Venerdì 12 luglio la sonnacchiosa estate musicale abruzzese è stata squassata da un lampo, il live di Ben Harper
È l’ora del crepuscolo a Chieti, o se volete, dell’aperitivo, mentre risalgo il Corso Marrucino alla volta dell’Anfiteatro della Civitella. Chieti a quell’ora è una piccola meraviglia: circondata da antichi palazzi nobiliari e portici, punteggiata da vecchie botteghe con le insegne in lamiera verniciata di una volta e col sontuoso Caffè Vittoria che ricorda la Belle Epoque, Chieti sembra quasi una via del centro storico romano teletrasportato tra le colline d’Abruzzo.
Mi dirigo, costeggiando la bella villa comunale, verso la mia meta. Il concerto di Ben Harper mi incuriosisce particolarmente. In un’epoca di live che cercano il più possibile di ricalcare il lavoro in studio, l’artista californiano rappresenta una abbagliante eccezione. Curvo sulla sua lap steel guitar, immobile e concentrato, fuori dagli usi del momento e per questo sempre di moda. David Foster Wallace avrebbe definito un concerto di Ben Harper quasi un’esperienza religiosa.
Il live è organizzato dalla Best Eventi, so già quindi che filerà tutto liscio. Dai mastodontici camion parcheggiati all’esterno alla sicurezza sparsa ovunque, dagli addetti impegnati a svitare i tappi delle bottigliette da mezzo litro a un pubblico che più variegato non si potrebbe, l’antico anfiteatro brulica di umani come ai tempi dei gladiatori.
Con una decina di minuti di ritardo accademico – non abbastanza per le torme di ritardatari che si affrettano birre alla mano – Ben Harper coi suoi fedeli Innocent Criminals fa il suo ingresso alle 21 e 10. Jeans, camicia e cappello bianco, Ben non sembra certo curarsi dell’outfit, a maggior ragione a 50 anni, dopo quasi trenta passati a calcare le scene.
L’illuminazione è scarna e, voltandomi verso le gradinate che sembrano scendere a precipizio, apprezzo la bellezza dello scenario. Per una volta le parole dell’artista – beautiful location – non suonano false. Del resto in California di anfiteatri romani non ce ne sono.
L’attacco è affidato ad alcuni classici del primo repertorio, Excuse Me Mr. e Burn One Down, seguiti da Don’t Give Up On Me Now e The Will To Live, tutte suonate con la Gibson a tracolla e con grande apporto del percussionista Leon Mobley che, Dio sa perché, si aggiudica le prime ovazioni di un pubblico da subito entusiasta.
Quasi tutto, almeno.
Già, perché se mi guardo intorno non mancano curiosi quadretti. Sulla poltrona davanti alla mia un’anfetaminica ragazza dai lineamenti asiatici continua a dimenarsi – ostruendo l’obiettivo della mia macchina fotografica – mentre un’altra giovane balla e canta a squarciagola tutti i pezzi, abbracciata a un ragazzo che sembra la copia di Ben Harper dopo una cura iperproteica. Ma la mia attenzione è attirata da un signore che avevo già notato alle mie spalle all’atto di ritirare l’accredito; di mezza età, vestito come un impiegato del catasto, somiglia a Italo Calvino e se ne sta a osservare l’esibizione con un immutabile cipiglio. Starà gradendo oppure no? Non è dato sapere.
Sul palco è il momento di Juan Nelson, corpulento e fenomenale storico bassista della band. Con una voce di una potenza inesplicabile, regala una cover di Buddy Miles, l’altrettanto corpulento batterista della Band Of Gypses di Jimi Hendrix, Them Changes. È una performance semplicemente favolosa.
Ben Harper riprende il controllo del palco e il live entra nel vivo. Alternando la Gibson alle sue Weissenborn lap steel – suonate da seduto – snocciola classici come la contagiosa Steal My Kisses, Alone e Please Bleed.
A questo punto è il momento di rallentare con una manciata di pezzi acustici, per sola chitarra e voce. Anche se la scelta dei pezzi non è particolarmente accattivante – Deeper And Deeper, Forever – in questi momenti si ha chiara la percezione di essere davanti a uno dei cosiddetti mostri sacri. Harper ipnotizza il numerosissimo pubblico; nell’anfiteatro non vola una mosca e gli spettatori paiono seguire quasi col fiato sospeso.
La band rientra e ci avviamo alla conclusione con un’ultima parte dal tenore vagamente più blues, specie nella stupenda Call It What It Is, inno contro il razzismo a stelle e strisce e vero diamante nel songbook del californiano; spettacolare, in questo brano, il batterista Oliver Charles. E, a proposito di diamanti, la chiusura è affidata a Diamonds On The Inside, pezzo del 2003 dove Harper, veleggiando tra Neil Young e i Beatles, scrive la canzone perfetta.
Il pubblico è in delirio, tutto in piedi, quando l’immutabile rito dei bis vede il rientro dei quattro musicisti per un ultimo, infuocato, set. Ed ecco così versioni dilatate, con la lap steel di Ben in prima linea, di Glory & Consequences, Machine Gun di Hendrix e una sontuosa Superstition di Stevie Wonder.
Il pubblico salta, balla e si dimena.
Tutti tranne il nostro Italo Calvino che come era apparso è sparito, e una signora che siede due posti in là. È venuta ad accompagnare la figlia adolescente, una ragazza evidentemente dai buoni gusti musicali, il cui outfit è stato apparentemente scelto da una fashion blogger daltonica, che balla poco più in là. La mamma rimane seduta; pare soddisfatta – del resto la figlia poteva essere appassionata di trap, per dire – ma se ne sta nella sua bolla a scorrere ricette di Giallo Zafferano sullo smartphone.
Ecco, per darvi la statura di Ben Harper live e di come, immobile sulla sua lap steel, riesca a infiammare tutti i presenti, mi volto mentre esegue Superstition e anche la signora è in piedi che batte le mani a ritmo.
Questa è l’immagine che mi porterò dietro di questo splendido – e quasi mistico – concerto.
E una riflessione.
Ben Harper ha discendenze afroamericane, Cherokee e lituane; la bellezza della sua arte è la dimostrazione palese di quanto l’incontro tra le culture possa partorire risultati imprevedibili e meravigliosi.
A cura di Andrea La Rovere
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