I Tesseract, negli ultimi anni, hanno regalato al panorama musicale progressive metal una incredibile ondata di originalità, personalità e freschezza (che ora più che mai serve nel mentre in cui una buona parte della scena progressive sembra più concentrata sulla cura delle complessità virtuosistica che altro).
Una freschezza e originalità che la stessa band inglese è sempre stata in grado di rinnovare album dopo album. Partendo dal duro One, passando per le eteree evoluzioni ambient di Altered State (attualmente ancora la loro punta di diamante) giungendo, due anni fa, all’uscita di Polaris, album distinto dall’ennesimo rinnovo di sonorità senza, però, andare a tradire i punti cardine di uno stile personale e inconfondibile.
Già nel precedentemente citato Polaris era possibile notare un alleggerimento delle sonorità, tendenti spesso verso parametri poppeggianti ben incrociati, però, con i loro inconfondibili elementi ambient, coinvolgenti groove dispari e potentissime chitarre distorte.
Con Polaris si era confermata la natura del sound del quintetto inglese, lontano dal concepimento del virtuosismo fine a se stesso, scevro di solismi particolari e concentrato ben si sulla buona orchestrazione, ricercando la genuinità dell’unione delle singole parti in favore del tutto. Quello dei Tesseract si va così ad affermare come un progressive dove il virtuosismo risiede nella ricercatezza ritmica e sonora.
Sonder, quarto album in studio pubblicato lo scorso 20 Aprile sotto l’ala della Kscope Music, non sembra distaccarsi in maniera poi così netta dal precedente Polaris (che portava invece, in se, un grande cambiamento rispetto al predecessore). Sonder sembrerebbe, piuttosto, voler mostrare un’altra faccia della medesima medaglia che sembra essersi affermata con l’uscita del loro terzo album.
La presenza di sonorità più leggere si conferma, manifestandosi però in un diverso mood emotivo. Il roller coaster emotivo di Polaris, nel suo ampio spettro di differenti emozioni e sensazioni esposte nei suoi 40 e rotti minuti di riproduzione, lascia spazio a un album ben più statico, forse sonoramente più coeso e in grado di condurre l’ascoltatore verso precisi panorami sonori ed emotivi.
Lontano dalla freschezza di una Phoenix o dai sentimentalismi di Tourniquet, in Sonder troviamo una band più cupa, riflessiva, tendente all’etereo di stampo Altered State ma con una nota supplementare di “negatività” intrinseca. Le sonorità sono estremamente cupe, tendenti al dark, al malinconico e al rabbioso. I riffing, quando presenti, sono poderosi, duri e taglienti.
Luminary, singolo di lancio e pezzo di apertura, è forse il momento più “allegro” dell’intero lavoro con le sue strofe dispari e slanciate e il ritornello dal gusto prettamente pop ed energico. A seguire, King, con i suoi massicci riff di chitarra e melanconiche sezioni ambient, porta con se un connubio di sonorità sospese tra il rabbioso e il malinconico e si manifesta come ottimo riassunto di quanto ci ritroveremo ad ascoltare nel resto dell’album.
Orbital, breve canzone dal tocco sentimentale, mistico, melanconico ed emotivo, lascia spazio a Juno, uno dei momenti migliori dell’album. Un’apertura affidata a poderose chitarre ci affida poi a una sezione dove serpeggianti ritmiche dispare, affidate a incroci di chitarra e batteria, si giostrano al di sotto di un cantato ricco di groove. Il ritornello riprende la poderosa sezione di chitarre in apertura, risultando cupo e potente. La terza strofa cantata si mostra più lineare e slanciata con il suo trascinato cantato sorretto dalle tipiche chitarre clean marchio della band inglese. L’esplosione giunge poi sulle stesse sonorità della seconda strofa, risolvendosi poi con una conclusione affidata a ritmiche nervosissime e taglienti.
Beneath My Skin e Mirror Image, proposteci come due a se stanti movimenti di una singola composizione, proseguono la linea estremamente dark che distingue l’album (ricordando un vago incrocio tra One e Altered State), offrendoci centillinati momenti di durezza chitarristica, ben più presenti sezioni atmosferiche dai ritmi cadenzati e coinvolgenti esplosioni disperanti ed emotive.
Smile, nella sua versione album, si mostra come un pezzo qualitativamente superiore alla precedentemente rilasciata demo. Pezzo più duro dell’intero lavoro (assieme a King) e, allo stesso tempo, uno dei più particolari della loro discografia in quanto a sonorità. Un poderoso e nervosissimo riff portante (più volte ripreso durante il pezzo) si alterna con cantati scevri di ambient, cupi, ricchi di elementi elettronici, chitarre in palm muting e tanto, tantissimo groove. Il finale, affidato a una coda che riprende la ritmica delle strofe, ricorda il concept della versione album di Nocturne. Il finale dell’album è affidato alla deludente The Arrow. In breve, una Seven Names, direttamente collegata a Smile, che non ci ha creduto abbastanza, lasciando all’intero lavoro la fastidiosa sensazione di un qualcosa concluso in fretta e furia, precocemente e senza cura.
Di fatto Sonder, un album buono e dotato di notevoli elementi, non ha la forza per imporsi su giganti come Altered State e Polaris (nonostante, qualitativamente, possa tallonare da distanza quest’ultimo). La durata, nei suoi soli trentacinque minuti, è malsano segno di qualcosa che non va e non può andare bene.
Partendo proprio da questo presupposto, nonostante la cura nella ricerca di uno specifico sound emotivo in cui inscatolare l’intro lavoro, Sonder appare frettoloso. Un lavoro di transizione in cui i molti ottimi spunti non vengono abbastanza curati e approfonditi, risultando a tratti superficiale e lasciando un brutto sapore amarostico nella bocca dell’ascoltatore. Un album concluso, appunto, in fretta e furia (mancanza di tempo? Pressioni discografiche? Avvento della Madonna di Fatima?) le cui potenziali bellezze non sono state ben levigate e approfondite. Lo stesso mix, tra l’altro, è ben lontano dall’essere ineccepibile, specialmente per una batteria come non mai eccessivamente preponderante sugli altri strumenti (in particolare il rullante, talmente alto nel mix da essere, ai primi ascolti, fastidioso elemento di distrazione nei confronti della canzone in se).
In conclusione, Sonder è un buon album, in grado di trasmettere un interessante carico di emotività, vincente nel convogliare il suo specifico messaggio, in grado di essere tremendamente struggente e rabbioso (perfettamente in linea con i drammatici concept dei pezzi sospesi tra timori, dolori, solitudine, illusorietà e finitudine della vita) ma non ottimo e privo di difetti. I pezzi presenti riescono a trasmettere il loro messaggio, nel complesso però manca quel qualcosa in grado di stendere l’ascoltatore, incidendogli ogni concetto con un sano ceffone emotivo. Ha in se ottimi ed interessanti spunti stilistici e compositivi che non bastano, però, a far cadere nel dimenticatoio la sensazione di avere di fronte a se un lavoro non abbastanza curato e che, con qualche accortezza in più, avrebbe potuto tranquillamente equiparare i predecessori. Bene, quindi, ma non benissimo.
Voto – 7
Lorenzo Natali
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