cantante tocca le note più basse della sua intera carriera: la sua interpretazione vocale è gigantesca, fornisce alla traccia la leggerezza di una piuma. Il bridge strumentale di violini sincopati e oboe è epico, jazz, ed avantgard.
Si passa poi ad un altro remix, ossia della hit My Heart is Broken, traccia che tratta il tema delle terribili ferite all’anima che un abuso sessuale comporta; qui, forse, data la delicatezza dell’argomento, l’accompagnamento minimal fornisce più coerenza all’impianto.
Lacrymosa era forse la traccia migliore di The Open Door. Una rivisitazione in chiave metal di un’aria del requiem di Mozart, con i violini neoclassici che si fondevano alle chitarre elettriche e alle percussioni rock. Il testo scritto da Amy si fondeva meravigliosamente con i cori ecclesiastici dello spartito del grande compositore. La produzione era notevole, operistico al punto giusto ed affidato a professionisti. Insomma, era una traccia che funzionava, eccome. Purtroppo, in questa versione, è evidente l’esigenza di strafare, di cancellare quel passato colmo di commercialità, del ricordo di Ben Moody, di Seether: manca totalmente l’equilibrio e il semplice epòs della riuscitissima versione precedente.
La scelta di The End of the Dream non è delle più felici, in apparenza. Si trattava di una traccia incolore, tratta da Evanescence: qui, dolci campanelle si intervallano al triste racconto narrato da Amy. Tale motivo si ripete con poche evoluzioni nei primi due minuti di canzone: finalmente, per il primo refrain, viene fornita la sinfonia di colori che mancava dall’inizio dell’album. La canzone è, in generale, molto rallentata rispetto all’originale, probabilmente per dare modo ad Amy di sfoggiare tutta la sua rinnovata abilità interpretativa. La traccia finisce in crescendo strumentale, in cui, finalmente, si odono, in sottofondo, anche delle chitarre ed un basso.
Bring me to life è stato uno dei più grandi successi della musica rock del nuovo millennio. Una traccia che aveva mescolato il rap alla Linkin Park con la voce eterea e di impostazione lirica di Amy Lee. Eppure, dal racconto della cantante, essa era stata snaturata. Gli appassionati sicuramente non avranno mancato di ascoltare la demo, rubata dagli archivi Wind-up come la maggior parte del materiale inedito della band: si trattava di una canzone elettronica, priva di controparte maschile, ma dal sound ovviamente rozzo, trattandosi di una demo. Beh, la versione Synthesis riprende quella demo, ed Amy si prende tutta la scena: e funziona. Finalmente ci si accorge come quel duetto rap fosse terribilmente forzato, proprio per cavalcare l’onda nu-metal. Il famoso brige di “Frozen, frozen, inside”, raggiunge livelli di lirismo che l’originale non poteva e no voleva avere; gli archi orientaleggianti erano totalmente assenti; la ritmica sincopata di questa versione meglio si adatta alla volontà, appunto, di tornare in vita.
Unraveling è un grazioso interludio al pianoforte (mi immagino le manine bianche di Amy che tempestano sui tasti). Anticipa gli accordi caratteristici di una delle canzoni migliori e più antiche dell’intera produzione, Imaginary. Tale traccia fu scritta ai tempi di Origin, il primo, meraviglioso, LP della band: ancora in erba, giovani e ancora alle superiori, ma David Hodges, Ben Moody, Amy Lee, avevano talento da vendere, ed assieme, avevano creato un’alchimia irriproducibile. L’intro di Imaginary è praticamente identico alla versione di Fallen, ma c’è più rabbia, laddove c’era rassegnazione. L’onirico refrain, che canta di ciò che avviene in campi di fiori di carta nella mente di Amy, è caratterizzato solo dalla sua voce; ad ogni iterazione, si aggiunge qualche strumento. Il bridge, al minuto 2:10, manca però della necessaria spontaneità: purtroppo, e, si vede, è una traccia che la cantante sente ormai come lontanissima dal suo ego attuale, e che gli altri componenti della band non hanno visto né comporre, e ben poche volte hanno dovuto suonare. È qualcosa che non appartiene più agli Evanescence, e tentare di appropriarsene in maniera così decisa pare quasi un sacrilegio. Il che, tradotto in termini tecnici, significa che la traccia, al pari di Lacrymosa, così riarrangiata, non funziona.
Secret Doors è un’altra traccia tratta da Evanescence, una delle più belle. L’inizio, un po’ Theatre des Vampires, un po’ Theatre of Tragedy, fornisce la giusta angoscia all’ascoltatore per entrare all’interno del mondo angusto e claustrofobico descritto dalla canzone: si capisce subito che la traccia era così concepita. Come un dolce sonno di morto cullato da onde di un mare oscuro. Finora, assieme a Bring me to Life, il miglior remix dell’album.
