L’India è una terra con una personalità ben definita, così specifica che anche chi non ha mai messo piede sul suo suolo sa riconoscerne lo stile e l’influenza.
Così come la loro India, anche Parekh & Singh sono un progetto musicale estremamente particolare.
I due, Nischay Parekh and Jivraj Singh, sembrano riuscire a descrivere in ambientazioni ben precise i sentimenti che fanno da filo conduttore all’album.
Il primo canta, suona la chitarra e si occupa dei sintetizzatori, il secondo invece scrive il ritmo con batteria e percussioni varie e collabora alla componente elettronica.
In una simbiosi perfetta, il duo diventa un’unica entità in cui i colori, i sogni, la tenerezza e una non-così-ingenua ingenuità fanno da mezzo di trasporto verso il loro mondo di bellezza ed innocenza.
D’altronde, non si può confinare la loro esperienza artistica solamente nella musica: i loro video fanno un uso smodato dei colori nella fotografia per far penetrare il loro messaggio ancora più in profondità, e l’architettura delle loro canzoni fa ben comprendere quanta minuzia ci sia nella loro costruzione.
Quando si parla di dream-pop, genere nel quale vengono inquadrati, è impossibile tralasciare il ruolo da protagonista che hanno le atmosfere dei brani.
In attesa del loro nuovo album, Science City (disponibile dal 26 Aprile), riascoltiamo il loro primo lavoro: Ocean, del 2016.
L’album si apre con la voce di Parekh, che sembra quasi un bambino di 23 anni, timido, un po’ impacciato e con qualcosa di importante da dire. In sottofondo, in sincronia con la sua voce, una chitarra acustica dà il via a quella che effettivamente è la musica: a tratti incalzante seppur calma, un accompagnamento che non ha la pretesa di stupire con tecnicismi fuori luogo.
A poco a poco si aggiunge il basso, poi la batteria, degli shaker, dei cori sintetizzati: ci si ritrova inaspettatamente nella loro dimensione.
“I love you baby, I love you doll”, la prima traccia, è una canzone d’amore scritta nella maniera più classica, come l’album in generale richiama nella mente lo stile dei Beatles, ma con un po’ di elettronica in più.
Si prosegue con “Newbury Street”, che non vuol essere un brano a sé stante, ma il naturale proseguimento del primo.
E’ una canzone che non sta mai ferma: quell’hi hat che si apre e chiude senza sosta, i sintetizzatori in sottofondo che non cessano un istante e che spingono l’ascoltatore in avanti, costringendolo ad impararla sul momento per poterla subito cantare.
Se nei primi due brani la componente elettronica ha richiesto ruoli da protagonista, in “Me & You” ricopre un ruolo secondario, in quanto il grosso in questa traccia viene fatto dall’alternarsi della ritmica acustica e dell’arpeggio elettrico e distorto.
Lo scambio e la sovrapposizione di questi due strumenti gioca molto sulla dicotomia centrale dell’album: Parekh & Singh, chi ama e chi viene amato, la chitarra acustica e quella elettrica, ogni elemento deve collaborare con l’altro per l’obiettivo comune.
“Panda”, invece, è la tipica canzone pop occidentale scritta da un orientale: la metafora della reincarnazione di un panda è utile per far combaciare l’amore umano, quello per la spiritualità e quello che arriva dal centro della nostra anima così da poter definire una cornice precisa di cosa può essere un sentimento vissuto con convinzione.
La quinta canzone è anche la più corta, completamente elettronica, tant’è che anche la voce viene filtrata con un effetto particolare che la rende soffusa e a tratti più dolce. “Hill” è una canzone di passaggio, il centro dell’album, quel brano che divide l’intero lavoro in due, un interludio che ci porta fino alla quinta canzone.
“Ghost” è probabilmente il punto più alto dell’album: una canzone perfetta nota per nota, dove nulla è lasciato al caso, la storia di un uomo che, più che vivo, si sente come un fantasma, invisibile agli occhi della persona che ama.
Seppur siamo nella seconda parte dell’album, l’atmosfera ancora non è cambiata, l’attenzione forse ora si concentra più sugli strumenti classici che sulle atmosfere sintetizzate, ormai pienamente acquisite dall’ascoltatore che le ha naturalizzate, che ha capito dove si trova e cosa sta facendo.
Segue “Secret”, altro interludio relativamente breve e decisamente ambient, sembra la materializzazione di ciò che rimane nell’animo dopo aver ascoltato “Ghost”, lascia nell’orecchio quel gusto particolare che si ha dopo aver ascoltato una canzone capace di toccare le corde dell’anima.
Ci avviamo alla conclusione con “Ocean”, penultimo brano, che battuta dopo battuta si definisce sempre più chiaramente, partendo da una sfumatura per arrivare ad un ritornello che riassume l’intero lavoro: semplice, prevedibile forse, ma non per questo meno d’effetto, anzi.
Le frasi sono armi a doppio taglio, possono deludere se lasciate a sé stesse oppure stupire se contestualizzate in cornici particolari come in questo pop indiano e inglese allo stesso tempo.
“Philosophize”, ultimo brano, lo si ascolta con l’amaro in bocca, coscienti che l’album è giunto al termine e dopo questo non resta che riascoltarlo fino ad imparare a memoria ogni singolo verso.
I synth e gli strumenti s’incontrano per un’ultima volta, prima di salutarsi, e diventano un’unica cosa, il confine è quasi impercettibile.
Ciò che rimane dell’album non è un semplice ascolto.
Il modo in cui le canzoni si ricollegano semplicemente per delle atmosfere fa sì che si colga tutto d’un fiato pur assaporando ogni singola traccia individualmente.
Per alcuni istanti riaffiorano nella mente idee beatlesiane con sfumature dei Coldplay più elettronici. Eppure siamo davanti ad un duo che sta muovendo i suoi primi passi fuori dall’underground, magari con la pretesa di conquistare il mondo e ridargli colore.
Non siamo di fronte ad un capolavoro, sicuramente, ma perlomeno davanti ad una perla rara, un lavoro a cui andrebbe concesso più spazio.
Speriamo che il futuro riservi tempi radiosi ai due amici, e speriamo che quei bei tempi accompagnino di nuovo le nostre giornate.
Giuseppe Falbo
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