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Dream Theater: le 10 canzoni più significative

by InsideMusic
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La storia della musica degli ultimi cento anni ha conosciuto numerosi cambiamenti e rivoluzioni e tra i vari responsabili bisogna considerare i Dream Theater. Sono cambiati gli apparecchi di ascolto, le dimensioni dei vinili, la nascita del CD, l’evoluzione degli strumenti elettrici. E questi mutamenti hanno rinnovato i generi musicali. Laurens Hammond ci ha regalato il primo organo elettrico, rivoluzionando jazz, blues e rock ‘n’ roll. Robert Moog ha realizzato i primi sintetizzatori: la musica degli anni Settanta e Ottanta non sarebbe stata la stessa senza di lui. I Dream Theater hanno dato vita a un nuovo modo di concepire e comporre la musica, attraverso un percorso di abbozzo e sviluppo negli anni Novanta e di espansione nel nuovo millennio. Il Progressive Metal, di cui il quintetto statunitense è considerato il genitore, è andato oltre all’Heavy Metal classico. Nuovi suoni, nuove idee, tutto è diventato imprescindibile (o quasi) per la musica di questi anni.
Ma attraverso quali tappe si è sviluppata la discografia dei Dream Theater? L’album fondamentale, più che l’esordio When Dream And Day Unite, è il secondo: Images And Words. Nel lontano 1992 l’arpeggio di Pull Me Under apriva uno dei dischi più influenti del Metal in generale. Con testo scritto dal tastierista Kevin Moore e liberamente ispirato all’Amleto di Shakespeare, questo brano è probabilmente uno dei più famosi dei Dream Theater: diretto, con assoli pregevoli, un ritornello che arriva subito all’obiettivo, non una nota fuori posto. Pull me under, pull me under, pull me under, I’m not afraid.
Ma sempre nello stesso album vanno ricordate Metropolis Pt.1 e Learning to Live. La prima è dotata di un’intro che da sola vale mezzo capolavoro e a completare tutto il resto c’è la famosissima sezione strumentale nel mezzo. La seconda è una canzone più intima, nascosta e meno nota delle altre due. Il testo tratta di una ragazza che scopre di essere affetta da AIDS e della consapevolezza del senso della vita. Introdotta da uno splendido riff di sintetizzatore, accompagnato poi da tutti gli strumenti, il brano si apre su strofe timide e via via più aggressive, guidate da un’ottima intesa di basso e batteria. Il finale poi è epicità allo stato puro: impossibile non cantare il coro conclusivo.
Nel 1994 la band sforna un disco di tutt’altra sostanza: Awake, molto più aggressivo nei suoni e più diretto nella struttura dei brani. Nella difficoltà di selezionare le canzoni degne di nota, spicca la finale Space-Dye Vest, interamente composta da Kevin Moore. Con testi e musiche di una profonda tristezza, il brano si incentra sulla depressione (autobiografica) di essere lasciati amaramente dopo una lunga relazione amorosa: nella solitudine, la foto di una modella su una rivista provoca un improvviso quanto illusorio innamoramento. Un arrangiamento scarno, basato soprattutto sulle tastiere e sulle citazioni di numerosi film, il brano rappresenta l’apice della abilità compositiva di Moore e apre a quello che sarà il suo percorso solista.
Tre anni dopo i Dream Theater sfornano il discusso Falling into infinity. Nonostante tutti i problemi che circondano il travaglio di quest’opera, non mancano canzoni di grande spessore e impatto, tra tutte sicuramente la suite finale Trial of Tears. Vicina alle sonorità dei Rush di Xanadu, si tratta di un brano spesso molto atmosferico, caratterizzato da liriche molto coinvolgenti e una sezione di assoli da brividi.
Saltiamo il successivo Metropolis Part 2 (rischiando seriamente un linciaggio mediatico da parte dei fan) e gettiamoci nel primo album del quintetto nel nuovo Millennio. Six Degrees of Inner Turbulence. E bariamo un po’ anche, perché il brano migliore dell’album è l’immensa suite che copre la durata del secondo disco. Quarantadue minuti di grande musica, con splendide esecuzioni di ogni elemento, ottima composizione e struttura della suite in ogni suo aspetto e piacevoli quanto repentini cambi di atmosfera.Tra l’altro questa suite è l’esatto opposto di quanto viene ascoltato nel primo disco, che apre invece alle sonorità dei Dream Theater più moderni, caratterizzando gli album Train of Thought e Octavarium.
Con un altro notevole salto temporale, arriviamo al 2007 e a Systematic Chaos. Ampiamente degna di essere inserita in questa speciale classifica, la suite In the Presence of Enemies è un autentico capolavoro. Spezzata (un po’ a la Pink Floyd)  in due parti all’inizio e alla fine del disco, viene raccontata una straordinaria lotta tra Bene e Male, i cui testi traggono notevole ispirazione dalla religione mentre le musiche compiono salti secolari tra richiami alla musica classica ottocentesca e primo-novecentesca e sonorità elettroniche più moderne.
Dopo l’abbandono di Portnoy, i Dream Theater sfornano nel 2011 A Dramatic Turn of Events. Nonostante l’album presenti diversi punti deboli e un calo d’ispirazione, vi sono racchiusi due capolavori. Bridges in The Sky e Breaking All Illusions sono due tra i migliori brani dell’intera discografia della band e punto di snodo fondamentale verso quanto verrà prodotto nei due album a seguire. La prima presenta una struttura abbastanza lineare, con strofe, bridge e ritornelli chiaramente distinguibili, con una sezione strumentale da lacrime agli occhi. La seconda è più complessa, ma capace ugualmente di raggiungere il cuore dell’ascoltatore, soprattutto grazie al superlativo assolo di John Petrucci alla chitarra.
A seguire, nel 2013 uscì l’omonimo Dream Theater. Benché ancora debole sotto diversi punti di vista, l’album offre alcune splendide canzoni, tra le quali spicca The Bigger Picture. Questa canzone in particolare è l’immagine della composizione più recente della band, punto di partenza di quello che sarà poi il successivo The Astonishing e, chissà, magari anche del nuovo imminente capitolo della discografia della band.
– Pull Me Under
– Metropolis Pt.1
– Learning To Live
– Space-Dye Vest
– Trial of Tears
– Six Degrees of Inner Turbulence
– In The Presence of Enemies
– Bridges in The Sky
– Breaking All Illusions
– The Bigger Picture

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