Il trio americano ha fatto tappa nella Capitale in occasione del Cleopatra World Tour 2017
Indifferenti all’indie, all’alternative rock o al pop, i The Lumineers, tre giovani newyorkesi, sembrano farsi strada con la semplicità del loro pop folk. Ieri hanno riempito la Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma nell’ambito del Viteculture Festival.
L’opening act è stato affidato ai The Shelters, quartetto rock di Los Angeles con il loro omonimo album d’esordio. Lineare, senza troppe originalità, eppure orecchiabile e coinvolgente, i The Lumineers hanno raggiunto nel tempo un ampio pubblico, con brani di grande successo.
D’altronde è proprio questa la leva più produttiva della musica, la popolarità intesa come sonorità dalla comune piacevolezza, testi leggeri ma efficaci, tracce brillanti e spensierate e altre più malinconiche ed empatiche. Wesley Schultz, classe 1983 e Jeremiah Fraites, 1986, partono dalla East Coast nel 2005 e si trasferiscono in Colorado. Lì conoscono la violoncellista Neyla Pekarek, strumento perfetto per la loro ricerca musicale e i tre diventano stabilmente un trio.
Dopo i 2.800.000 copie vendute per il disco d’esordio con un successo messo nelle mani prettamente del singolo Ho Hey, i The Lumineers anche nell’ultimo album Cleopatra lasciano tracce brevi e coincise, quasi bozze incerte dalla fruibilità immediata.
Semplicità e brevità che caratterizzano anche il live: poco più di un’ora di concerto ieri a Roma, uno show dinamico e rapido che, in un continuo cambio di chitarre e giri di strumenti, ha portato il pubblico alla fine senza che neanche se ne accorgesse.
Si parte con una quaterna secca, Sleep, Flowers, Classy, Dead Sea. Neyla è sempre ferma, nella parte destra del palco con il suo meraviglioso violoncello, a sostenere gli altri con il suono ammaliante delle corde.
Jeremiah invece è sempre in movimento, passa dalla sua batteria, al tamburo al tamburello con l’abilità di un bambino, che sembra si stia divertendo molto. Wesley parla tanto con il pubblico, racconta, presenta i pezzi con l’atteggiamento diretto e limpido di chi conversa attorno ad un tavolo, davanti ad una birra.
Il particolare timbro tra graffiato e acuto, stridulo e roco, si integra perfettamente tra le sonoritá di un pop folk personalizzato, si intreccia alla fisarmonica, si scontra con il suono malinconico e pastoso del violoncello, spazia fra tutti gli strumenti fino a quando tutto si ferma.
Wesley supera i microfoni e si avvicina all’estremità del palco. Solo chitarra, voce e un po’ di violoncello e fisarmonica per un momento di grande suggestione. La magia della Cavea fa il resto.
Prima Darlene, con il pubblico che ascolta emozionato in un’atmosfera quasi sacra, la voce del cantante che si alza dal palco senza microfono crea un’aura di verità, un’empatia e una vicinanza alle persone che si sente.
Poi è la volta del brano più rappresentativo del gruppo, quello di maggiore successo, Ho Hey; anche questo intonato senza microfono arriva forte e chiaro al pubblico e questa volta la reazione è un coro scatenato sul suono di quelle due parole di apertura del pezzo che tanto ha contribuito al successo di questa band.
Si torna al centro del palco, in posizione, per ripercorrere successi più o meno recenti in una carrellata di titoli, in un susseguirsi di brani tipicamente brevi.
Si va da Cleopatra a Dylan, da Angela a Ophelia, da Big Parade a Gun song, a Slow it down, a My eyes. Si avverte una forte voglia di contatto, sembra che i The Lumineers abbiamo voglia di toccare quelle mani alzate verso di loro, di guardare da vicino tutti quegli occhi, così Wesley decide di scendere dal palco e fare un giro; quasi sparisce tra l’esuberanza della folla che però non supera mai il limite, come a voler ricambiare la fiducia data.
Momento di confessione poi con Long way from home, il cantante lo presenta come un pezzo che parla della mancanza di casa, per chiudere su Subs e Strubborn love.
Se volessimo trovare una cifra distintiva dei The Lumineers potremmo dire sicuramente semplicità, intimità, l’Auditorium Parco della Musica sembra trasformarsi in un piccolo locale americano, di quelli più impensati e anonimi che invece spesso nascondono i live più intensi e piacevoli.
Report di Sabrina Pellegrini
Fotogallery di Giusy Chiumenti
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