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The Pineapple Thief: in anteprima la recensione del nuovo incredibile album, “Dissolution”

by InsideMusic
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Vi sono quelle giornate dal sapore particolare, quei pomeriggi di fine agosto uggiosi e umidi, piuttosto cupi e malinconici. Giornate riflessive, in grado di suggerire in maniera accentuata la chiusura in una dimensione intima in cui riflettere sulle nostre vite, sul mondo che ci circonda.

Con Dissolution, i The Pineapple Thief, riescono a riprendere proprio quelle tinte fosche e allo stesso tempo profondamente intime che fanno parte di alcuni momenti della quotidianità umana. In uscita il 31 Agosto 2018 sotto l’egida della casa discografica Kscope, la nuova fatica di Bruce Soord e compagni sembra voler incarnare, fino in fondo, proprio quel momento preciso stagionale di fine estate in cui Agosto, lasciando spazio alla venuta dell’autunno, si incupisce, si incenerisce, si spegne donando a tutti noi uno strano senso di nuovo inizio, di ripartenza e malinconica novità.

La riflessione sull’essere umano e la sua vita, ovviamente, si trova alla base di questo concept album dalle tinte delicate quanto allo stesso tempo dure e incisive. Tra accordi di chitarra acustica e frenetici riff distorti, tastiere atmosferiche e mirabolanti sezioni batteristiche la band inglese ci parla dell’uomo e della sua nuova grande dipendenza, lo smartphone e la comunicazione.

Alla base delle nove canzoni che si dispiegheranno nei quarantaquattro minuti di esecuzione troveremo riflessioni sulla “dissoluzione” della relazione sociale, mascherata e falsificata da nuovi sistemi di comunicazione artificiosi e alienanti che danno vita, allo stesso tempo, a nuove forme di malattia sociale.

Afferro un buon bicchiere di Chivas, il sapore forte, incisivo e allo stesso tempo dolciastro del Whisky aiuta in maniera tremenda a creare il contesto giusto per la fruizione di un album dalle sonorità così agrodolci. Fuori piove, il cielo plumbeo e appesantito sembra voler costruire la cornice perfetta per i prossimi quarantaquattro minuti di ascolto.

Un sorso e si parte con la prima traccia. Not Naming Any Names, nei suoi due minuti di lunghezza, si srotola nelle vesti di intro prettamente pianistico, leggero e malinconico. Un ottimo pilotino per le nostre orecchie che verranno poi proiettate in una Try As I Might (più lunga nella sua album version) dove aciduli accordi di chitarra ci conducono alla fatidica domanda “What is wrong with me?”. Cosa può essere mai sbagliato, in fondo, in una società fatta di cineprese e videocamere? La versione album, un minuto circa più lunga della edit rilasciata come singolo, gode di una maggiore compattezza e incisività, il minuto aggiunto dona dinamica e profondità. Come rendere ottimo un buon pezzo, insomma.

I contorni del mio spazio visivo, racchiudente un balcone, il suo panorama e la mia mano piena di “coraggio liquido” iniziano a incupirsi sempre di più. Con Threatening War entriamo in un mondo musicalmente variegato. Un breve passo indietro alle tranquille e atmosferiche sonorità di Your Wilderness ma dotate di qualcosa in più. L’incrocio tra sezioni dal taglio evocativo e ambientale con ruggenti aperture di chitarra distorta si fa sentire donando al pezzo una chiara sensazione di dinamica disperazione.

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Con Uncovering your Tracks sembriamo ritornare ai Porcupine Tree di Stupide Dream. Ci ritroviamo di fronte a un pezzo dal sound claustrofobico, lento, costante, elegante e raffinato. Unico nella sua natura schiettamente british. Appoggio il bicchiere alla bocca, sorseggio, mi rendo conto di quanto, con il passare dei minuti, ogni sorso stia divenendo sempre più amaro, come in fondo anche il dispiegamento musicale.

