Film di indubbio pregio, Vice – l’uomo nell’ombra è l’ultima fatica di Adam McKay, che vede la partecipazione di Christian Bale, Amy Adams e Sam Rockwell, in un sarcastico film-documentario, dalla colonna sonora di Nicholas Bretell.
Vice – l’uomo nell’ombra è l’ultima sorpresa che il 2018 ci riserva. Se da un lato abbiamo il trasformismo di Rami Malek, in questa stagione cinematografica, dall’altro abbiamo quello di Christian Bale, alias Dick Cheney, politico di spicco dei primi duemila negli USA.
- Dick Cheney
- Christian Bale
Il film ripercorre la scalata alla Casa Bianca da parte dell’inizialmente – anche se, in realtà, un po’ sempre – ciccione, Dick Cheney, ragazzo del Wyoming, fidanzato con Lynne Ann Vincent, un’agguerrita Amy Adams imbellettata di biondo. Studia scienze politiche, e pertanto è esentato dalla leva per la Guerra del Vietnam, con scarsissimo profitto: d’altro canto, Lynne è studentessa modello. Una bella notte, viene trovato ubriaco alla guida e prontamente arrestato. Da lì a poco, mentre giace abbandonato sul divano di casa di Lynne, Dick riceverà la più feroce ramanzina della sua esistenza, e lancerà un’altrettanto feroce scalata allo studio ovale.
Saltando svariati anni e capelli perduti, Dick diviene portaborse inizialmente di Donald Rumsfeld (Steve Carell), advisor economico del governo Nixon I, poi, fra un sorriso sghembo, gravidanze di Lynne, favoritismi alle aziende petrolifere e carbonifere, addirittura capo del gabinetto.
Il film, dunque, si occupa dei retroscena – probabilmente inventati – della vita di uno degli shadow man più influenti della storia moderna. Dick Cheney, infatti, si scopre nell’ultima parte del film, è stato il reale presidente dietro la debole e malaticcia figura di George W. Bush (Sam Rockwell, già Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri e Moon), imbelle e drogatello figlio del più glorioso padre, come suo vice presidente. Giocando, infatti, su alcuni punti oscuri della grande Costitutizione statunitense, Cheney – che nel film viene presentato come un automa della Causa – assurse ad una sorta di potere assoluta e di pedina regina, in grado di muoversi attraverso le fitte reti della burocrazia e di scavalcare spesso l’autorità presidenziale. Sorrisi sghembi, grandi scenari sanguinosi, si aprirono il tragico giorno dell’11 settembre nel bunker sotterraneo: laddove tutti videro strazio, Cheney vide un’opportunità.
Il suo cuore – quello del vero Dick Cheney – non appartiene più a lui. Forse troppo marcio, nero per le sigarette ed il grasso delle ciambelle, per battere ancora, ne ricevette uno nuovo nel 2012. Nel film riceve quello del povero Kurt (Jesse Plemons, il cattivo dell’ultima stagione di Breaking Bad), tristo narratore, veterano della seconda guerra del Golfo – quella così fortemente voluta da George W. Bush, nella mendace convizione che ci fosse Saddam Hussein, in combutta con Osama Bin Laden, dietro l’11 settembre. Ovviamente, Cheney si dichiarerà sempre e per sempre favorevole all’impiccagione del leader iraqeno, avvenuta poi nel 2006 ai danni di un uomo anziano e malato – e che non aveva assolutamente traccia di arsenale atomico all’interno dello stato del Tigri e dell’Eufrate. Abu Musab Al – Zarqawi, un uomo da nulla fino alla sua creazione da parte di Cheney & soci dopo l’11 settembre, avrebbe poi fondato l’ISIS, alias Stato Islamico, a.k.a. Daesh, sulle ceneri della sua vita passata e sull’odio che tutto distrugge.

Poster dei personaggi.
Vice è un duro documentario. Quasi soffocante, nelle aule della Casa Bianca, nei vestitini di Lynne, nella sofferenza della loro figlia omosessuale: una vera e propria, nonché convincente, opera di tortura per chi abbia un minimo di mentalità ecologista. Mentre Cheney – già, perché ci si dimentica di essere di fronte a Christian Bale – scala il potere, la CO2 satura l’atmosfera e le plastiche bruciano. Adam McKay, già noto per La Grande Scommessa del 2015 e che iniziò la propria carriera nel Saturday Night Live, ci dimostra una grandissima azione di regia, tanto da rendere godibile, fruibile, e modernissimo nella sua concezione quasi interattiva, un film sulla politica di quasi due ore. Siamo lontanissimi dalle atmosfere noir di Le Idi di Marzo di George Clooney, tanto più da quelle crime de La Talpa di Tomas Alfredson: in Vice – l’uomo nell’ombra ci sono le signorine dei gruppi di aiuto psicologico, in cui si insegnava all’ignorantissimo popolo americano la differenza fra talebano e terrorista, che “Islam” non è uno stato, e che bombardare l’Afghanistan a caso era sì, senza dubbio la scelta più giusta per vendicare l’11 settembre. Nel finale, una netta stoccata ai ridicoli populismi che dilagano in Europa e nella martoriata e divisa America: un uomo asserisce che, forse, alla luce dei più recenti fatti, magari, in caso, la Guerra in Iraq avrebbe potuto esser evitata. Un altro, nerboruto, titolo di studio acquisito con i punti di CostCo, lo prende a cazzotti dandogli del buonista. Cheney latrerà fino alla fine, e non chiederà mai scusa, Colin Powell (Tyler Perry) soffrirà fino alla fine e infine sparirà dalla circolazione. Amen.
