Home Live Report Caparezza al FDB Festival: come l’eclettico rapper ha infiammato Fabrica di Roma

Caparezza al FDB Festival: come l’eclettico rapper ha infiammato Fabrica di Roma

by Agnese Ruggeri
caparezza, mica van gogh

Sono le nove e quaranta e Caparezza, puntuale, calca il palco del FDB Festival di Fabrica di Roma. L’attesa del pubblico nei momenti precedenti era, ovviamente, palpabile. La fascia d’età degli uditori presenti rappresentava quanto di più “universalizzante” possibile, andando dai giovanissimi fino a persone ben vicine alla terza età.

In fondo si sa, Caparezza è ormai un fenomeno nazionale dalla portata impressionante, ufficialmente Mainstream (e le vendite e visualizzazioni accatastate dal suo Prisoner 709 ne sono la conferma) da un punto di vista di marketing ma sempre e assolutamente unico nel suo genere. Per un musicista notare un fenomeno così particolare, originale e valido farsi spazio nel mondo del mainstream italiano è sempre una gioia immensa.

Gioia molto simile a quella che ha smosso il pubblico dell’FDB Festival quando la capa più riccioluta dello stivale ha fatto il suo ingresso sul palco a seguito di un’impressionante scenografia dove strumentisti e coristi, vestiti da manichini per i crash test, si sono appropriati delle rispettive postazioni dopo una lunga e incessante “camminata robotica”.

Il Capa parte subito a razzo con “L’infinito” sbattendoci da subito in faccia la durezza delle sue (giustissime) riflessioni sociopolitiche. Su Prisoner 709 l’intera platea prende fuoco, spinta dalle bordate di chitarra e basso alla Rage Against The Machine del pezzo. L’energia in grado di scaturire da quell’uomo alto alto sul palco è impressionante. Energia, rabbia, carisma e tutto a livelli impressionanti.

A quanto pare il nostro Michele sembra averci preso gusto con le canzoni “rage” e ci ritroviamo, poi, a pogare su una Argenti Vive “arrabbiata” come non mai, cantata cavalcando un “piccolo” Cerbero assieme a ballerini vestiti da bruti Fiorentini che concludono sottomettendo un povero e indifeso Dante Alighieri che, giustamente, con le sue terzine non può nulla contro la forza del nerboruto.

Lasciamoci alle spalle Filippo Argenti e passiamo invece ai medici, non quelli di Firenze, ma ben si quelli che Caparezza ha consultato negli ultimi anni a causa della sua malattia, “Larsen”, la cui canzone omonima viene eseguita alla perfezione, in cui la sola “pecca” è rappresentata dall’assolo di tromba finale eseguito, egregiamente tra l’altro, dalle tastiere.caparezza fdb festival

Tralasciamo la salute e passiamo a un diverso morbo della storia dell’uomo, la religione. Dopo un discorso ricco di diverse stoccatine nei confronti dei bigottisimi e della semplice ignoranza (apprezzatissima la citazione sull’attuale ministero della sanità) ci vengono sparate in faccia una dietro l’altra, come coppia perfetta, Sogno Eretico e Confusianesimo tra santi, diavoli, martiri chiusi nelle gabbie e lavatrici alate (non sono sotto l’effetto di acidi, è esattamente come avete letto).

E proprio dopo le follie religiose precedentemente descritte il Capa, quasi come a rifiutare l’appartenenza a un’umanità così difettosa, ci regala Vengo dalla Luna donando a noi “strani” la meravigliosa sensazione di comprensione e appartenenza a un qualcosa che è, semplicemente, la diversità nel non appartenere alla norma, il tutto ovviamente con la solita esplosiva energia che ormai ci viene sbattuta in faccia da una mezz’oretta a questa parte.

Siamo giunti al momento “feels”, quello in cui poter alzare gli accendini verso il cielo e godersi momenti di puro sentimentalismo. La doppietta Chinatown/Una chiave è strepitosa e ci regala uno splendido viaggio nell’interiorità dell’artista dove, chiunque di noi, può specchiarsi. In fondo la verità è che per tutti noi vi è sempre una chiave, dobbiamo solo avere la forza di trovarla.

In tutto ciò dalla vecchiaia dei miei ventitrè anni di età, mentre cercavo “la chiave” per la resistenza fisica cominciando i miei piedi ad imprecare in pugliese (lo so, potrebbero chiamarmi Benjamin Button) Michele si prende un momento di pausa durato i quattro minuti di Prosopagno Sia!, pezzo che, vista la timbrica stupenda dei cori femminili, mi ha riportato per un momento al ricordo dei meravigliosi roller coaster vocali di una The Great Gig in the Sky.

