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Eat The Elephant: Il nuovo pachidermico lavoro degli A Perfect Circle [recensione]

by InsideMusic
a perfect circle eat the elephant recensione

Dal 2004 gli A Perfect Circle mancavano di rinnovare la loro discografia con una nuova opera.

Con il senno di poi ora che il nuovo lavoro, intitolato “Eat The Elephant”, ha fatto il suo debutto, possiamo tranquillamente affermare quanto questa spasmodica attesa sia direttamente proporzionale alla grandezza dell’opera cui ci ritroviamo di fronte.

Con Eat The Elephant possiamo assaporare degli A Perfect Circle dal sapore diametralmente diverso da quanto ci avevano abituato in passato. L’album, in se già grandemente discusso, ha già ampiamente spaccato la fanbase e il mondo della critica musicale. Da un lato vi sono gli irriducibili conservatori, coloro che percepiscono il cambio di sonorità di Maynard and co. quasi come un tradimento. Dall’altro vi sono i definibili “paladini del progresso” (citando Grahm Smith), ovvero coloro che vedono in “Mangia l’Elefante” un lavoro pachidermico, colossale, rasentante il geniale.

Mi spiace dover deludere la prima delle due fazioni, ma in questo caso i secondi risiedono schiettamente dalla parte della ragione. Senza contare quanto, effettivamente, la delusione dei molti affezionati alle vecchie sonorità, sia alquanto ingiustificata. Chi si aspettava un secondo Theertenth Step rimarrà ovviamente deluso e, fatemelo dire, va bene così.

Parliamo di cronologie e date. L’ultimo lavoro degli APC, “eMOTIVe”, risale di fatto a ben quattordici anni fa. Quante possibilità vi sono che, dopo quattordici anni, una band ritorni sulle scene uguale e identica a ciò che era precedentemente? Non dimenticate, mai e poi mai, che la musica è fatta da uomini, uomini che vivono in mondi e situazioni. Il tempo, facendo volgere i mondi, porta al cambiamento anche gli uomini. Ciò da vita alla più naturale delle conseguenze. L’uomo cambia e, assieme ad esso, viene stravolto (o quasi) anche il suo operato.

Proprio questi uomini ormai cambiati si trovano ad affrontare nuovi problemi. Ingombranti elefanti richiusi in stanze troppo piccole (pensate a Trump e al suo party), la scomparsa dei grandi personaggi di spicco di una società, un tempo ben più felice, ormai piombata nel passato. Ossessioni estetiche gonfiate di silicone e ansie superficiali, uomini di potere arroganti e subdoli ma, soprattutto, l’essere umano, solo più che mai in questa “baumaniana” società liquida, troppo vicina all’incubo della distopia.

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Mangiare l’elefante nella stanza.

Filosoficamente parlando, con Eat The Elephant, gli APC ci pongono, nel modo più schietto possibile, di fronte a tutti i problemi della società moderna, problemi per cui nessuno sta cercando una soluzione. “Elephant in the Room” è un’espressione tipica della lingua inglese per indicare una verità che, per quanto ovvia e appariscente, viene ignorata o minimizzata. L’espressione si riferisce cioè ad un problema molto noto ma di cui nessuno vuole discutere. L’idea alla base è che un elefante dentro una stanza sarebbe impossibile da ignorare; quindi, le persone all’interno della stanza fanno finta che questo non sia presente, evitando così di affrontare un problema più che palese.

Con Eat The Elephant ci ritroviamo di fronte a un album drammatico, cupo, riflessivo, con qualche picco improvviso di energie positive o, talvolta, amara ironia. Numerosi sono i generi toccati nei 57 minuti di lavoro. Dal classico alternative ricolmo di bordate metal alla musica elettronica industriale passando per leggiadre ballate dal gusto elegantemente pop.

Proprio quest’ultimo elemento vede la sua conferma anche in pezzi come la opening e title track “Eat The Elephant“. Perfetta traccia introduttiva, ha lo scopo di introdurci al concetto dell’elefante, ricordarci che qualcosa non va e che, nel resto dell’album, andremo a snocciolare l’anatomia di questo pachiderma ormai impossibile da ignorare per poi fiondarci su una soluzione. Con questo pezzo l’intera band indossa letteralmente le sonorità dei Radiohead, regalandoci poi un prodotto filtrato dal loro punto di vista, dando vita a un pezzo elegante, intenso e pacato.

Sempre tendente verso la ballata pop/alternative è anche “Feathers”, con il suo ritmo lento e quell’incedere graduale e malinconico che trova poi il suo zenit con una stupenda e calibrata esplosione chitarristica finale.

