Bentornati a Sottotraccia, la rubrica che scava nel sottobosco musicale italiano al fine di trovarvi perle rare.
Oggi ci occupiamo dei Rama, band torinese che mescola influenze psichedeliche, desert rock, con la malinconia intrinseca degli Agalloch e del folk metal apocalittico dei Moonsorrow.
Personalmente, una commistione che ho sempre amato. Rama, come la divinità indù, o come l’astronave/asteroide del classico di fantascienza di Arthur Clarke: un nome semplice ma evocativo, di grandi distanze e di misteri insondabili. Eppure la poetica che sottende i Rama sembra più essere la malinconica e descrittiva desolazione di The Waste Land di Thomas Eliot.
Attivi sin dal 2011, nel 2015 rilasciarono il loro primo EP omonimo, ascoltabile tramite il bandcamp della band, ma la gestazione per il secondo capitolo è stata lunga, giungendo fino al 2019: il 10 maggio uscirà, per Escape From Today/ Brigante Records Everything is One, un mini LP (passatemi il termine) della durata di 30 minuti. Tutti registrati a 432 Hz, frequenza che si dice avere influenze sul sistema nervoso centrale, aumentando la produzione di endorfine.
Di cui solo i primi quindici sono occupati dalla prima traccia, l’infinita Between the Ashes of Silence. Una suite che, prendendo spunti da compositori come Silenius e i Pontiak, inizia con un leggero arpeggio di chitarra, lasciandoci immaginare le braci tiepide di un fuoco da campo, evolvendo poi in un lungo intermezzo post-metal – e capiamo che quelle braci sono di un esploratore o un esule arrampicatosi sulle Alpi. La linea vocale, seppur suonando come un mantra, risulta estremamente dinamica e perfettamente armonizzata con la complessità del tappeto sonoro proposto da chitarra solista, ritmica, basso, ed una puntualissima batteria. La seconda parte del brano è pura neopsichedelia con un pizzico di prog, ricca di intermezzi puramente descrittivi di valli scavate da torrenti – macigni erratici e muschio gelato. La frase musicale portante del brano – una manciata di note che però colpiscono nel segno – è poi declinata in molteplici modalità, stirata, innalzata, ripetuta, anche a supporto dello storytelling dell’album, rendendo dunque Between the Ashes of Silence un lavoro estremamente omogeneo e coerente.
Tight into a steely hold
Old flesh holds on to itself In the last desperate attempt to survive
Fallen onto my knees, wornout, with thin breath
An ancient sound spread inside me
The oracle look at me from the mountain top
I burn in unquenchable flames in everlasting fire
My hands are bleeding, torn by sharp rock
my life gives in at every step a sweet bright mother is waiting for me
She calls my name reassuringly
Just like she did with the others
Si prosegue poi con Through the Doors of Knowledge, in cui un mixing di pregevole livello si fa sentire, assieme ad un’ottima lavorazione del suono delle percussioni. La linea vocale pare essere debitrice dei Tool di Aenema, stiracchiata in un lungo lied; un crescendo che, man a mano, perde d’oscurità ed abbraccia una luce fatta di emozioni sospese, enormi aperture di nubi che lasciano passare il sole. Il cielo grigio dell’intro di Everything is One svanisce dentro un pregevole assolo di chitarra acida, ed un inno alla vita in scream. Di nuovo, l’inizio si ripete alla fine, in una ciclicità che sembra essere molto apprezzata dai Rama. Un brano che potrebbe essere un singolo.
Continuiamo ad addentrarci in questo mondo selvaggio, fatto di rocce aguzze, rari sprazzi di sole, e neve gelida, con Before the First Sunrise. Brano che introduce per la prima volta il post rock all’interno del disco, con una lunghissima progressione matematica e descrittiva allo stesso tempo – volando come aquile fra valli sconfinate ancora immerse nel buio, mentre solo un pallido sole fra capolino fra le montagne – che si apre poi nella linea vocale che è forse la più catchy finora, più ricca di dubbing e di controcori. Can you help me? si ripete alla fine, in un disperato grido di aiuto.
After the unknown consciousness, penultimo brano di Everything is one, e altro viaggio di dodici minuti. Perché di viaggio si tratta, recuperando le atmosfere degli Opeth. Un solitario arpeggio su un tappeto di percussioni si fa strada, vagabondando da solo su un prato d’erba secca d’altura. Cui poi si aggiunge una prepotente chitarra elettrica, seguendo lo schema già proposto – linea vocale drammatica ed in accordo con l’atmosfera gelida che si respira sugli altipiani, un oblio volontario. Eppure, qui, lo sprazzo di sole è determinato da un netto cambio di accordo, anticipato dalla linea vocale poi proseguito dall’arpeggio di chitarra. Capiamo poi, alla fine, che ilbrano è una sorta di Impressioni di Settembre in salsa desert rock – anzi, mountain rock. Il solitario vagabondare, viaggiare prima dentro se stessi e poi nell’ambiente che ci circonda, specchio di una realtà interiore, introdotta dal puntuale storytelling ora narrato da una dolcissima voce femminile. L’ending, emozionante e malinconico, ci guida verso l’Outro strumentale.
Delicatezza e struggimento si fondono in ciò che assomiglia più ad un requiem che alla conclusione di un album metal – ma non per questo meno bello. Gli aghi degli abeti si scuotono di dosso la neve, che gocciola in piccole lacrime fino a valle. Per tornare alla pianura, a quel fiume che le porterà nel mare. E da cui infine evaporeranno, durante una caldissima giornata equatoriale. Ed il ciclo sarà completo.
Dunque, Everything is One è un EP – mini LP, data la durata, pari a quella di molti album prog attuali (non dimentichiamo gli Haken) – che sicuramente si fa notare, e che, a parer mio, raccoglierà molti più consensi esteri che non nel nostro paese. Un album da ascoltare alla fine del mondo e al suo inizio.
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