Primi ospiti del Concertone del Primo Maggio, pronti a chiacchierare con noi prima di salire sul palco sono i The Zen Circus. Reduci dall’uscita del loro fortunatissimo album “Il Fuoco in una stanza” e con un tour in corso che ha registrato sold out in gran parte delle date, Appino e soci ci spiegano ciò che è per loro il lavoro del musicista, e quanto conti l’esperienza più che la gavetta, come non ci si possa improvvisare artisti su grandi palchi davanti a delle persone, e come le etichette di genere che vengono messe alla musica, a volte non hanno ragione di essere.
Ciao ragazzi, a differenza di molti artisti che riempiono locali con un solo disco all’attivo, voi avete ottenuto un successo graduale. Quanto conta al giorno d’oggi la gavetta in ambito musicale?
Appino: Io spero che finisca col contare sempre meno, perché quella che abbiamo fatto noi non la augurerei a nessuno. Direi che debba durare il giusto. È chiaro che un successo salubre si acquisisce se la persona ha fatto suo il gusto di andare in turnée, il gusto di esibirsi, se questo manca ci si potrebbe trovare in una situazione paradossale in cui uno si ritrova sul palco davanti ad un botto di persone, senza averci dimestichezza né voglia. Più che la gavetta è importante l’esperienza, la prima mi rende l’idea più del bracciante che del musicista, come se poi uno fosse destinato a dover suonare gratis per una vita. L’esperienza è diversa dalla gavetta: puoi essere un artigiano bravo, specializzato e sai fare il tuo mestiere perché ne hai dimestichezza.
Siete stati ospiti della nostra rubrica Gioved-INDIE e ci avete spiegato bene come – secondo voi – l’indie sia la più grande presa per culo degli ultimi anni. Di cosiddetti Indipendenti è ricco questo palco oggi, vi trovate a vostro agio in questo collocazione geo-musicale?
Karim: Indie nel senso che per noi è “musica italiana”. Ognuno ha il suo mondo. Indie mi fa pensare ad un modo per dargli un senso, ma le cose sono belle anche quando un senso non ce l’hanno. Quello che oggi viene chiamata “musica indie” per noi è “musica italiana” – mi ripeto. Oggi c’è tanta musica italiana ed è quella del Paese reale. Non c’è un genere o un sottogenere a cui vogliamo essere legati. Scrivere la propria carriera e definirla indipendente o non io penso sia un po’ fuorviante, basta parlare semplicemente di musica.
Karim mi rivolgo ancora a te, sei riuscito a “recuperare” un po’ di ascolti italiani degli ultimi anni, nel frattempo?
Karim: devo essere sincero? No. Ora mi sono intrippato con tanta roba del Mali, sto ascoltando tanta musica africana.
Appino e Ufo: è giusto che tu lo chieda a lui, visto che è l’unico che non ascolta musica italiana (risate).
“Questo disco parla di rapporti, di insuccessi, di catene che non si riescono a rompere e di quelle che non si vogliono rompere perchè stiamo bene così.”, ci avete raccontato nella suddetta chiacchierata. Dall’uscita dell’album ad oggi ne avete spezzata qualcuna?
Karim: in realtà no, perché non credo che lo si faccia con un album, ma anche con esso. Gli album sono fotografie, il lavoro su di sé è quello che viene dopo.
Appino: se parliamo di catene, anzi son diventate ancora più spesse. Quella col pubblico è diventata da nave quasi. Stiamo ricevendo un feedback dal pubblico quasi pauroso, come non mai. Come catena è ancora più salda.
Come sta andando il tour e quindi il vostro lavoro, per tornare al tema della giornata?
Appino: Inimmaginabile.
Ufo: è un tour incredibile. Sono tutti stati belli per carità, questo è un tour più grande, sale tutte piene, ma quello che è cambiato è proprio il pubblico, vedere ragazzi e non più ragazzi, dai 16 ai 50, compresi i bambini, è qualcosa che ci riempie veramente il cuore.
A cura di Lorenzo Scuotto