So Long And Thanks for All the Fishes, con il suo arpeggio maggiore dal ritmo andante e spensierato e le sonorità da epica ballata popolare ci riporta alla memoria i grandi problemi moderni, le ossessioni di grandi piccoli uomini, l’incubo atomico e la scomparsa dei simboli di tempi ormai andati.

In “Disillusioned, pacata ballata dal taglio alternative, tra leggiadre note di pianoforte e intense melodie di chitarra, in un testo alquanto criptico si fanno spazio la solitudine dell’uomo, la perdita di se stesso, dei suoi obiettivi, la disillusione che coinvolge i più in un mondo in cui tutti sono ormai distaccati da tutti. Disillusioned, uno dei singoli di lancio, è un pezzo semplice quanto ben riuscito, costellato di stupende melodie e di un’orecchiabilità più unica che rara, senza però mai scadere nel banale.

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Con “The Doomed, invece, riscopriamo il Maynard figlio dei Tool con annesse le loro sonorità cupe e opprimenti. In modo nichilistico e caricaturiale quel folle di Maynard riprende il “Discorso della montagna” di Cristo, lodando non i deboli e gli oppressi ma i ricchi, i forti e gli oppressori, riflettendo così la società capitalistica del 2017. Il cantato, nella prima strofa, sorretto da una rapida e incisiva batteria, riesce a creare un’atmosfera frenetica e rabbiosa. Il chorus è altrettanto rabbioso, tendente quasi all’epico e, le dinamiche ormai altissime del pezzo, finiscono poi per consumarsi in un leggerissimo ponte, dove voce e tastiere costruiscono delicate e malinconiche armonie. La quiete è però breve e facilmente si ritornerà poi nelle atmosfere cupe e oppressive di inizio canzone.

Talk Talk, uno dei pezzi più intensi dell’album, nasconde dentro se una grande forza emotiva. L’inizio del pezzo, sempre assolutamente cupo e malinconico, va poi a risolversi in un ritornello dal taglio potente e rabbioso nel modo più naturale possibile. La rabbia contenuta in questo pezzo è tutta indirizzata verso quei personaggi di spicco e potere che nel loro ozio giornaliero, nel loro menefreghismo, mancano di agire per il bene comune mentre le vittime delle loro azioni si accumulano: “While you deliberate/Bodies accumulate”. L’appello è chiaro: “Don’t be the problem/be the solution”, non essere il problema, sii la soluzione, smetti di parlare come fossi un santone o altrimenti levati pure dai piedi.

Pezzi dal sound estremamente interessante e atipico sono invece “Horuglass” e “Get the Lead Out”. In questo duo è fortissima l’impronta della musica elettronica. Hourglass, con le sue aggressive sonorità industrial, fa notare come oramai, in un mondo così superficiale, si è divenuti totalmente cechi di fronte ai più visibili problemi, indifferenti a eventuali soluzioni, incapaci di sentire anche il ticchettio di una bomba. Il pezzo, andante e rabbioso, aggredisce l’ascoltatore nel profondo, indirizzando rabbia e rancore nei confronti della sua inettitudine fungendo, però, anche da sprone ad aprire gli occhi e fare qualcosa. Energio, incalzante, rabbioso, fresco con le sue sonorità elettroniche che tendono al moderno e distopico, Hourglass è uno dei migliori pezzi dell’intero lavoro.

Get the lead Out è, invece, il “kick in the ass” finale. Durante tutto l’album ci sono stati mostrati dei chiari problemi, perfetto. Ora alzati e vai a risolverli, e anche alla svelta. Il tempo non è mai abbastanza e potrebbe essere sempre troppo tardi. Questo è il messaggio che, nella traccia di chiusura, Maynard e compagnia vogliono trasmetterci con questo pezzo dal taglio elettronico, ambient, quasi psichedelico nelle sue atmosfere minimali e ipnotiche.

In conclusione, Eat The Elephnat è un album dal peso specifico notevole. Originale, visionario, fresco e variegato. Gli spunti stilistici raccolti dalla band sono numerosissimi e, nonostante ciò, il lavoro nel suo complesso appare unitario, coeso e ben strutturato. Nonostante il cambio stilistico l’identità di Maynard e compagni permea ogni singolo pezzo. Cambiare senza perdere se stessi è dura, specialmente dopo quattordici anni di inattività. Gli A Perfect Circle ci sono riusciti, senza fallire, senza deludere e, soprattutto, lanciando un poderoso messaggio di risveglio a tutto il mondo. La pietra è stata lanciata, il monito si staglia alto nei cieli. Sta a noi, adesso, unirci per tentare di dare forma a un nuovo arcobaleno e guarire questo mondo sempre più malato.

Voto – 8.5

We got places to be
We got mountains to climb
Shape the rainbow with me

 

Lorenzo Natali

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