Un incontro tutt’altro che formale, un ritrovarsi tra amici che non si vedevano dal 2 ottobre all’Arena di Verona e si rincontrano, per la presentazione del disco MENO PER MENO, di Niccolò Fabi, nel foyer del Teatro Massimo di Cagliari.
Niccolò appare sorridente e, come al solito, timidamente imbarazzato da quel calore che il suo pubblico gli dimostra.
Un calore che vorrebbe ricambiare con la promessa di un ritorno a breve in tour, ma che ancora non può sbilanciarsi a fare.
Si inizia con il filmato che illustra il processo di avvicinamento a questo disco, culminato in quell’evento spettacolare che è stato l’Arena di Verona, per festeggiare i suoi 25 anni di carriera, nei quali il ragazzetto spettinato, che cantava Capelli, è ancora spettinato ma ha subito un’evoluzione umana e professionale che lo ha portato alla consacrazione tra i cantautori italiani più rappresentativi.
Si parla di quanto le sue canzoni sappiano entrare nel vissuto di chi lo ascolta, talvolta a sottolineare momenti felici, più spesso come zattera di salvataggio per chi si sente smarrito.
“La forza delle canzoni non è tanto nella loro novità ma nell’entrare ad amplificare momenti particolari della vita degli ascoltatori, perché ognuno di noi può collegare ad una canzone un momento della propria vita.
Quando si parla delle canzoni nuove, si rischia sempre di sembrare quello che vuole vendere un prodotto, questo mi mette in difficoltà”.
È il momento delle domande, libere, per espressa volontà di Niccolò che vuole accorciare al massimo la distanza con gli interlocutori: senza mediatori, come di solito avviene nelle presentazioni dei dischi, senza microfono e, in piedi, tra il pubblico, per affrancarsi dell’impostazione da “interrogatorio” con il faretto puntato addosso.
Per scrivere bei testi bisogna leggere tanto e bene, ci sono letture che ti hanno fatto venire voglia di scrivere e che hanno influenzato la tua vita?
È inevitabile che alla base dei testi che uno scrive ci siano delle parole, che possono essere pensate, lette, ascoltate nelle conversazioni più disparate…
Tra tutte le fonti possibili è indubbio che la letteratura costituisca quella più rigogliosa, fruttuosa, perché spesso ci consegna dei punti già manifesti.
Non sarebbe giusto però, considerarla l’unica, perché mi rendo conto che, a volte, è lo sguardo con cui osservi le cose che sta alla base poi della prima ispirazione della canzone e, in questo senso, qualsiasi esperienza può essere fonte.
All’interno della letteratura e dei libri letti, ci sono stati indubbiamente dei testi che io ho un po’ saccheggiato di parole, assonanze, rime.
Per quanto la letteratura sia piena di ipertestualità, di persone che hanno preso una frase, un concetto e l’hanno ricostruito in un altro contesto, riuscendo a farlo suonare comunque diversamente, mi sono assolto anche quando, in maniera meno maliziosa, ho inserito dei pezzi di frasi lette in qualche libro.
Da pessimo filologo in questo senso, ci sto pensando adesso, in realtà, non sempre metto nel mio quaderno di appunti, la fonte.
Appuntarmi parole, o coppie di parole, che appartengono alla stessa famiglia, spesso, mi aiuta a dare un territorio.
In quel famoso quaderno scrivo varie parole raggruppate in macrocategorie, ma non mi ricordo esattamente da dove le ho prese.
Volendo rispondere alla domanda, se ci sono dei libri in particolare, sicuramente “Il Libro dell’inquietudine” di Pessoa lo ritroverete dal primo disco all’ultimo; “L’uomo che ride” di Victor Hugo e “La vita è altrove” di Kundera, sono i primi tre che mi vengono in mente perché mi ricordo nello specifico alcune parole.
Per esempio, anche ne “Le cose che non ho detto” l’autrice usa l’immagine incredibilmente efficace delle parole che ti vengono a disturbare, che avremmo voluto dire ma non siamo riusciti a dire quando dovevamo farlo, e che ci vengono a cercare durante il sonno.
Era un’immagine potentissima, che infatti ho ripreso a pieno nel ritornello di “Le cose che non abbiamo detto”.
Più recentemente ho letto un libro che si intitola Stoner, che mi ha molto colpito.
Dopo l’uscita dell’album “Una somma di piccole cose” si è creato un momento più intimo nei tuoi concerti.
Quando hai scritto una mano sugli occhi hai capito subito la forza di questa canzone?
Non sempre si ha la consapevolezza della forza di una canzone.
