Attualmente in tour per la promozione di Every Country’s Sun, i Mogwai sono passati da Roma sabato 28 ottobre.
Per chi è nato negli anni ’80, il film Gremlins ha rappresentato parte dell’infanzia. Quelle creaturine così graziose, pelose, affettuose, ma anche incredibilmente diaboliche, erano chiamate Mogwai, letteralmente traslitterazione di “diavolo, mostro” dal Cantonese. Proprio da quelle bestioline un duo di ragazzi scozzesi (mai fu più lontano dall’immaginario di Braveheart, Highlander, o l’epica al contrario di Trainspotting) , nel ’91, presero ispirazione per la loro band, che sarebbe poi diventata fra le più influenti nel post rock a livello mondiale. A Stuart Braithwaite (chitarra,basso) , Dominic Aitchison (chitarra), e Martin Bulloch (batteria), nel 1995, già dopo pochi concerti si unì John Cummings come secondo chitarrista. Anche Brendan O’Hare, batterista e percussionista dei Teenage Funclub, partecipò al progetto Mogwai, che culminò nell’album di debutto del 1997 Mogwai Young Team. L’album, dal sound minimalista e molto sperimentale, sebbene “salutare” e facile da ascoltare, in cui sono presenti anche tracce di parlato, ottenne un successo di critica impressionante: a distanza di più di 20 anni, Mogwai Fear Satan, ispirata ad un incubo ricorrente riguardo Lucifero di Atchinson, è ancora fra le canzoni più note della band. Il suo EP raggiunse la posizione 59 nella classifica generale dei singoli in Gran Bretagna. Le canzoni sono lunghissime, in pieno stile post rock, contraddistinte da crescendo complessi ed orchestrazioni quasi del tutto assenti: non ci sono archi, il dialogo musicale è affidato a chitarre e percussioni, il piano ed il glockenspiel (ndR: simile allo xilofono, è lo strumento portante del Flauto Magico di Mozart ed è stato spesso utilizzato dai Radiohead).
Il successo dell’album, sebbene ristretto ad ambienti indie ed underground, li trascinò nella direzione di nomi più noti, tanto che nel 1998 vide la luce Kicking a Dead Pig: Mogwai Songs Remixed, un remix di Mogwai Young Team in chiave elettronica, da parte di artisti già noti nella scena elettronica ed IBM quali Alex Empire, Mike Paradinas e Mike Shields.
Già nel 1998 il secondo album ufficiale dei Mogwai vide la luce, raggiungendo la posizione 29 nel Regno Unito: il titolo, che ora farebbe molto discutere, è Come On Die Young. Un lavoro differente la precedente, calmo, sinuoso, che si snoda come un fiume in una pianura verde. Il sound ricorda i nordici Sigur Ròs di Untitled, l’inclusione del flautista e tastierista (nonché back vocalist) Barry Burns, addolcisce i suoni, le distorsioni diventano carezze. Eppure lascia una sensazione di angoscia nello stomaco, in particolare la tesissima CODY. L’invece meravigliosa Christmas Step, 11 minuti in puro stile Mogwai, spezza, fortunatamente, tale tensione.
Seguì poi Rock Action del 2001, e ad esso il primo album che vendette anche negli Stati Uniti, Happy Sound for Happy People, marcatamente elettronico. Notevole è Killing All the Flies, in cui sono ampiamente presenti tastiere e backing vocals tramite Vocoder, i cui effetti sono molto cari a Barry Burns. L’album è stato ampiamente utilizzato come colonna sonora, fra cui il videogioco Life is Strange e la serie tv Person of Interests.
Il capolavoro dei Mogwai è però Mr Beast del 2006, di cui il direttore della casa discografica di riferimento disse:
“probabilmente il miglior album art-rock in cui sono stato coinvolto dai tempi di Loveless (lavoro del 1991 dei My Bloody Valentine). Anzi, forse anche migliore.”