Lithium è, compositivamente parlando, una delle canzoni più belle prodotte da Amy. Un’emozionante gothic ballad sulla dipendenza dagli psicofarmaci, qualcosa che potrebbe tranquillamente esser uscito dalle mani di Marco Hietala dei Nightwish o dai Within Temptation, ma più intimo, spontaneo, personale (“I wanna stay in love with my Sorrow, here in the darkness I know myself”), nel cui viene ossessivamente ripetuto il titolo raggiunge il livello di un mantra di dolore, qualcosa che accumuna tutti i malati di depressione. Purtroppo, come Lacrymosa, Imaginary, gli originali erano perfetti. Non si poteva chiedere di meglio ad una band sfortunata come gli Evanescence. Lithium, dall’arrangiamento elettronico, mancante della furia e dell’oscurità fornite dal metal, è un lavoro a metà, un’opera tronca.
La traccia più bella di Evanescence è la meravigliosa Lost in Paradise, canzone divenuta nota col tam tam popolare ma mai rilasciata come singolo. Anch’essa, era stata vittima del cambio di programma della casa discografica, condannata ad assomigliare ad una My Immortal 2.0. Di nuovo, qui ci si rende conto che la canzone così doveva essere: Amy è felice nella sua illusione, in quel paradiso in cui si è persa; gli accordi maggiori degli archi (diminuiti nell’arrangiamento di Evanescence), ne sorreggono l’idea emotiva. Commuove di gioia nella seconda parte, un inno alla rinascita, alla fuga verso un mondo migliore, in cui ci sono gli angeli ad accompagnare ogni suo passo.
In minoranza rispetto alle altre, le tracce da The Open Door si riducono a Lacrymosa e Your Star. Quest’ultima era una canzone in cui Amy fornisce fra le sue migliori interpretazioni vocali di sempre, per controllo, tecnica, ed espressività. La sua voce è quasi interrogativa, ricorda un monologo diretto a qualcuno di assente, e le frequenti pause nella base sembrano quasi di riflessione; il cambio di tonalità è ben evidente, più che nell’originale. Gli archi sono oscuri, ed esaltano il testo. Percussioni appena pizzicate, piano, e pochi archi accompagnano nel bridge. Si tratta di una traccia molto tecnica, difficile, dark cabaret, molto Emilie Autumn, che rende al meglio grazie alla saggia scelta degli strumenti.
My Immortal. L’inno dell’adolescenza di tante ragazzine dark, tristi per la mancanza d’amore nella loro vita. Viene ripresa la versione rock della traccia, non l’originale di Origin. L’effetto è da brividi: al pianoforte sono sostituiti semplici archi, e la voce di Amy sorregge tutto l’impianto scenico della traccia. Quel dolore antico e universale è palpabile, torna prepotente ad affacciarsi nella mente di un’ascoltatrice venticinquenne. È difficile giudicare oggettivamente questo arrangiamento, visto che, di arte si tratta, e l’arte, per definizione, non deve essere né confortevole né sottoposta a canoni oggettivi di giudizio.
Siamo quasi alla fine. In-Between è un preludio al tema musicale di Imperfection, ed è infatti incluso nella versione del videoclip della canzone. Siamo su lidi incredibilmente oscuri, mai toccati dalla luce del sole: Amy probabilmente ha ascoltato il goth norvegese dei Sirenia e Theatre of Tragedy. Le campane, il piano, i timpani, guidano ad una sorpresa: Amy recita in maniera arrabbiata e sincopata i versi della canzone, giungendo ad un arioso refrain in cui invita ad amare la vita, a non arrendersi alla volontà di togliersela. Non osare arrenderti. Non lasciarmi qui senza di te. Neo-classica, traccia debitrice sia del goth metal, sia di compositori come Philip Glass, Einaudi dei momenti elettronici, Clint Mansell per la grandiosa gestione degli archi, è impossibile non restare incantati da tale, ispiratissimo, inedito. Imperfection è una perfetta sintesi di tanti temi, di tante esperienze di vita e di tanti generi. Si chiude il sipario, ed il pubblico è tutto in piedi ad applaudire.
In sostanza, Synthesis è un netto stacco dal passato, con eventi particolarmente felici, nel caso di quasi tutte le rivisitazioni da Evanescence, album sfortunato ed incolore, e dei due inediti, ma anche, forse, evitabili, come nei remix di My Immortal, Imaginary, e Lithium. In ogni caso, un giudizio non può che essere positivo: Amy Lee è finalmente sé stessa. Con rabbia, come sempre, si è scrollata di dosso l’aura commerciale che ha sempre detestato ed è diventata la compositrice che ha sempre desiderato essere. Da sempre ispirata da Bjork, nell’ultimo lavoro, a parer nostro, ha fuso l’ispirazione elettronica con elementi neoclassici che, nella musica rock, mancavano da molto.
Per il prossimo album, con line-up completamente rinnovata, non possiamo che sperare bene.
Giulia Della Pelle
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