Max Gazzè, uno dei più dotati cantautori italiani contemporanei, ha da poco pubblicato Alchemaya, ultima fatica, contenente anche il brano presentato a Sanremo, La leggenda di Cristalda e Pizzomunno.
Si tratta di un doppio CD, per un totale di 27 brani: un’opera mastodontica.
Gazzè ha definito il suo album un’opera “sintonica”, in quanto la commistione di elementi sintetici e di musica classica è l’elemento portante. Operazione già ampiamente documentata e spesso svolta, con risultati più o meno felici: Synthesis degli Evanescence, il live di Battiato intitolato Un soffio al cuore di natura elettrica del 2005, numerose opere post rock quali ad esempio Raise your skinny fists like antennas to Heaven dei Godspeed you! Black Emperor, Helios/Erebus dei God is an Astronaut, gran parte della discografia dell’islandese Valgeir Sigurðsson e del compositore Philip Glass; certo, è indubbiamente la prima volta che un tale esperimento viene tentato in Italia, con tanto di materiale inedito, paese storicamente diffidente alle commistioni e alla complicatezza concettuale. Inoltre, la componente progressive, non nella realizzazione, ma nella genesi dell’opera, è sicuramente stata fondamentale.
Alchemaya è, prima di tutto, un viaggio: un viaggio nell’escatologia che parte dall’origine, dall’ombelico della civiltà, ripercorso tramite le leggende di coloro che furono prima di noi: potrebbe essere la colonna sonora di un codice alchemico del Rinascimento, della vita di uno studioso della pietra filosofale. Un Codex Gigas della civiltà moderna (viste anche le dimensioni monumentali dell’opera).
Alchemaya è teogonia e cosmogonia, la sua essenza sottende il creato come lo conosciamo: tale compito è svolto riportando la musica, spesso semplice strumento economico dato in mano a donzelline e gaglioffini che non la meritano, alla sua origine, alle sue particelle elementari, seguendo le regole immutabili, universali ed imperiture, della meccanica quantistica musicale. Da lidi e tempi lontani arrivano anche gli interpreti di Alchemaya: i cinquanta musicisti della Bohemian Orchestra di Praga. Impeccabili strumentisti laddove, nei tanti album che il mercato sforna continuamente, ci si limita a suoni campionati, alla mera pressione del tasto di un piano elettronico. Alchemaya è filosofia, mescola sapientemente elementi culturalmente ricercati e facilmente fruibili, al fine di creare l’effetto teatrale e straniante che l’ascolto, attento, dell’album, conferisce. Alchemaya parla di Gilgamesh, parla di Shiva, parla dell’Enuma Elish, con linguaggio dal registro elevato e raffinato: Gazzè canta di divinità morte e di leggende dimenticate con la sua voce monacale, che, va detto, ogni anno che passa lo avvicina sempre più a Battiato.
Alchemaya, va premesso, è la vetta artistica di un’intera carriera. Una monade liberata. Una creatività colorata, vivace, ispirata, fatta musica. Ma, anche, superbamente elitaria. È la concretizzazione di un concetto che in molti pensano ma che in pochi dicono: l’arte viene appieno goduta solo da chi può comprenderla.
Si parte con l’Origine del Mondo: enigmatico testo, una profezia misterica, comprensibile solo agli adepti. L’intro è magistrale: un crescendo di violini, timpani e fiati, che lascia incantati.
Spero che non voglia o che voglia per sempre
il contrario dei sogni è l’origine del mondo
l’impostazione del brano, è, però, tradizionale. La chiave resta sempre la stessa, il tempo è un regolare 4/4, eppure la maestosità fornita dagli accordi maggiori e dall’ariosità degli archi e dei fiati evoca grandi divinità intente a spianare montagne, aprire oceani, correre come su una corda sull’equatore, ed infine, campane delicate, riposare oltre le colonne d’Ercole. La concretezza, nella leggenda, viene appunto ricercata tramite tale brano, da Gazzè: i sogni vanno fatti realtà. Il contrario del sogno è la realtà. Il sogno può esserne l’origine, ma mai la realizzazione. Eru Ilùvatar ha parlato ed ha creato Tutto. Ultimo verso del brano è riferito ad una verità in balia di qualsiasi evento esagonale: importante è in numerologia il ruolo dell’esagono magico.