Il singolo Friend of The Night ebbe una grandissima diffusione, un inquietante videoclip in cui apparivano oggetti casalinghi, giocattoli, utensili, nella completa oscurità, come abitanti silenziosi di una casa abbandonata, trasmesso anche da MTV Italia. Si tratta di una delicata ballata al pianoforte, quasi un notturno rock, che raggiunse la 38esima posizione nella UK Top Singles Chart. Sempre nel 2006, viene raggiunta un’altra vetta nella carriera dei ragazzi di Glasgow, la prima colonna sonora di un film hoolywoodiano. Porta infatti la loro firma la soundtrack di The Fountain, dal momento che Clint Mansell e il Kronos Quartet li han voluti con sé: onirica e disperante, è il racconto di come vita, amore, morte, siano connessi tramite il tempo e lo spazio.
Dal successivo The Hawk is Howling, caratterizzato dal dualismo vita/morte già sperimentato in The Fountain(“il corvo ulula”), totalmente privo di voci, la più nota traccia è l’elegiaca I’m Jim Morrison, I’m Dead: curioso è il cortometraggio, “Adelia, I want to love” presente nella versione deluxe dell’album, che ruota attorno ad una signora novantenne, Adelia, di Roseto degli Abruzzi, che non è mai stata ad un concerto. Il video è liberamente disponibile su YouTube.
Gli anni ’10 si aprirono per i Mogwai con un altro titolo curioso, Hardcore Will Never Die, but You Will, che arrivò addirittura alla 25esima posizione nella UK Rock Chart, ed è caratterizzato da un sound più orientato allo space rock, atmosfere distanti e lontane, melodie estremamente rallentate e rarefatte, distorsioni come stelle esplose. Rano Pano, primo singolo, è l’archetipo del nuovo stile musicale della band.
Nel 2014 fu rilasciato Rave Tapes, album comunque gradevole ma di livello nettamente inferiore ai precedenti, un po’ sottotono, complice anche la scoperta da parte dei membri della band dei sociali network, in cui, dal 2013, sono estremamente attivi. Attorno all’opera si erano create gigantesche aspettative, almeno da parte della scrivente, dal momento che i fan erano stati inclusi nella scelta dei titoli delle tracce, una mossa un po’ azzardata da parte di una band che dell’intimità ha fatto uno dei suoi punti cardine. Chicca dell’album è però Repelish, un “dissing”, parodia dello stile recitato di molte canzoni dei colleghi Godspeed you! Black Emperor, che da poco hanno animato due serate all’Auditorium della Conciliazione. Di salvabile, da Rave Tapes, è l’originalità dell’opera stessa.
A settembre del corrente anno, 2017, fu distribuito Every Country’s Sun, album per il quale la band è attualmente in tour europeo, e per tre date in Italia: 27 ottobre a Milano, 28 ottobre a Roma, 29 ottobre a Bologna. Per l’album la band ha subito un cambio nella produzione, a cura ora di David Friedmann (già dei Flaming Lips, MGMT, Weezer, OK go). Dopo il mezzo passo falso di Rave Tapes, ci si aspetta che ora, i Mogwai, la cui carriera più che ventennale è stata estremamente varia, articolata, e soddisfacente, abbiano costruito un prodotto che coniughi melodia e cerebralità post rock, accelerazioni con dolcezza. L’album è stato anticipato dal singolo Coolverine, pubblicato a giugno, una ballata semplice, basata su pochi accordi e fondata sull’emozione. Il videoclip, in un minimal bianco e nero, è stato girato da Hand Held Cine Club, e mostra un mondo privo, improvvisamente, di gravità: protagonista è un uomo, nel tentativo di porre fine alla propria vita gettandosi da un grattacielo, furioso nel sentire il proprio corpo sollevarsi verso il cielo invece di piombare a terra. Allo stesso modo, altre persone che rischiano di morire (una ragazza che cerca di annegarsi nella vasca da bagno, un autista che perde il controllo dell’auto) vedono sovvertita la propria condizione e continuano a vivere. L’influenza dello space rock, etereo e distante, eppure ben calato nel 21esimo secolo, dei God is an Astronaut, è fortissima.