Nel mio caso, in particolare, perché non ho una scrittura diretta… è diretta e indiretta allo stesso tempo.
Non credo di avere un linguaggio aulico mentre scrivo le canzoni, però ci sono canzoni che rimbalzano attorno al racconto e anche la loro forma melodica spesso non è proprio iper-cantabile, questo le rende meno immediate dal punto di vista dell’impatto.
Mi rendo conto che le mie canzoni acquistano valore pian piano, entrando nella vita delle persone e aggrappandosi ad esperienze di tutti.
Questo è successo anche con “Costruire”, che non è stata pensata inizialmente per quella che poi è diventata. È uscita nel 2016, quindi ormai ha 17 anni e all’inizio sì, ho capito che più piaciucchiava all’interno di quel disco, ma è stata con il tempo, diventando un po’ più polverosa, che ha acquisito forza.
Le cose che faccio sono abbastanza di legno, un materiale vivo che si trasforma col tempo.
“Una mano sugli occhi” arriva in un momento particolare del concerto, che ho capito essere quello in cui abbiamo abbassato tutti le ultime resistenze. Mi rendo conto proprio che le persone sono pronte a lasciarsi andare totalmente.
C’è una piccola logica quando fai una scaletta delle canzoni: sai che le prime due/tre sono delle canzoni che servono a inaugurare il rapporto.
Ecco perché credo che l’effetto di “Una mano sugli occhi”, oltre al fatto che dal vivo ha quella coda che suona Bob e che ha ancora più impatto, tende a far dire quel “SI” senza remore all’ascoltatore che abbandona tutto quello che c’è stato prima del concerto e vi si immerge totalmente.
I dischi funzionano nel momento in cui, quando li ascolti, parti per un viaggio, come diceva il M° Battiato. Qual è stata l’ispirazione per “Al di fuori dell’amore”?
Cerco sempre di trovare un punto di partenza che indichi una direzione, poi però non voglio costruire una strada che costringe.
Il punto di partenza per “Al di fuori dell’amore”, è stato il ritornello e, per almeno 6 mesi/ un anno, è rimasta solo quella base perché mi rendevo conto che era una cellula di partenza giusta.
L’incipit sia nella melodia che nella frase aveva un “centro gravitazionale”.
Poi ho trovato un’altra stanza nella quale entrare…. Una dichiarazione di una persona che stava per lasciare questa vita, per la verità simile a molte altre che a quel punto dell’esistenza si sentono di dover tirare le fila delle cose più importanti e di quello che vorrebbero portarsi idealmente in questo viaggio verso l’incognito.
In quei frangenti non c’è spazio per la retorica, c’è spazio solo per la verità che è l’amore. È l’abbraccio a cui ti aggrappi per rendere quel salto un pochino meno impossibile da accettare. È la nostra forza.
Questa considerazione ha fatto risuonare nella mia testa delle parole: ho fatto davvero la vita che ho scelto? in qualche modo l’ho vissuta fino in fondo o mi sono perso per strada?
Nella teatralità che le canzoni devono avere e nella possibilità di eccedere e amplificare alcune cose per renderle più evidenti, pur facendo parte di quella fetta di persone fortunatissime che ha potuto fare la vita che ha scelto, mi sono proiettato nella vita di chi invece questa fortuna non l’ha avuta.
“Al di fuori dell’amore” significa proprio quell’approccio verso le cose che è totale comprensione e donazione.
Quanto ancora c’è della romanità in quello che scrivi ed è ancora un luogo importante per chi, come te, viaggia parecchio?
Conta tanto, è l’appartenenza di chi ha avuto una cornice all’interno della quale ha fatto le cose più importanti della sua vita, e quindi se devo pensare a momenti fondamentali, belli e brutti che siano, inevitabilmente hanno quella luce, in quelle strade, in quei luoghi.
Malgrado Roma, per la sua caratteristica popolosa e popolare, possa essere considerata di tutti e io mi senta uno dei milioni di romani, uno dei tanti cantautori, ognuno trova un suo spicchio di romanità perché è il luogo in cui sono nato ed è nella mia memoria ancestrale.
Non credo di averla mai voluta raccontare espressamente…tranne forse, in “Ha perso la città” che contiene delle immagini che ovviamente sono riferite alla mia città, ma solo perché è quella che vivo.
La serata è poi proseguita con altre domande e con l’immancabile rito del firmacopie, ma una cosa è certa, la voglia di tornare in Sardegna, magari con il sole è tanta e siamo certi che ci rivedremo presto.
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Per ogni cosa c’è un posto
ma quello della meraviglia
è solo un po’ più nascosto
(Niccolò Fabi)