“The Name Of This Band Is Smile” è il titolo dell’album di esordio degli Smile, band torinese formata da Michele Sarda voce, Hamilton Santià alla chitarra, Francesco Musso alla batteria e Mariano Zaffarano al basso.
Il loro primo disco racconta il disagio di un’intera generazione alienata e scontenta e di una città che si trova a fare i conti con un passato glorioso e una realtà sospesa, senza apparente via d’uscita.
Il chitarrista Hamilton è l’ospite di questa chiacchierata ed è suo il compito di guidarci a scoprire il sound degli Smile, che ricorda un po’ i R.E.M. e The Smiths, ma calato nel contesto della città industriale italiana per eccellenza: Torino.

“The Name Of This Band Is Smile” è il vostro album di debutto. Come me lo descrivereste?
È un disco che nasce sull’onda di un’esigenza creativa molto forte e definita, in un momento particolare delle nostre vite. Infatti è stato interamente concepito prima della pandemia e viveva di quella tensione nervosa che stavamo vivendo in quel particolare periodo storico, con quella sensazione di presente che sfugge dalle mani, le giornate sempre uguali a sé stesse; ognuno diviso nel suo piccolo lavoro precario e alienante e, quindi, nasceva come reazione a una quotidianità che pareva senza nessun tipo di sbocco. Sono tutte riflessioni e sensibilità precedenti alla pandemia.
C’è sicuramente un senso di nervosismo e rassegnazione dentro le canzoni.
Non c’è nessun richiamo al mondo del 2020, però è evidente che non stiamo parlando di sensibilità così distanti.
Il vostro percorso è iniziato ben dieci anni fa… cosa vi ha portato a tornare a suonare insieme e a fondare una nuova band?
Io e il cantante, Michele, avevamo una band al primo anno di università, quindi, ahimé, ben più di 10 anni fa e ci siamo sciolti per i soliti motivi per cui si sciolgono le band a vent’anni: sostanzialmente per idiozia!
Sapevamo però benissimo di avere un discorso in sospeso e aspettavamo il momento giusto per noi e anche di trovare la sezione ritmica adeguata. So che sembra una cosa da film, però quando abbiamo conosciuto Mariano il bassista, e Francesco, il batterista, si è creata immediatamente una certa chimica.
Con loro le canzoni scaturiscono così velocemente che ti fanno capire che è stata la cosa giusta da fare.
Il vostro sound è molto anni ’80 ma si riflette in testi disincantati e calati nel presente. Qual è il messaggio che volete trasmettere con la vostra musica?
Effettivamente il sound è torinese nella misura in cui Torino è la versione italiana di tante città che hanno vissuto un passato glorioso e ora vivono un presente abbastanza incerto.
Ovviamente gli esordi sono sempre molto veloci, quindi la celerità di composizione è stata una costante della nostra prima vita. L’obiettivo è comunque lavorare su un suono che sia sempre più personale e capace di accompagnarci nei nostri cambiamenti. Se dovessimo continuare a suonare come suoniamo adesso, col passare degli anni ci sarebbe un problema. Qualunque suono, per quanto collocabile in una determinata tradizione, in un determinato genere, deve evolvere anche a livello di scrittura. Adesso va bene così e poi in futuro vedremo, ci facciamo guidare dalla musica sperando sempre di essere sinceri con noi stessi, perché è l’unico modo per fare qualcosa che sia significativo e comunicativo come c’è capitato col nostro disco di esordio.
Broken Kid racconta del senso di smarrimento e incertezza che accompagna la generazione dei trentenni che si inseriscono nel mondo del lavoro e non trovano esattamente la terra promessa… Come vedete e vivete Torino oggi?
C’è stato questo spostamento dell’asticella generazionale per cui a 35 anni non sei più giovane, ma non sei neanche maturo, non sei neanche adulto. Broken Kid è stata scritta proprio per raccontare come tutte le sensazioni di emarginazione che una persona poteva avere da bambino o da giovane, si evolvono nel bisogno di essere accettati per quello che si è, consapevoli che dentro questa situazione ci siamo tutti assieme e non c’è nessuno che ti debba dire che cosa devi fare, come, quando e perché.
Musicalmente parlando è una città dalla quale stanno arrivando parecchie cose interessanti…
Sì, di sicuro la bussola della creatività non si è fermata. Torino è sempre stata una città in grado di catalizzare e restituire moltissimo. È una città fuori dai grandi giri: non stiamo parlando di una città centrale, di una capitale, però una città come questa ti permette di avere molta libertà per costruire la tua personalissima espressione artistica. C’è un enorme fermento che è indicativo di una buona salute: le scene, qualunque cosa con questo termine vogliamo intendere, non si sviluppano quando la città sta bene, ma piuttosto si sviluppano quando la città sta male, quindi è un segnale di buona salute artistica: vuol dire che la città è viva e questa sensazione di reazione a quello che sta succedendo non la vediamo solo noi.
Il 21 giugno tornerete a suonare dal vivo e proprio a casa… al Hiroshima Mon Amour? Questo concerto è doppiamente significativo….
C’è una voglia immensa perché, come tutte le altre band del mondo, noi avevamo pianificato tantissimi concerti e poi è arrivata la pandemia. Inoltre noi eravamo dei super esordienti, quindi ci stiamo prendendo lo spazio per far sì che quel palcoscenico sia il palcoscenico di un grande ritorno non tanto degli Smile, ma della musica, come momento in cui questo tipo di esperienza trova il suo punto di arrivo. È molto significativo perché l’Hiroshima Sound Garden è uno dei palchi torinesi per eccellenza, che ha accompagnato l’evoluzione della città dagli anni 80. Quindi per noi è molto bello collaborare con loro per qualcosa che diventa puramente Torinese, ma non il Torinese un po’ nequitoso che si compiace del fatto di essere marginale. È più il torinese che dice voglio parlare al mondo, tenendo fede a quello che sono.

Per ogni cosa c’è un posto
ma quello della meraviglia
è solo un po’ più nascosto
(Niccolò Fabi)