Onestamente, di sabato sera, non mi aspettavo di trovare tanta gente all’Atlantico, storico live club dell’EUR. Eppure il parcheggio era affollato, la fila ai tornelli ed al ritiro biglietti era lunga. All’ingresso, il locale era già affollatissimo. Forse un male, visto l’aspetto intimo e personale del post rock stesso.
La band sale sul palco alle 9,30, in perfetto orario, e ciascuno si dispone alla propria postazione:
Braithwathe ed Atchinson si interscambiano tra basso e chitarra, Burns rimane quasi sempre fisso alle tastiere e si dedica alle backing vocals, e all’occasione, alle percussioni aggiuntive, mentre il batterista Bulloch non perde un colpo. Un bicchiere di vino rosso accompagna ogni strumentista. Il tempo di un “Hello Rome, cheers!” e si comincia a suonare.
Si inizia forte, con 20 Size, traccia proveniente dall’ultimo album, che ben prosegue sulla via traccia da Rave Tapes: anche per i profani, si capisce subito il tipo di sound utilizzato in live dalla band. Batteria ben marcata, chitarre distorte ancor di più, tastiera amplificata che la fa da padrona. Il suono è avvolgente e coinvolgente, e come in ogni concerto post rock, si è liberi di sognare. 20 size è un brano tipicamente Mogwai, tipicamente post rock; forse scontato, ma comunque godibile, un’ottima intro per ritrovarsi nel mood giusto. Braithwathe, cappellino e barba lunga, si scambia con Atchinson per la notissima I’m Jim Morrison I’m Dead, una delle tracce più famose della band: si parte piano, col piano di Burns e qualche arpeggio di chitarra; gli effetti luminosi sono soffusi. È forse la traccia più bella da The Hawk is Howling, una commovente elegia che, però, forse, complice anche l’amplificazione distorta e a tratti confusa della tastiera, perde di lirismo tramite un lo-fi fuoriluogo ma ne guadagna in un’energia che non gli appartiene: non è un biglietto per un viaggio cosmico nello speciale paradiso degli artisti. Eppure, è ancora troppo presto per tirare le somme, e subito si riparte con la traccia più particoalre dell’ultimo album, ossia Party in The Dark: essa rappresenta una curiosa contaminazione pop di classe, ricca di cantato distorto di Braitwathe; è orecchiabile, è new wave, il basso e i piatti sono protagonisti, viene da ballare sul refrain che recita:
I, taken from those spirals be both kind
Hungry for another piece of mind
Silent and impatient without time
Directionless and innocent
E l’atmosfera si fa surreale, complici anche la parole scevre di significato (o pienissime, l’Idea è nella mente di chi la pensa), e le luci stroboscopiche. Il finale elettronico è preludio di Battered at a Scramble, per quanto mi aspettassi il singolo da Every country’s Sun, ossia Coolverine. Invece si tratta di una traccia energica: il pubblico si dimena, ci si muove con la musica. La melodia è sorretta dalla chitarra distorta e l’improvvisa accelerazione di batteria spaventa ma galvanizza. L’atmosfera giusta per essere colonna sonora di un nuovo Mad Max anche se, come già detto, il non eccelso soundcheck fa sì che molte sfumature strumentali, fra cui gli arpeggi della seconda chitarra, ben udibili nella versione studio, si perdano del tutto. Si prosegue con la misconosciuta Ithica 27/09, fra le più vecchei canzoni della band, risalente ad una compilation del 1997, Ten Rapid, prodotta dallo storico produttore Andy Miller: ed è un bene che venga riproposta dal vivo, dotata di nuova energia; gli accordi, sempre gli stessi, do diesis, la, mi, sol diesis, si ripetono fino alla fine, in una semplicità estenuante quanto efficace. Dopo questa sorpresa, mi aspettavo Hellicon, traccia space rock, ma di nuovo i Mogwai stupiscono i fan accaniti proponendo invece Crossing the Road Material, dal nuovo album: e finalmente si inizia a sognare. Le due chitarre dialogano l’un l’altra, ma sembrano non riuscire a farsi