Si prosegue con Enuma Elish (“quando in alto”), brano ispirato all’omonimo poema accadico e babilonese sulla creazione, i cui primi venti versi recitano:
Quando (enu) in alto (eliš) il Cielo non aveva ancora un nome,
E la Terra, in basso, non era ancora stata chiamata con il suo nome,
Nulla esisteva eccetto Apsû, l’antico, il loro creatore,
E la creatrice-Tiāmat, la madre di loro tutti,
Le loro acque si mescolarono insieme
E i prati non erano ancora formati, né i canneti esistevano;
Quando nessuno degli Dei era ancora manifesto.
Nessuno aveva un nome e i loro destini erano incerti.
Allora, in mezzo a loro presero forma gli Dei
Un arpeggio di pianoforte ed una serie di distorsioni elettroniche di sottofondo accompagnano la voce di Gazzè, un narratore di un mondo ancora inesistente, ma che si concretizza attraverso le sue parole. La sorpresa filosofica della canzone sta nel fatto che, alla fine, si comprende che il cantante non fa altro che narrare il punto di vista dell’uomo sulla divinità: dei stanchi, laddove l’Uomo è la realtà e l’idea.
Il Diluvio di tutti interrompe l’idea musicale di Enuma Elish e riprende l’ideale filo rosso de l’Origine del mondo: l’antropocentrismo superbo e nietzschiano che si comprende al termine della canzone precedente è cantato, e condannato, nell’estrema punizione divina nei confronti dell’uomo, quel Dio geloso e vendicativo dell’Antico Testamento (Dei troppo umani e uomini schiavi di immonda gelosia); viene paragonato ciò al tragico termine della raffinata civiltà atlantidea, effige del superomismo antico. Il diluvio è un tema ricorrente in tutte le culture, e tale ecumenismo culturale è ben espresso nel brano, la cui struttura è via via più complessa, fornendo, appunto, quello spunto progressive. Archi primitivi e sincopati, assieme ad un angoscioso arpeggio al pianoforte, quasi goccioloni che cadono, aprono alla narrazione del cataclisma: la componente elettronica si fa via via più presente, suoni distorti appaiono nel background, a dare l’idea dell’affondamento di Atlantide nell’oceano. Da metà canzone, cambia l’accordo di riferimento e l’arpeggio di piano di base, nonché gli strumenti principali, ora i fiati: Noè è già nell’Arca, non resta che guardare la pioggia cadere. L’esplosione orchestrale finale descrive pienamente la salvezza dell’umanità dovuta proprio a quella divina punizione.
Le idee musicali precedenti sono fuse assieme in Vuota Dentro, una marcia funebre di percussioni e timpani che sembra uscita dalla discografia di Battiato: viene narrata la tragedia cosmica, in fiati e dalla voce inquietante e distorta di Gazzè, un cantastorie oscuro appartenente ad una stirpe estinta. Ed è la volta di Shamballa, il misterioso mondo sottorreaneo narrato da poemi indiani, posto al centro della Terra ed illuminato da un sole eterno. Eulero, famoso matematico ed alchimista, ne postulò anche il diametro, in 1000 km. Luogo mitico ed utopico, regno di luce, perfezione, bontà, il suo ingresso fu insistentemente cercato in Brasile (come ci ricorda Gazzè) e in Antartide dalle truppe naziste. Il finale elettronico, percussioni sintetiche e campane distorte, regala un senso enorme di mistero ed inquietudine.
Tale contrasto di emozioni è proseguito con la breve L’Anello Mancante, il cui testo parlato di ispirazione cabalistica narra della creazione di Adamo, e, dunque, di tutti gli uomini: siamo dunque creature divine, dotate di uno scopo, non nate dal caso. Il sottofondo elettronico è da documentario, suoni evanescenti e distorti, che focalizzano l’attenzione dell’uditore sulla voce dell’artista.
In Etereo tornano le ispirazioni orchestrali, con un violino solista e molti, sincopati, di supporto, che si fondono ad un sintetizzatore classico: ariosa, gioiosa, e leggera, il testo ermetico si presta a molteplici interpretazioni, ma la più probabile è che il soggetto dei versi sia l’anima, o la sua ricerca, di fronte alla nullezza della superbia dell’esser perfetti. Presenti, a metà brano, violini arabeggianti, in perfetta commistione col testo, che è strutturato come una Sura del Corano.
