“Song of Experience“, il nuovo album degli U2 venuto alla luce il primo Dicembre 2017, è il simbolo del vero e proprio travaglio in tutte le sue forme. Non solo a causa delle note peripezie (che andremo a spiegare in seguito) che la stessa band ha avuto in corso d’opera, ma anche per le grandi difficoltà che io stesso incontro nel recensire questo lavoro.
Difficile da definire, difficile da classificare. Il tutto, essendo una recensione che ricerca un minimo di serietà musicale, non può rifugiarsi in un semplice “mi piace/non mi piace” per poi sparare a zero su uno dei due fronti come molte sedicenti testate serie amano fare per accalappiarsi click facili. Necessaria è, ora e sempre, nel recensione un’opera, una maniacale attenzione a ogni dettaglio possibile e immaginabile. Le tematiche, l’aspetto tecnico della produzione in sede di studio, la qualità della componente strumentale, quanto essa è stata valorizzata e come il tutto si cuce in un percorso ideologico emotivo che si pone alla base fondamentale di un qualunque album in grado di meritarsi la definizione di “opera”.
In questo specifico caso è stato davvero difficile riuscire a tirar le somme. Un continuo roller coaster di sensazioni prima negative e poi positive che scazzottano tra loro alternandosi a ogni ascolto è il buon riassunto della mia esperienza con questo lavoro. Per un musicista e amante della musica non è cosa da prendere alla leggera la recensione di un album, specie se poi di una band oggettivamente mastodontica come gli U2.
Fatto questo primo preambolo direi di non esitare ulteriormente e procedere dritti verso una “breve” analisi di un album controverso sotto molti aspetti.
Song of Experience. Un lavoro travagliato e controverso.
Come precedentemente detto, “Song of Experience”, è stato per gli U2 un album estremamente travagliato. Inizialmente gemello musicale e ideologico del precedente “Song of Innocence”, a lavori ormai in dirittura d’arrivo qualcosa cambia nello status interiore della band. Una serie di eventi personali e non, si affastellano rapidamente destabilizzando la situazione interiore del quartetto irlandese e portando alla necessità di una parziale rivoluzione dell’opera. L’elezione di Trump, il risveglio dei nazionalismi in Europa, il problema immigrazione e, ancor più importante, la vita del nostro caro Bono per un momento costretto a guardar negli occhi, senza doverla abbracciare, la morte, portano il gruppo in un circolo che, dopo nuove incisioni, arrangiamenti e composizioni, ha dato vita a ben tredici nuove tracce.
Così, “Song Of Experience”, è l’evoluzione nell’evoluzione.
Di fatto, il primo ascolto, è tremendamente spiazzante. Vi è, senza ombra di dubbio, della novità nelle sonorità, e non poca. Il quartetto affronta un avvicinamento ancor maggiore alle sonorità del pop contemporaneo più “spiccio” senza però perdere la natura tipica che li ha contraddistinti nel tempo. Ma non solo. Vi sono anche una non indifferente quantità di variegati spunti stilistici non difficili da individuare già ai nastri di partenza.
“Love is all we have left”, breve traccia di apertura, si srotola in una composizione dal gusto etereo. La voce di Bon si muove con versi solenni e struggenti supportati da un tappeto di sintetizzatori di stampo atmosferico/synth wave, alternandosi con cori filtrati da vocoder che molto ricordano i lavori di Kanye West e Bon Iver.
“Lights of Home” sembra, apparentemente, riportare il tutto alla normalità. Una chitarra dal suono forse troppo debole e secco regge un cantato dall’illusione dispara (è in realtà un semplice 4/4) portando poi a un ritornello aperto e corale. Sono questi gli U2 che conosciamo? Si e no. Manca qualcosa? Forse.
Ed’è questa la sensazione che attanaglia lungo tutto l’ascolto un orecchio analitico. Manca qualcosa, ma non sai cosa. “You’re the best thing about me“, pezzo dedicato da Bono alla sua amata moglie, rimane al confine tra l’hard rock classico e il pop/rock corale che li ha distinti negli ultimi tempi. Per la prima volta il tipico clean di Edge si affaccia nel ritornello, uno dei pochi momenti in cui potremo ascoltarlo. Forse una delle prime mancanze?
Un piglio simile lo troviamo in “American Soul“, pezzo che nella maniera più assoluta sembra quanto mai lontano dagli U2 (qualcuno ha detto Black Keys? El Camino? The white stripes?). Nonostante ciò rimane senza dubbio d’effetto, pertinente nell’incrocio tra strumentale e tematiche trattate e comunque, scavando in profondità, lo stile tipico del quartetto irlandese è rintracciabile.