udire; una impegnata in una frase musicale distorta e ripetitiva, l’altra, un delicato arpeggio seguito anche dalla ritmica della tastiera. Si sogna e si immaginano grattacieli e città futuristiche, complici gli effetti beat generation tipici dei Neu! (duo tedesco elettronico, fuoriusciti dei Kraftwerk), da cui si discende a velocità pazzesca; pareti bianche ben levigate ed automobili volanti; mari lontani e tramonti che si riflettono sui giganteschi orologi sospesi. È forse la traccia migliore, ad ora, la più onesta, la più sentita dalla band stessa: i volti sono ispirati, il pubblico è in silenziosa estasi da chitarra e basso. Risveglia dal sogno Hunted by a Freak, un grande classico della band, che ha qui il merito di mantenere alta l’attenzione sul nuovo album proprio proponendo tale traccia; torna, stavolta, il tastierista Burns al Vocoder. Oscura ed inquietante, riporta alla mente vecchi incubi infantili, orrendi mostri dalla testa quadrata e le gambe corte, grazie alla dissonanza fra ii vocalizzi e la base strumentale. Si va in crescendo, e Rano Pano segue: parte forte con la chitarra distorta, Burns va alla tastiera; il motivetto portante, quasi puerile, viene ripetuto all’infinito in un loop che sembra non finire mai; gli strumenti lo ripropongono in varie tonalità, coloriture, creando merletti attorno allo scheletro essenziale delle note. La sensazione è straniante. Gli effetti elettronici esasperano l’aspetto surreale della situazione; eppure attorno a me vedo molte facce annoiate, confuse. È una canzone scritta per rendere bene dal vivo, e così infatti dovrebbe essere.
Siamo ormai a metà concerto, e si torna alle tracce da Every Country’s Sun.
Il palco si illumina di giallo, come una stella di classe spettrale G, e parte lenta e dolce, decisamente low key, Don’t Believe the Fife. Di nuovo, qui, live, si perde la delicatezza delle orchestrazioni futuristiche, ed una traccia space rock perde il lato artistico ed immaginifico: la bellezza dell’ispirazione è distante. Ma fortunatamente la traccia dura circa sei minuti, e nella seconda metà una melodia elettrica prende il via e trascina tutti con sé su astronavi provenienti da galassie sconosciute e dirette chissà dove. L’accelerazione preme contro il petto del pubblico, e coloro i quali tenevano le braccia strettamente incrociate si muovono ad abbracciare il/la proprio/a compagno/a. Qui, i Mogwai sembrano aver visto, in fase compositiva e realizzativa, navi da combattimento in fiamme a largo dei bastioni di Orione e raggi di classe B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser, altrimenti tanta bellezza, in termini umani, è inspiegabile. Si torna al classico post rock con Two Rights Make one Wrong, traccia da Rock Action, dotata di nuovo di backing vocals, che inizia con chitarra appena pizzicata, prosegue come una suite tipicamente Mogwai di dieci minuti, e si lascia ascoltare e si lascia ballare sulle note del trumpet nel bridge. Il finale in doppia cassa scuote gli animi di tutti e risveglia chi si era distratto per una birra. “We have only two songs left,”, dice Braithwathe, ed infatti così è. Auto Rock, da Mr Beast, è una delle mie preferite, e quando sento il caratteristico pianoforte dell’album, non riesco a trattenere l’emozione. Dirige gli altri strumenti, che sono solo a supporto, e ne seguono le orme; eppure, purtroppo la potenza mal calibrata dei tamburi della batteria finisce per rubare la scena alla melodia stessa. Si riparte per un finale fortissimo con Old Poisons, avvelenata traccia da Every Country’s Sun, in pieno stile rock, chitarre elettriche che si inseguono e che disegnano melodie aggressive come la natura delle Highlands, un pezzo quasi progressive, dai frequenti cambi di ritmo, che è un programma di un nuovo corso. Una buonanotte cattiva: abbiate brutti sogni, paiono voler dire.
