Matto Gabbianelli è il frontman e principale mente dei Kutso, band che ha saputo stupire il pubblico con il suo mix tra energia, ironia e sarcasmo. Lo abbiamo incontrato allo Showcase acustico svoltosi alla Feltrinelli in Via Aurelia di Roma per presentare “Che effetto fa“, il nuovo album di una band che nasce sotto nuove forme dopo ingenti cambi di formazioni e interessanti svolte di genere.
Il titolo del nuovo album “Che effetto fa” che cosa significa? C’è una motivazione particolare, dipende dal trascorso che hai avuto come musicista con i Kutso oppure è semplicemente una presa di posizione momentanea?
Si, “Che effetto fa” rispecchia proprio la svolta che c’è stata, il grande cambiamento di suono e anche di intenzione della nostra musica. Per la prima volta abbiamo fatto questa virata di cui sono molto orgoglioso e che mi rispecchia totalmente. E’ un disco diverso dagli altri, quindi “che effetto fa” ce lo chiediamo anche noi, anche se non abbiamo messo il punto interrogativo ma perché la risposa è nel disco stesso.
Domanda un po’ più personale: che effetto fa dopo tanti anni, seguendo un percorso con delle persone, trovarsi circondato da nuove persone seguendo quel medesimo percorso?
Allora, l’effetto non me lo fa essere circondato dalle persone. L’effetto brutto è stato quando mi sono trovato da solo, quello è stato il baratro. E’ stata una diaspora perché chiaramente quando fai tante cose e poi c’è un momento di stasi è difficile rimanere sempre determinati e dritti sulla via. Quindi mi sono ritrovato da solo e quella è stata una bella botta. Per fortuna subito dopo ho trovato loro con cui vado d’accordissimo e sono dei grandi musicisti, e anzi mi trovo anche meglio. C’è una preparazione diversa, c’è più aiuto.
Un approccio più professionale possiamo dire magari.
Professionale, ma anche un entusiasmo diverso e un’intesa diversa.
Anche nel pezzo che da il titolo all’album, uno dei primi singoli, si sottolinea il cambiamento che fanno le persone dicendo “un tempo eri qualcosa, ora sei diventato altro”. E’ un pochino una citazione nei confronti delle persone o dei musicisti che vivono con l’idea della musica e poi perdono le speranze e la abbandonano, è un concept che viene anche dalla tua esperienza con i Kutso o con le persone?
Allora, queste canzoni le ho scritte quando stavo con la vecchia formazione, quindi lì per lì non erano legate a loro. Poi effettivamente me l’hanno fatto notare, è stata una coincidenza, ma perché questa è la parabola della vita, non è legata alla musica. Tutti noi partiamo con tanti sogni, con la volontà di fare chissà che nella vita, e poi c’è la vita… O sei disposto a sacrificarti totalmente per quello che fai, ma veramente fino alla fine, oppure ad un certo punto ti rompi i c*** e torni nell’anonimato, che poi non è una cosa sbagliata, però succede questo, succede quello, e poi uno si guarda allo specchio e vedi che effetto farà, se ti accetterai, se ti sentirai in colpa.
E tu sei giustamente ancora nella fase della “fame” e quindi ti vuoi ancora sacrificare
Io ormai non posso fare altro, la mia vita l’ho incanalata in questa cosa qua, quindi non fare questo significa non fare niente.
La percepisci come una gabbia oppure ti sta bene questo incanalamento che hai preso?
Sicuramente ci saranno anche degli aspetti di “gabbia”, perché fai solo una cosa, però è una scelta non è che sto facendo il muratore o sto spalando la m***. Però certo, quando poi tutti i tuoi interessi li concentri in una cosa sei anche suscettibile di frustrazione, perché le cose non vanno sempre bene. E’ importante anche diversificare le attività.
Ritorniamo su “Che effetto fa” e sull’altro singolo “Uno più una”. Uno critica il cambiamento e l’altro sottolinea la bellezza della staticità delle cose, “nonostante le litigate, nonostante tutto, siamo sempre qua”. Ci sta per caso di sostrato nella tua idea o nell’album il promuovere il perdurare delle cose, nel senso “chi la dura la vince”, andare avanti senza farsi cambiare dalle persone, oppure anche questa è una casualità?
Guarda, quando ho fatto il disco non è che ho fatto un concept-album nella mia testa, ma probabilmente lo è perché quando parli di te e delle tue sensazioni stai scrivendo un mondo, però non ho visto una situazione d’insieme nelle canzoni, però la tua visione non è sbagliata, nel senso non tanto di “chi la dura la vince” ma quanto ti va di insistere, quanto pensi che in un determinato momento valga la pena continuare una situazione piuttosto che cambiare totalmente rotta.
Parlando dell’aspetto musicale. Siete passati da una situazione più tendente all’alternative rock a una situazione con derive più elettroniche. Come è nata la cosa? Si è trattato di un passaggio naturale magari partito da te oppure concordato assieme ai membri oppure c’è stata qualche direttiva o qualche consiglio a livello discografico?
Noi abbiamo fatto due dischi rock, quindi erano simili nell’arrangiamento. Io volevo trovare altro, sentivo l’esigenza di staccarmi dal passato per vivere mentalmente un’altra cosa, chiudere una porta e aprirne un’altra. Era volontà di sperimentare una cosa che in realtà mi aveva sempre un po’ annoiato. Nel senso, io ho uno studio di registrazione, so che vuol dire produrre, quindi ho sempre rinviato questo momento, e poi a un certo punto mi sono detto che dovevo maturare e affrontare qualcosa che non conosco.