La grande quantità di diversi spunti stilistici è riscontrabile tanto nella roccheggiante e sessantina “The Showman” quanto nella catchy e poppeggiante “Get out of your own way” che, inizialmente, appare come un pezzo in pieno stile U2 senza esserlo, però, completamente. Ancora una volta manca il tocco di Edge e delle sue clean guitar, che in una strofa così vuota avrebbero di molto innalzato il livello della composizione. La batteria, chiaramente elettronica in alcune parti, si accoppia bene con il fondo di sintetizzatori ed’è ben strutturata l’esplosione corale nel ritornello. Unica pecca? Melodicamente scontata. Ma in fondo le cose per esser belle non devono essere necessariamente ricercate e studiate in laboratorio.
Con “The Blackout” arriva il colpo di grazia alla già confusa mente di un qualsiasi ascoltatore. Pezzo spiazzante nella sua diversità. Semplicemente gli U2, con questa canzone, riescono a realizzare quello che potremmo tranquillamente defnire “pop duro”. Lo so, la definizione cozza, ma cosa posso farci? In un misto tra percussioni elettroniche, sintetizzatori new age e una strofa retta da una scarna sessione ritmica di basso rigorosamente distorto e batteria, gli U2 riescono a dar sensazioni totalmente diverse dal solito rimanendo però loro stessi. Continua però a mancare qualcosa.
Credo sia il momento di trarre delle, difficili, conclusioni. Sono solo sette su tredici i pezzi fin qui trattati, onde evitare un lavoro eccessivamente prolisso, ma tanto basta per afferrare la natura generale del lavoro.
Un lavoro buono nel complesso ma dal retrogusto amaro
Cos’è “Song of Experience”? Sicuramente ci troviamo di fronte a un album radicalmente diverso dal solito.
Si muove, in tutto il suo minutaggio, districandosi tra momenti dal sapore crudo e rock (la minor parte) alternati a fasi in cui lo stilema pop contemporaneo la fa da padrona. Gli U2 hanno ripreso in sostanza alcuni elementi del loro inconfondibile stile riadattandoli a un contesto sonoro talvolta molto differente. Il che, lasciatemelo dire, è quanto di più lodevole vi sia se fatto bene. Poteva però essere fatto meglio.
L’album manca, a tratti, di carisma e dinamicità. I differenti stili chiaramente presenti lo rendono un lavoro in superfice poco coeso in cui, per ricercare un filo conduttore sonoro, è necessario scendere a un livello di analisi ben più profondo. Alcune scelte melodiche e di arrangiamento risultano talvolta piuttosto scontate e valorizzano poco un album comunque dal grande potenziale emotivo.
Bono, cantante sempre straordinario, non ci regala questa volta una delle sue colossali prestazioni. Sempre ottimo durante tutto il lavoro ma mai eccezionale. Manca forse, in alcune sezioni, il suo carisma e l’eccessiva presenza di cori forse rende stucchevoli alcuni momenti, per quanto apprezzabili a livello di pienezza sonora.
La produzione non è, tra l’altro, delle migliori.
Il triumvirato formato da Jacknife Lee, Ryan Tedder e Steve Lillywhite sembra aver chiaramente “steccato” alcune scelte.
Le chitarre, quasi sempre in secondo se non in terzo piano, sono poco incisive, scarne nel suono, a tratti incredibilmente mancanti di pienezza e armoniche tanto nei distorti, sempre deboli, quanto nei clean.
La batteria, alternata a drum machine elettronica, viene talvolta troppo risaltata sia nei bassi della cassa quanto nelle frequenze alte dei piatti risultando alle volte fastidiosa e dando, al tutto, un taglio sempre troppo pop e artificiso anche li dove forse la consistenza di una tipica drum roccheggiante avrebbe maggiormente giovato.
Insomma, gli elementi non eccelsi son tanti e forse proprio una produzione non ottimale (e troppo tendente al pop contemporaneo) ha favorito l’emergere di alcuni difetti e un eccessivo snaturamento delle sonorità in un lavoro che, nel complesso, rimane senza ombra di dubbio buono lasciando però in bocca un retrogusto amaro.
Si poteva far di meglio.
“Song of Experience” appare più come un album di transizione che come un lavoro artisticamente maturo. Concludendo, con quest’ultima uscita, l’idea di fondo che costantemente si presenta, è quella di un album di buona caratura ma mai straordinario, forse anche sottotono.
Però che dire. Sono pur sempre gli U2. Band che ci ha regalato anni e anni di musica eccezionale. Criticarli più aspramente (come farebbe qualche sedicente e superficiale critico) o definirli bolliti sarebbe ingiusto (considerato che, nel complesso, ci si trova davanti a buona musica) e poco rispettoso. In fondo, cari lettori, ricordate una cosa. Nessuna band vi deve nulla. La buona musica non è un vostro diritto, ma una gentil concessione dell’artista.
Voto: 6.5/7
Lorenzo Natali

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