I Mogwai escono di scena, ma è solo per una piccola pausa.
Il pubblico li chiama a gran voce, fra fischi e richiami. Un ragazzo, poco distante da me, invoca a gran voce Satana, protagonista di una delle canzoni più note della band. Rapidamente, i ragazzi di Glasgow tornano sul palco e si cimentano nella title track: una spudorata citazione alla poetica di Helios/Erebus degli irlandesi God is an Astronaut, che avevamo seguito live a Villa Ada. Ottima traccia che si perde nel nozionismo musicale: le chitarre distanti sanno di già sentito, gli affondi elettronici vengono sommersi dalla chitarra che, sebbene canti una melodia eloquente ed onesta, non stupisce. Eppure l’accelerazione finale emoziona, viene da chiudere gli occhi e lasciarsi circondare dalla luce bianca e dorata del palco, immergendosi nella musica dei pianeti.
Eppure, manca il gran finale. Quando parte il primo accordo a chitarra pizzicata di Fear Satan, il pubblico va in delirio per la prima volta dall’inizio del concerto. L’incubo è servito su un piatto d’argento, la batteria sincopata simula un cuore agitato per sedici minuti di magia. Viene da domandarsi quali altre grandiose capacità musicali abbiano delle persone in grado anche solo di concepire un’opera simile, dal tale potere immaginifico: raccontare il terrore di un bambino senza le parole. È il flauto l’effettivo protagonista, il sognatore, e siamo noi a vivere nel suo incubo, fatto di suoni ripetuti e di luci viola stroboscopiche, di improvvise accelerazioni, di chitarre distorte in cui il flauto delicato si perde. Ed è lei Lucifero urlante.
Il concerto termina, insomma, proprio sul più bello. Pare che a Milano, invece, Fear Satan sia stata la traccia inaugurale: non so giudicare se la scelta sia stata migliore oppure no. I Mogwai sono strumentisti eccelsi, ciascuno estremamente duttile ed in grado di destreggiarsi in più ruoli: ciò che rende grandioso il post rock sono le possibilità che la mancanza di voce dona, i ruoli primari degli strumenti, la scelta di melodie ed effetti laddove, volontariamente, si restringe il campo d’azione. La fantasia fa da padrona, l’immaginazione viene condotta mano per la mano: è musica per chi si fa ispirare, per chi vuol sognare, per chi vuole imparare su se stesso. La malriuscita amplificazione della tastiera, che ha contribuito ad indurire il sound più di quanto i Mogwai effettivamente concedano live (principi di ciò sono i Godspeed you! Black Emperor, gli Explosions in the Sky ed i God is an Astronaut), purtroppo ha fatto perdere in resa emozionale.
I Mogwai, dal canto loro, restano geniali musicisti capaci di reinventarsi e di spaziare su generi differenti, filtrando tutto per il filtro del post rock. Art for Art’s Sake, dicevano gli inglesi. E i Mogwai continuano ad insegnarcelo.
Ecco la scaletta completa:
20 size
Jim Morrison
Party in the Dark
Battered at a Scramble
Ithica 27/09
Crossing The Road Material
Hunted by a Freak
Rano Pano
Don’t Believe the Fife
Two Rights make one Wrong
Auto Rock
Old Poisons
Encore:
Every Country’s Sun
Mogwai Fear Satan
a cura di Giulia Della Pelle

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