Unknown Pleasures è un LP dei Joy Division – band britannica durata lo spazio di un biennio, per poi evolvere in altre band come New Order – considerato da sempre una delle pietre miliari del rock mondiale. Padri del post punk, sul finire degli anni settanta hanno lasciato una pesante eredità alle generazioni di artisti successive
“Unknown Pleasures”, letteralmente “piaceri sconosciuti”. Sempre la solita vecchia storia quando si avvicina Natale e la sua corsa sfrenata alla frenesia di regali e cotillons. A costo di sembrare il solito Grinch odiatore, io ancora sono alla ricerca di questo Unknown Pleasures, così stasera – nell’ennesima confort zone rifugio da discopatica malata di vinile – provo a chiedere aiuto ai Joy Division.
Compio così il mio solito rito della settimana, e voi siete pronti ad eseguirlo insieme a me? E allora su la testina del giradischi e via con l’ascolto di Unknown Pleasures. Non prima di aver scelto il mio fedele compagno di ascolti, una Menabrea rossa – Christmas Edition, un graditissimo regalo anticipato di Natale (o posticipato visto che potrebbe esserlo di compleanno), dall’accentuato gusto amaro, proprio come è questo vinile.
Con addosso la felpa che ha impressa la copertina di questo album, riempito il classico calice da birra contenuto nella confezione regalo, sono pronta all’ascolto di “Disorder”, primo brano di Unknown Pleasures.
“Potrebbero queste sensazioni farmi provare il piacere di un uomo normale? Nuove sensazioni mi interessano appena per un altro giorno. Ho lo spirito, ho perso i sentimenti, allontano via lo shock.”
Uomo normale sembra essere la parola chiave. Ma chi era Ian Curtis, frontman ed anima del gruppo? Un uomo dai piaceri sconosciuti, senz’altro, ma anche un’anima inquieta, con passioni ed idolatrie che scadevano spesso nel macabro. A partire dal nome della band scelto: Divisione delle Gioie era infatti uno spazio dei campi di concentramento in cui i nazisti abusavano delle deportate ebree, nazismo di cui Curtis pare essere stato appassionato. Una personalità vittima di una patologia seria come l’epilessia, che teneva a bada grazie ai farmaci, ma che lo faceva identificare egli stesso come un “diverso”, evidentemente incapace di provare piaceri da uomo normale.
Una curiosità mi sovviene: chi di noi può avere la presunzione di autoproclamarsi “normale”? Nessuno dovrebbe.
Ma mentre questa domanda da esistenzialista dei poveri mi trapana la mente è il momento del secondo brano di Unknown Pleasures, “Day of the Lords”, spazio soprattutto alla frase
“Non c’è spazio per i deboli, nessuno spazio per i deboli”
ripetuta lenta e pesantissima, come è tutto il brano con il quale si entra nella stanza del dark più cupo e desolato. Dal buio le tastiere sparano fasci di luce, ma è luce tagliente e lancinante, una pura visione apocalittica. La chitarra ruvida e grezza risuona come ferraglia abbandonata ai margini di una periferia industriale come quella di Manchester, dalla quale provengono i quattro musicisti. Quasi sparisce il basso che invece ha fatto da padrone nel primo brano, a sovrastare persino la voce di Curtis.
Ma in fondo cos’è la debolezza? Mi viene in mente un saggio che ho letto un po’ di tempo fa, del sociologo Bauman, “La Società Liquida”, quella che è dominata dalla “cultura dell’adesso” e dalla “cultura della fretta”, che spesso impediscono all’individuo di distinguere, nella quantità esponenziale di informazioni che riceve, quali siano affidabili e quali dubbie, ciò che è prioritario da ciò che è secondario, ciò che è stabile da ciò che non lo è. E’ come se, mosso dal mito della fretta, l’individuo perdesse di vista se stesso o, peggio, non si prendesse il tempo necessario per costruire se stesso e la propria personalità; per comprendere quali siano i suoi obiettivi, i suoi interessi, le sue aspirazioni; per instaurare relazioni interpersonali gratificanti. Aspetti tutti portatori di un equilibrio emotivo e di una stabilità che si mantengono nel tempo. La “società liquida” è quindi portatrice sana di paura. Paura che sta alla base dell’insicurezza percepita dagli individui, che vivono la sensazione di camminare su delle sabbie mobili in cui affiora una forte ansia, spesso ingestibile. Fino ad arrivare a compiere l’estremo gesto del suicidio, sopraffatti da tutto ciò, come insegna lo stesso Curtis, morto impiccato a soli ventitrè anni nella sua casa di Manchester.