E proprio i Pink Floyd sono tra i protagonisti di quell’epoca da molti decantata e da Caparezza, con amara ironia, ricordata tramite La rivoluzione del Sessintutto dove ballerini vestiti da arcobaleni in pieno stile LGBT sfilano sul palco portando il loro 68 sessintutto su chiari cartelloni, almeno fino a quando “il celerino” non arriva a riportare ordine come nelle migliori manifestazioni civili.

Il Live fila dritto in un turbinio di emozioni, energico, stupendo e trascinante ma, soprattutto, ogni pezzo sembra collegato in maniera a dir poco stretta al precedente, come a segire un vero e proprio concept. L’esibizione portataci da Michele Salvemini non è soltanto una passerella di canzoni vecchie e nuove ma, in primis, un lungo dialogo di due ore in cui, passo dopo passo, l’eclettico rapper ci espone il suo pensiero in modo chiaro e travolgente.

caparezza fdb festival

Con Malinconia e Vieni a ballare in Puglia ritorniamo sul suolo Italiano, il suo degrado, la sua arretratezza, le sue inimitabili maschere folkloristiche ma, soprattutto, l’incredibile “malinconia” che pervade tutti coloro che, esasperati dal viverci, tentano la via di fuga così da evitare di morire schiacciati dal carico di una grù o di pagare l’ennesimo biglietto domenicale per andare a vedere il museo dei treni cittadino. Un biglietto che forse, in molti, al giorno d’oggi non possono permettersi. Giungiamo così proprio a Non me lo posso permettere, pezzo a cui sono particolarmente affezionato considerando che il titolo, volente o nolente, viene da me ripetuto sostanzialmente ogni giorno in differenti situazioni.

L’inconfondibile riff di tastiere e le bordate di chitarra dell’intro mi riportano, tramite Abiura di Me, al lontano 2008. Ricordi di infanzia quando, ancora piccolino, osservavo questo capellone dalla voce buffa farmi l’elenco di tutti i videogiochi della nostra gioventù cavalcando una moto in stile Tron Legacy. Non solo ricordi di infanzia ma, soprattutto, tantissima voglia di pogare di fronte a un pezzo così imponente. L’intero pubblico si muove, salta, si spinge, l’energia potenziale della tensione musicale si trasforma in energia cinetica nello sfogarsi con lo scontro tra i corpi. L’atmosfera è elettrica, travolgente. Insomma, tutti vogliamo passare al livello successivo e forse la rabbia e l’energia del Capa sono il mezzo migliore.

Con Voglio Stare Bene si smorzano gli animi, addolciti dal coro di Mariele Ventre e dalle parole malinconicamente disperate di uno dei pezzi più belli mai composti dal rapper pugliese. Il finale è sensazionale e ci lascia a bocca aperta ad osservare un Caparezza volare sul palco a cavalcioni di una scopa in stile Harry Potter, realizzando il sogno infantile di molti di noi che desideravamo e continuiamo a desiderare una vita magica, lontana dai flagelli della vita che ogni giorno ci esasperano da quando siamo divenuti più adulti e troppo poco bambini.

L’encore ci regala altri tre pezzi, Il testo che avrei voluto scrivere, l’immortale Fuori dal Tunnel e, per chiudere in bellezza Mica Van Gogh, la cui durezza strumentale ci ricorda quanto, in realtà, siamo noi i folli. Noi appartenenti a questa società fatta di smartphone, ossessioni al silicone, digging monetario senza sosta e alienazione da società liquida Baumaniana. Di fronte a un mondo simile, il buon Vincent, era decisamente meno fuori dagli schemi di noi. Noi che siamo i pazzi, mica Van Gogh.

Così, nella maniera migliore possibile, si conclude un concerto strepitoso fatto di luci, spettacolo, musica travolgente e di un livello superiore (supportata da un impianto Fonico al di sopra della norma e qui si ringrazia l’organizzazione del Festival che sicuramente ha influito in un esibizione a dir poco stratosferica).

Ancor più che la musica e le luci, però, quello che rimane sono i messaggi di quel grillo parlante riccioluto, di quel menestrello della disperazione nostrana che con il suo tono scherzoso ci ricorda quanto non vada bene nel nostro mondo regalandoci non solo musica stupenda ma, soprattutto, la possibilità di riflettere un momento di più sulla nostra vita per poterla poi, magari, anche cambiare in meglio.

 

 

Lorenzo Natali

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