Non tu schiuma dialettica
foschia inferiore
m’adorni l’inconscio e lo scavi
io miglioro nel tempo
Tu resti allibita
in seno al mutamento
come se non avessi un corpo
maledetto etereo sostegno
La Tabula Smaragdina è, invece, un famoso manufatto arabo, presumibilmente da un originale egizio, al quale gli alchimisti fanno risalire il loro ordine; nuova fortuna ebbe il testo durante l’ottocento, con la nascita dell’ermetismo filosofico. Ermete Trismegisto, misteriosa figura nominata nella Tabula, è una divinità sincretica egizio/greca, ideale autore del Corpus Hermeticum. Da tale sfondo alchemico Gazzè trae ispirazione per la Tavola di Smeraldo, settimo inedito di Alchemaya. Egli impersona Ermete stesso, mescolandone i dogmi, quali il culto del numero dieci, dell’acqua guaritrice, dell’immortalità: un conte di Cagliostro più adulto e più concreto, immortale profeta del mondo che sarà. Il brano inizia al piano, con un arpeggio semplice sorretto da sirene elettroniche in lontananza ed archi; fiati e delicate percussioni accompagnano il cantato nella strofa. Nonostante il tema portante, il brano risulta meno d’effetto degli altri, soprattutto se paragonato a L’origine del mondo. Dal primo refrain in poi, appare il theremin, mano mano che il mistero si fa più profondo. Il brano si chiude con un’immagine orfica: immortali, vecchissimi, saggi, che si abbeverano alla fonte dell’eterna giovinezza. E pare quasi udire lo scroscio dell’acqua.
Energica è Visioni ad Harran, maestosa aria classica che fonde elementi lovecraftiani, rappresentati dgli strumenti sintetici (si ricordi la novella della Città Dimenticata, più antica del tempo stesso) e archeologia: Harran è infatti Carre, antica capitale del regno dei Parti, ossia l’eterna nemesi dell’Impero Romano, presso le cui inespugnabili mura persero la vita innumerevoli condottieri. Gazzè è un viaggiatore abbandonato da Dio, che, in realtà, ha abbandonato, dopo la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, l’intero pianeta. Il narratore è l’ebreo che guarda nella vuota Arca dell’Alleanza, è Mosè che infrange le tavole della Legge, è Lucifero che si inabissa nel profondo, è l’uomo che cerca lo Spirito Santo in ogni colomba (“Dio transita a volte in qualcosa che vola”). Perfetta commistione fra aria classica e elettronica minimal estremamente raffinata, Visioni ad Harran è il miglior brano dell’album. La chiusura, evocativa ed allo stesso opprimente, evoca pensieri abissali. L’eterno ritorno dell’uguale.
Un netto stacco si ha con Bassa Frequenza: ermetica la voce di Gazzè, accompagnata solamente da un sottofondo di rumore di interferenza elettromagnetica. Incerta l’interpretazione: si parla di artefatti nel deserto, che, ora, paiono senza significato, come un’interferenza. Magari con un’altra dimensione?
Gli oboe e i clarinetti aprono Alchimia, cui poi si aggiunge il corno francese: e sembra tratta da un’opera di Verdi. Coloratissima e gioiosa, il felice alchimista nel suo laboratorio, tra le sue storte ed i suoi alambicchi, alla ricerca della verità. Barocca, è un’ode alla vita, l’elemento fondante dell’universo, che lo permea, in una visione olistica estremamente positivista. Nel finale, archi sincopati e fiati maestosi, l’alchimista compie il perfezionamento dell’uomo: la creazione della pietra filosofale, e la sua capacità di trasformare il ferro in oro.
Si torna al ventunesimo secolo con Il Progetto dell’Anima, ultimo brano del primo atto. Elementi elettronici che richiamano una megalopoli, clacson e bip, ed un delicato pianoforte, ne rappresentano l’intro. Poco chiaro, perfettamente ermetico, è il testo: si rimanda alla ricerca della concretezza, all’unità d’intenti, così dispersi e frammentati nel mondo attuale. Vengono nominati due gruppi giudaici: i farisei, rigidi ed ottusi applicatori dei precetti religiosi, e gli esseni, cui il narratore tende, misteriosa etnia (ovviamente molto amata dagli alchimisti), che produsse i famosi testi di Qumran, dedita all’uguaglianza, in sintonia gli uni con gli altri. Campanelle ed arpa accompagnano l’assolo strumentale finale, elegante e solenne, che chiude il gigantesco progetto filosofico di Gazzè. Il bip di una sveglia digitale chiude la canzone, quasi fosse la fine del sogno del narratore.