La fotografia, affidata a Greig Fraser (già Rogue One: A Star Wars Story e Lion – la strada verso casa), è coloratissima e patinata, ma su tutto aleggia una certa aria polverosa – quella delle scartoffie, che dai tardi anni ’60/primi ’70, sino ai modernissimi ’00, ha contraddistinto la figura di Dick Cheney.
La grandiosa operazione complessiva quale Vice – l’Uomo nell’Ombra è, va senza dubbio anche fatta ricondurre alla sua colonna sonora, sempre azzeccata nei passaggi, dura quando necessario, evocativa e grandiosa nonostante il senso di soffocamento che Vice trasmette: opera di un novellino di Hollywood, un certo Nicholas Britell. Che in molti non conoscono, ma fu nominato agli Academy in occasione di un capolavoro di Steve McQueen, Dodici anni schiavo e musicò Moonlight, vincitore del Miglior film nel 2016; e che è alla sua seconda collaborazione con Adam McKay, dopo La Grande Scommessa.
Quel che è bene puntualizzare è che la colonna sonora di Vice è classica, come quella di Titanic. Classicissima. Evocativa di un Dick Cheney che non è mai esistito, se non come figura caricaturale di un grand’uomo di profilo, occhialuto, fortemente stempiato. Un uomo che una volta era un ometto, era grasso, aveva i capelli e installava le linee elettriche nel deserto. Da qui, il tema principale: enorme, fatto d’archi, più adatti alla nuova venuta di Gesù Cristo che entra trionfale trascinando dietro di sé immense galasse implodenti. The Lineman.
Una musica trasformista, esattamente come lo è la persona di Dick Cheney: più ispirata a Bach che ai contemporanei Horner, Richter, Howard Shore. Una serie di accordi incasellati gli uni dietro agli altri, in una visione schematica che è propria del protagonista. La colonna sonora di Vice gioca, dunque, sarcastica, sui contrasti: nel ludibrioso momento in cui viene decratata l’invasione dell’Iraq col pretesto che Saddam Hussein, che in tarda età fu prolifico scrittore di poesie e romanzi, possedeva armamento atomico, la gloriosa The Iraq War Symphony, grandiosa e neoclassica, risuona in sottofondo. Epica ma delicata, mal si sposa – appositamente – con i volti ridanciani dei pochi che decideranno un eccidio e l’invasione di uno stato sovrano.
Vi è poi un altro tema: delicato come la pelle di Lynne da giovane, dolce come le coperte che abbracciano i coniugi durante le loro conversazione notturne, ed è quello presentato in Dick’s Heart is Healthier Than Ever. Che evolve, poi, come tutto, nell’epopea della grandiosa famiglia americana: torta di mele, unità, petrolio. Sardonico e sarcastico, le camiciette da notte di Lynne e gli infarti di Dick ottengono una luce differente. La triste figura del mesto George W. Bush è poi descritta da He Wants to Impress His Father, ottoni barocchi e archi cadenzati mentre, con la bocca a forma di O e i piedi poggiati sul tavolo, l’ometto chiede a Cheney di essere suo vice. Fra le tracce più notevoli, c’è He Saw an Opportunity: mentre tutti, al tavolo da guerra, imprecano, Dick sorride.
L’unica suite di Vice, che racchiude il suo tema principale e lo estende, è Heart Transplant. Risuona nel falso finale, quello raccontato da Kurt se avesse continuato a vivere; risuona mentre il cuore nero di Cheney viene estratto dal suo petto, le costole ripiegate come dita scheletriche, e un organo malato che continua a battere solitario, su un tavolo operatorio. Uno zoom simile a quello de Il Sacrificio del Cervo Sacro, ma ricco d’odio. Heart Transplant risuona durante la morte e rinascita di un uomo che, con la vita, è in perenne debito. Ricca di contrappunti, aggiunge la giusta dose di distillato di rancore e rassegnazione alla narrazione di una biografia che, se davvero fosse andata come il giovane narratore ci voleva far credere, sarebbe stata diretta ad un mondo, ora, differente. E nella sala, di fronte a quel film, non ci sarebbero state tre persone, il giorno della prima: ce ne sarebbero state a frotte. Ad indigarsi, a piangere per vittime sconosciute. Il bisturi taglia la pelle di un cadavere, un cuore viene appoggiato nel ghiaccio, un elicottero si leva in volo: una figlia piange la perdita di sua sorella, che ne condanna la scelta su chi amare, l’ISIS invade la Siria ed un paese un tempo florido crolla su se stesso; ed i magistrali archi di Heart Transplant ancora risuonano.
Dunque, ad ora, Vice – l’uomo nell’ombra è la miglior prova di Nicholas Bretell, ed esattamente come il film ha già ricevuto candidature su candidature, ci si auspica che quest’anno la statuetta dorata sia la sua. Da degno allievo di Hans Zimmer. Del resto, Christian Bale ha già detto di essere stato ispirato da Satana, per rappresentare quel sorriso sghembo: la smorfia dell’uomo che, l’undici settembre 2001, decise le sorti del mondo intero.

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