Però non ha levato niente a quello che era lo stile dei Kutso
No perché le canzoni nascono sempre da me: io faccio sempre prima la canzone e poi ci metto il vestito.
Cambia il contorno, però poi andandola ad ascoltare ti da sempre l’idea che: si sono i Kutso!
Io compositivamente ho cambiato delle cose, nel senso che prima il nostro gioco era: testi scuri e tristi, e musica totalmente solare, zompettante, un po’ beat. C’era questo scontro volontario, volevamo diluire la tristezza con la gioia. Invece in questo disco la musica e il testo si avvicinano: la musica è più malinconica, il testo un po’ meno apocalittico.
E’ tutto più equilibrato.
Si c’è anche una differenza contenutistica, non solo di arrangiamento. Poi ci sono anche due ballate, come “Uno più una” che abbiamo scelto come singolo. E’ un po’ schizzofrenico questo disco, perché ci stanno i Kutso ma ci sta anche il sentimento. Io sono un po’ così, però è un aspetto in cui non abbiamo mai spinto sull’acceleratore nei dischi prima, abbiamo voluto sempre far ballare. Ma questa volta ho voluto far vedere anche questo, perché sennò c’è un’idea sbagliata di questo progetto, non è Elio e le storie tese che a me fa c***, cioè non loro, li rispetto tantissimo e non nego che mi sono fatto un sacco di risate con quella musica, ma non è quello che voglio fare io.
Mi hai detto che ci sono state difficoltà e che hai passato un anno di stasi. Pensi che quest’anno sia l’anno buono e il progetto buono per riuscire a fare quel salto che potevate o speravate di fare anche meritatamente dopo Sanremo ma che magari è venuto a mancare sotto tanti aspetti?
Io credo che questo sia un momento di passaggio per iniziare un percorso nuovo. Ma non credo che questo sia il momento, il pubblico sta guardando altro. Serve a me e a noi per girare, ma non credo che sarà questo l’anno della svolta, semmai ci sarà un anno svolta. Una svolta artistica si, di risultato e di audience non lo so, perché vedo il mercato e il pubblico che stanno da un’altra parte.
Dove li vedi?
Da l’Indie, che poi è da dove veniamo anche noi.
Indie, trap…
Si, la trap è già un’altra cosa. Quando dico indie, dico indipendente, proprio perché è la scena nostra. Poi c’è chi è più rock, ma veniamo tutti dalla stessa scena. Però vedo che comunque la scena indie sta andando da un’altra parte e noi stiamo in mezzo.
Diciamo che l’indie mediatico si è un po’ canonizzato, diventando molto meno indie di quanto dovrebbe essere
Beh si, è pop, insomma. Io non giudico assolutamente, perché ci sono alcune cose che mi piacciono proprio, però vedendo anche ciò che crea scalpore, allora guardo me e vedo che sto proprio da un’altra parte.
Artisti di riferimento, magari ispirazioni che hai preso in considerazione durante la stesura dell’album. Al di là dei Kutso che ovviamente rimangono la base.
Sicuramente la musica black anni ’70, quindi il funk, Rick James, Michael Jackson e tutto quel suono anni ’70, infatti le batterie e il basso sono molto di quell’ambiente, le batterie grosse e i bassoni perché volevamo proprio il grouve nero degli anni ’70. Poi le melodie sono sempre molto debitrici dei Beatles e agli anni ’60 in genere. Poi dentro ci sono ascolti miei, c’è Charlotte Hatherley che è la chitarrista degli Ash che sono un gruppo degli anni 2000, una che sta fuori totalmente e che ha melodie tutte beat, solari. C’è Lucio Battisti, Lucio Dalla, c’è Caparezza su qualcosa. Me la dovevo preparare sta risposta (ride). Per esempio sulle ballate “Uno più una” mi sono ispirato a come le sviluppa Jovanotti e alle ballate che ha fatto negli ultimi anni. C’è il pathos della musica italiana degli anni ’70. Per quanto riguarda l’elettronica non c’è stato un punto di riferimento chiaro ma mi sono affidato ai musicisti che ho chiamato per fare l’elettronica. Uno dei gruppi che influenza questo progetto sono gli Ecstasy che sono un gruppo inglese degli anni ’70 e ’80 a cui si sono rifatti Franz Ferdinand, insomma una musica strana.
Ultima domanda. Un giudizio generale sulla scena musicale italiana, principalmente quella underground quindi Indie, rock, metal, magari quelle cose che tu hai visto e vissuto. Cosa ne pensi, com’è viverla, se reputi se sia messa male o messa bene, se la vedi florida…
Secondo me in generale in tutti i periodi storici la musica è messa bene e male sempre. Però adesso sinceramente si respira un entusiasmo che ti fa pensare che ci sia più riscontro e più attenzione per la musica. Vedi che la gente va ai concerti di Coez senza averlo visto mai in televisione e senza averlo mai sentito per radio. Coez non esiste nei canali principali, forse adesso per forza, ma Coez è veramente uno nato dal niente, se non da se stesso. E questo è bellissimo.
Anche perché oggi sono i social il canale grande di diffusione e che gestiscono l’audience musicale.
Si, però non dici a facebook “devo scegliere quello che devo far vedere”, non mi risulta che un artista italiano si riesca a mettere d’accordo con il capo di Facebook, non lo so, forse sono cose che non sappiamo. Young Signorino è uscito fuori perché i ragazzi hanno fatto promozione, e quindi la gente ha preso e a scelto. Prima c’era il passaparola e poi dovevi passare prima in radio e in televisione, adesso non è più così.
Lorenzo Natali
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