Il primo atto di Alchemaya si chiude con un’enorme dubbio: tutta questa letteratura, tutta questa filosofia, questa tensione all’eternità, questo rimestare nella danza delle sfere e tentare di accordarsi ad essa, a quali domande dovrebbero fornir risposta?
La risposta, ma non la domanda, viene fornita con la canzone presentata a Sanremo, La Leggenda di Cristalda e Pizzomunno. Ossia, semplicemente, l’amore eterno. Quanto contano i testi esoterici di fronte all’innamoramento? L’eternità dell’attesa per l’amata, di fronte alle false promesse della pietra filosofale e ai fumi del mercurio? Ad un amore così eterno da modificare la terra? Bellissima ballata al pianoforte e all’arpa, con leggero accompagnamento di archi, orecchiabile quanto basta per essere una hit, dà i brividi e riempie gli occhi di lacrime di fronte alla tragedia consumata dalle crudeli sirene. Avrebbe meritato la vittoria.
L’atto due trasforma i grandi successi di Gazzè, quali Sotto Casa, Il Timido Ubriaco, Edera, Una Musica può fare, il Solito Sesso, Mentre Dormi, Atto di forza, Ti sembra normale, La Vita com’è, L’ultimo Cielo, in opere sintoniche, grazie ad ottimi arrangiamenti, abbandonando il semplice pop che al cantautore sembra stare tanto stretto: liberando dai vincoli dell’armonia e dell’orecchiabilità, della semplicità compositiva, restituendo la vera anima a melodie che si confondevano nel marasma della musica contemporanea. Sebbene di classe, il pop di Gazzè non è mai stato così libero e sincero come lo è in versione sintonica. Presenti sono delle riedizioni da Maximilian, precedente album del cantautore, definito tronco, non completamente distaccato dal pop, ossia Nulla. Proprio Nulla viene assunta ad elegia dell’amore laddove la leggenda di Cristalda e Pizzomunno ne era l’eterna promessa: e trasmette ciò che era stata concepita per essere, il canto di un cuore infranto. Se soltanto, altro inedito, è composta assieme al fratello, frutto del legame fra i due, ed è stata prodotta durante il tour del 2017 di Alchemaya. Ballata al pianoforte, reale confessione d’amore adulto e delicata allo stesso tempo come una rosa sotto la pelle, sarà il prossimo singolo da Alchemaya (o almeno spero): potente come fu Perdere l’amore, raffinata come solo i grandi cantautori sanno fare. Il finale è un notturno malinconico, un cabaret oscuro.
Un Brivido a Notte è l’ultimo inedito dell’album: un testamento lunare di un uomo stanco narrato sotto il suono di un carillon di una giostra, intonato e sporcato da archi che dissacrano la tranquillità notturna.
Verso un altro immenso cielo, filastrocca che riprende il tema della notte, era l’ultima canzone da Maximilian, un ¾, un valzer divertente e tragico, come in Italia non se vedevano: una canzone dark cabaret alla Dresden Dolls, Gazzé diviene Amanda Palmer e fugge nel mondo vittoriano nella prima parte della canzone. Accordi maggiori e poi diminuiti, in archi e pianoforte, guidano all’ascensione, alla definitiva consacrazione del cantautore come compositore. La musica, eterna regina, è lei a guidare, è lei a definire il mondo: è l’arte a rendere l’uomo tale.
Per qualità compositiva, ricerca culturale, ricchezza dei testi e delle orchestrazioni, Alchemaya non è altro se non un capolavoro. Restare indifferenti risulta impossibile. È un viaggio dentro al nostro mondo ma anche dentro a Gazzè stesso, che, pur non mettendosi a nudo, non lesina nulla di sé e del proprio, finalmente, libero, talento. Il culmine di una carriera.
Giulia Della Pelle
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