All That You’ve Got è una brevissima perla sospesa tra strofe sincopate dallo schietto gusto metallico che vanno poi ad esaurirsi in ritornelli slanciati e ariosi come un fiume che, trovata la foce del suo delta, si riversa con tutta la potenza nella baia marittima.

Far Below, primo singolo rilasciato dalla band, è una delle migliori track dell’album. Dinamica, estremamente progressiva, fatta di energici quanto minimali riff distorti, delicate strofe tendenti all’acustico e, ciliegina sulla torta, un lento crescendo centrale che porta a un esplosione dal potenziale energetico pazzesco, partendo da atmosfere cupe e sommesse.

Il brevissimo intermezzo acustico Pillar of Salt ci porta poi a White Mist. Mentre la pioggia, fuori, si è ormai diradata, una leggera nebbiolina sale in sincronia con il sole che va a prendere a sua volta congedo dietro a promontori lontani dall’occhio umano. Questa lieve nebbia bianca pervade tutto, portando con se un’atmosfera malinconica e spettrale.

Così, allo stesso modo, l’incrocio tra delicati tocchi di chitarra, note di tastiera e le ritmiche decise di un Gavin Harrison in forma smagliante ci conducono attraverso undici minuti di grande musica. White Mist è un pezzo titanico, cresce lentamente e in modo costante, salvo poi decrescere e cercare in seguito nuove esplosioni, un mare increspato che tende verso la tempesta, una lieve foschia che invade tutto annebbiando la vista umana (una nebbia simile alla gabbia telematica e sociale in cui l’essere umano, divenuto non vedente, lavora alla “dissoluzione” della relazione sociale). L’esperienza musicale migliore rintracciabile in un album che già di per se tocca livelli molto alti.

Siamo ormai alla fine, posso vedere il fondo del bicchiere la cui trasparenza viene disturbata da qualche rara goccia marroncina. Il tramonto e le sue calde e malinconiche atmosfere lasciano spazio alla notte. Il Chivas (o come già detto, coraggio liquido) nel mio corpo si trasforma in riflessione, ragionamento, porta la mia mente a viaggiare verso panorami lontani, interrogarmi su quanto, realmente, tutto ciò che crediamo quotidiano rappresenti in realtà l’origine della follia.

Anche Dissolution giunge al suo termine con Shed a Light, perfetta traccia di chiusura dove un intro delicatissimo fatto da chitarra acustica e voce si risolve poi, improvvisamente, in un incupimento delle sonorità con nembi chitarristici che si ammassano all’orizzonte dando vita a una trascinante tempesta sonora.

Con Dissolution Bruce Soord e i “The Pineapple Thief” toccano livelli precedentemente mai toccati. I pezzi rappresentano un’esperienza dinamica quanto, allo stesso tempo, coerente all’interno di un album dai toni decisamente più cupi del solito, infarcito di momenti tendenti a un progressive duro e quasi isterico (si sente, incredibilmente, il grande contributo di Gavin Harrison non solo nelle mirabolanti sezioni ritmiche quanto anche nell’arrangiamento dei pezzi).

Per concludere, questo nuovo lavoro ricorda decisamente un bicchiere di Whisky. Duro, incisivo e allo stesso tempo in grado di accarezzare e toccare corde dell’animo in genere nascoste ai più. Un’esperienza unica e da compiere a mente sgombra. Finalmente i ladri di ananas sono riusciti a fare il grande colpo, portandosi a casa uno dei migliori lavori dell’ultimo anno solare musicale.

Lorenzo Natali

Artwork e Tracklist di Dissolution dei The Pinapple Thief 

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Not Naming Any Names 2:06
Try As I Might 4:27
Threatening War 6:38
Uncovering Your Tracks 4:29
All That You’ve Got 3:27
Far Below 4:36
Pillar of Salt 1:26
White Mist 11:06
Shed A Light 5:20

 

 

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