“Che allegria questa sera”, penserete, mentre scorre il terzo brano di Unknown Pleasures, “Candidate”. La voce carica di effetti robotici del cantante enfatizzata da cadenze ritmate delle parole del brano, sono amplificate dalle tastiere che sporcano il giù tetro ambiente dark con interventi sinistri e ricchi di angoscia.
Un lungo sorso alla mia Menabrea Rosso Natale ed è già il momento di “Insight”, che sembra essere lo specchio riflesso della lunga settimana che mi porto alle spalle:
“Lacrime di tristezza per te; più sconvolgimento per te. Riflettono un momento nel tempo, un momento speciale nel tempo”
Circa quindici anni fa, in questa stessa stanza urlavo “Lasciami vivere” con una ripetitività quasi giornaliera, lo sbattevo in faccia a mia madre con l’insofferenza ottusa tipica dell’adolescenza, “non mi stare addosso, mollami”. Allora non avevo la maturità, o non semplicemente non ero disposta io, di calarmi nei suoi panni, di provare ad analizzare la situazione da un’altra prospettiva: la sua. Una trentenne ansiosa, immersa in una realtà in cui un pezzo di sé si stava affacciando al mondo degli adulti, alle sue insidie e alle sue disavventure, con l’inesperienza tipica di quell’età. Non capivo il perché di tanta apprensione, del resto volevo solo vivere. E come si dice? Si finisce sempre per assomigliare a chi tanto si è detestato. Adesso eccomi qua, con le sue stesse paure, un senso di ipotetico fallimento lavorativo e sentimentale ha pervaso intere giornate.E lo stesso vinile del cuore Unknown Pleasures, forse perché per me restano ancora essenzialmente sconosciuti.
Me lo dovrei ripetere anche adesso più spesso: lasciati vivere, lascia che la vita accada, non ti stare troppo addosso, con le attese, le aspettative di cosa dovresti vorresti potresti sentire. Di cosa dovresti potresti vorresti far sentire agli altri. Pensa a cosa vorresti sentire tu.
Capolavoro assoluto di Unknown Pleasures è “New Dawn Fades“, che chiude il lato A di questo vinile, tocca gli abissi più profondi e impenetrabili dell’uomo. Dopo le prime e già intense note di basso, la chitarra inanella due riff memorabili, taglienti come la più spaventosa delle lame che al contempo provoca in profondità sussulti dell’io e in superficie tende un agguato alla nostra pelle. I riff dei Joy Division in Unknown Pleasures, ora di chitarra ora di basso, ora di entrambi a rincorrersi o sovrapporsi, sono una delle chiave di lettura della forza della loro musica. Una semplicità assoluta, poche note, ripetute implacabilmente, che distruggono ogni resistenza come gocce d’acqua che nella loro caduta inesorabile e sempre uguale intaccano ogni materia, corrodendola.
Pausa doverosa in questa cupa serata di (quasi) ferie natalizie, cambio lato del vinile e mi cade l’occhio sulla mia felpa, raffigurante proprio la cover di Unknown Pleasures. Sempre a proposito di Società Liquida, avete notato come è cambiato anche il panorama musicale odierno? Nell’epoca delle playlist e dello streaming, dove il supporto fisico sembra essere quasi un vezzo, un vizio da collezionisti, negli anni a venire cosa rimarrà di questo decennio in musica? Invece ci sono state generazioni che hanno dettato le mode dei tempi e del futuro. L’immagine iconica creata da Peter Saville per Unknown Pleasures, che compie nel prossimo anno ben quaranta primavere, è una copertina nera su cui si staglia una misteriosa immagine bianca. Nient’ altro. L’immagine originale, proposta insieme ad altre dalla band, proviene dalla Cambridge Encyclopedia Of Astronomy. si tratta di un grafico comparato delle frequenze del segnale proveniente da una pulsar o stella di neutroni. In particolare dalla prima pulsar scoperta, la CP1919. In una intervista al Guardian Saville aggiunge: «è un’immagine sia tecnica che sensuale. È tesa come la batteria di Stephen Morris ma è anche fluida: molti sono convinti che rappresenti il battito del cuore».Nel 2007 l’album Unknown Pleasures viene ristampato aumentando la già inesauribile forza evocativa e virale della sua copertina.
