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Johnny DalBasso – Cannonball [Recensione]

by InsideMusic
Il progetto di Johnny DalBasso è come un rituale analogico: negli album e, con ancora più veemenza, nei live, il suo è un continuo porsi controcorrente rispetto all’epoca digitale. Nuova fatica è Cannoball, uscito il 18 gennaio.

Nell’era dei campionatori, porsi come musicista vero che suona strumenti veri è andare controcorrente; nel mondo dei video ad alto budget, anche tra gli esordienti, auto-prodursi un video di sei euro è andare controcorrente; al tempo dei concerti pieni di sequenze e computer, costruirsi un set di batteria per suonare tutto da solo e contemporaneamente, è andare controcorrente.

Tenere un punto non è per forza sinonimo di qualità, ma di sicuro merita una menzione: veniamo dunque a Cannonball, l’ultima fatica del cantautore di Avellino (o forse era di Memphis?) Johnny DalBasso, pubblicata da Goodfellas.

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Artwork di Cannonball di Johnny DalBasso

Il mix è affidato a Daniele Tortora aka Il Mafio, veterano della musica alternativa, mentre il master è del pluridecorato Giovanni Versari; tutto è scritto, suonato e risuonato dal mastermind, ovviamente, anche se per questa volta dietro le pelli c’è la mano di Gianluca Tilly Terrinoni.

I pezzi di Cannonball sono brevi, i messaggi sono diretti: non c’è quasi nulla che viene lavorato di sponda, si arriva al quid nel giro di pochi secondi e tutto viene reiterato in una cantilena rock’n’roll.

Intanto, la voce: perfetto connubio di rockabilly e di punk di matrice italica. Nelle linee vocali e nelle ritmiche chitarristiche si colgono tutte le influenze di Johnny, spesso ai limiti del citazionismo; non c’è bisogno di fronzoli, anche i maestri a cui ispirarsi devono essere chiari fin da subito.

Da un lato, il timbro e le metriche delle strofe riprendono il birignao del rock a cavallo degli anni Sessanta, sul quale tanti hanno costruito la loro fortuna, da Celentano a Piero Pelù (vd. Cannonball); dall’altro lato, il timbro sfocia spesso nell’attitudine del punk tricolore, sia quello ‘divinamente ispirato’ da Pistols a Clash, sia quello dei primi Duemila (vd. San Francesca e La scala).

Il suono delle chitarre, invece, pur omaggiando fraseggi di queste epoche, ne rivela una terza: tanto sporco, tanti feedback, tanti re-amp sovraincisi fino a creare un muro di suono; questo è il regno degli anni Novanta, del post-grunge, dello stoner, del revival garage; un modello emerge su tutti: Jack White, nel suono e nello stile.

Venendo ai singoli brani, vale la pena citarne alcuni.

La title track è un buon esempio del punto di arrivo dell’album: ci sono i riff punk e c’è la voce rockabilly; non sono generi così distanti, che anzi si mischiano più che volentieri: aveva ragione Robert Palmer quando nel 1978 definiva i rockabillies come the first punks’, anche se probabilmente pensava all’Elvis di Hound Dog e non a quello che duettava con Sinatra.

Furore è il tributo al molleggiato d’Italia, proprio nel periodo del suo ritorno sui piccoli schermi. Il blues di Celentano non era così oscuro, così incalzante, ma dopotutto qui viaggiamo su tonalità diverse e i decenni passati si fanno sentire; notevole come la cover si integri perfettamente ai pezzi originali dell’album.

San Francesca è il pezzo che suona più vicino alla scena underground italiana dei primi anni duemila; c’è il punk e c’è l’amore, con il sangue che gronda da un cuore ferito. Un po’ di cliché, ma funziona.

Muori, tu che muori per amore.

Che sia un lamento, un ordine, un’invocazione, va bene lo stesso. Note sparse: il pezzo è davvero corto, e non ho ben capito la funzione degli ‘yeah’ di matrice hip-hop.

Sufrimiento si apre con un riff riuscitissimo che ci catapulta ai tempi dei Black Sabbath, e prosegue (di nuovo, per troppo poco) a doppia velocità raccontando una poco chiara relazione di sofferenza; il già citato video da sei euro mostra una donna distruggere una Telecaster (finta) appartenente al nostro artista; chi è che distrugge il simbolo del rock? La musica mainstream? L’ideologia del profitto? Una ex-ragazza stufa di essere messa dopo uno strumento musicale? Chi lo sa.

La scala continua con linee vocali di inizio millennio; ‘scusa, se io vivo’ è un bel verso, chiaro e diretto.

Storia d’amore (part II) è il pezzo più strutturato, e forse il più interessante; ancora l’amore dal finale tragico, su una strofa mid-tempo degna di un club dalle luci soffuse; ritornello e chiusura adrenalinici.

Gli ultimi due pezzi rallentano, e tra lunghi feedback à la Lou Reed e la capatina di un piano Honky-Tonk, forse ci suggeriscono chi ha distrutto la Telecaster del povero Johnny:

Tu che ti sogni sposa, io di fuggire fuori.

Non serve più il dottore, hai vinto tu!

Venendo al risultato complessivo del mix, gli strumenti sono ben definiti e riempono con potenza tutta la gamma dell’udibile: le svariate take di chitarra hanno naturalmente il ruolo protagonista, fornendo il tappeto armonico su cui appoggiare la linea vocale.

In definitiva i pezzi sono semplici e diretti; il citazionismo fa piacere, ma alla lunga può stancare se non si è amanti del genere. La volontà di essere alternativi, la scelta di campo, rischia di essere un limite: per ora Johnny DalBasso in Cannonball ha tuttavia dimostrato intelligenza, ricaricando di significato i suoni e le forme del passato, e c’è da augurarsi che continui con la sua ricerca musicale senza porsi barriere.

 

  • Giovanni Seltralia

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