Intanto “She’s Lost Control”, primo delle b-sides di Unknown Pleasures, fa sentire il suo pieno peso in queste pareti. Un brano che sembra essere stato scritto per l’alter ego al femminile di Curtis, un testo che prende come spunto gli attacchi epilettici di una donna conosciuta nel centro di cure per questa patologia che anch’egli frequentava, che non riusciva a trovare lavoro a causa della sua diversità e delle sue esigenze fisiologiche di cure. Insomma un brano che parla della stigmatizzazione sociale, vera piaga di ogni popolo ante tempo. Non si emargina soltanto il soggetto ritenuto pericoloso o poco affidabile, spesso si emargina anche il diverso o colui che non si adatta perfettamente ai canoni seguiti dalla generalità. Eppure la nostra unicità e specialità è fatta proprio di differenza dal solito e dall’abituale. Vestirsi o pettinarsi in maniera diversa non è sintomo di pericolosità eppure viene spesso percepita con una forma di intolleranza e insofferenza. Chi ne soffre di stigmatizzazione oltre a trovarsi ingiustamente classificato da dei pregiudizi si trova completamente isolato da una barriera mentale che crea più distanza e difficoltà dell’incapacità oggettiva stessa. In quarant’anni nulla è cambiato. “Shadowplay”, brano reso famoso dalla cover dei The Killers per il film “Control” è rabbiosa, con una introduzione di basso al limite della distorsione. Il solo di Albrecht è come un riff dilatato e mantiene una leggibilità melodica che stempera momentaneamente la tensione del brano.
“Nel centro della città dove tutte le strade si incontrano ti aspetto. Nelle profondità dell’oceano dove tutte le speranze sprofondano ti cerco. Mi muovevo nel silenzio senza movimento aspettandoti”
Mentre le note di “Wilderness” scorrono in sottofondo, un senso di nichilismo mi assale. Apro le bozze del telefono e leggo un messaggio da me stessa scritto qualche giorno fa, in preda ad un isolamento forzato, e mai inviato. “Sono sul terrazzo, quello su cui sogno di vedere ogni alba con te, io che dei tramonti non ho mai amato il loro essersi già svelati, ma nelle albe ho sempre riposto molte speranze di giornate indimenticabili. Niente istinti suicidi, non temere. Solo malinconia. So che sei da qualche parte li fuori e ti penso. Non ho il coraggio di dirtelo per paura di perderti. Paura che tu non mi crederesti. Ma in fondo è impossibile perdere qualcuno perché siamo tutti soli!”. Assolta nel solito limbo del cedo-non-cedo, è il momento di “Interzone” che farà da ponte all’ascolto dell’ultimo brano di Unknown Pleasure, il vero capolavoro dell’intera opera, “I Remember Nothing“. Lenta e pesantissima, sei minuti di tensione e atmosfera dark. La batteria costruisce il tappeto ritmico su pochi, inesorabili colpi; il basso è di una cupezza insostenibile con singole note pesantissime. I tempi dilatati e le sovraincisioni permettono a Curtis di esprimere l’angoscia interiore rincorrendo la propria stessa voce. Il tappeto di tastiere crea una permanente tensione da thriller che non riesce a trovare sfogo e in questo impasto sonoro cupo, l’infrangersi improvviso di oggetti provoca sussulti alla coscienza di chi ascolta. E sono fustigate esistenziali che lasciano piaghe aperte, per sempre.
Il vinile Unknown Pleasures finisce così, nei suoi trentotto minuti di cupezza, ma io ho ancora bisogno di Joy Division e di modernità. Apro spotify sul cellulare, meditando ancora su quella bozza di messaggio, e la risposta di Curtis e soci arriva tranchant: “Love Will Tear Us Apart”, l’amore ci farà a pezzi.

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