I Sonata Arctica, band power metal finlandese, nel 2009 pubblicò The Days of Grays: un lungo concept sul dissolversi.
Recentemente, mi sono trovata avviluppata in una discussione su un gruppo di Facebook-gioia e dolore-riguardo alla qualità compositiva dei Sonata Arctica, la storica band finlandese capitanata dal mirabolante Tony Kakko. In molti erano concordi su un punto: Ecliptica è stato il loro padre nel metal, Meteora dei Linkin Park lo zio divertente, Century Child dei Nightwish, alla gloriosa epoca di Tarja Turunen, la mamma amorevole, profumata e ben curata.
In molti, però, poi, hanno finito per dimenticare i gloriosi fast della band power metal più famosa del mondo, nata a Kemi nel 1995, ispirata dai mitici Stratovarius e dalle gelide atmosfere del paese nordico. Molti sono i loro album all’attivo: al di là di Ecliptica (Fullmoon, gente! Non vi viene voglia di pogare?), che è ormai datato 1999 (nota di colore: avevo sette anni. Mio padre si dilettava nello scaricare musica illegalmente dai siti russi, ricordo quando si mise ad ascoltare Replica, decretando poi “ma che è ‘sto casino?”), si hanno una serie di veri e propri capolavori. Silence, del 2011, contiene la maestosa ed inquietante suite The End of This Chapter, che descrive la tragedia dello stalking; Winterheart’s Guild, la gilda del cuore dell’inverno, con la struggente The Misery; Reckoning Night, l’album più barocco e sinfonico fino a quel momento. Si approdò poi ad Unia, album parzialmente sfortunato visti gli illustri predecessori: la band intraprese un cammino progressive un po’ confuso e un po’ larvale, dettato più dalla noia per il power che dall’ispirazione, con cambi di tempi un po’ a caso, senza però abbandonare l’amore per i testi inquietanti-Caleb, brano centrale dell’album, parla di un tizio che uccide tutta la sua famiglia. Fa male dirlo, ma la critica specializzata lo accolse come una manna dal cielo, un contraltare dei Dream Theater: i fan si inca****** come le belve di Fullmoon. Vai a capire.
Incassata la mezza delusione, Tony ed amici non si arresero, e si chiusero in studio di registrazione. Decisero che il prog era ormai la loro via. La band all’epoca era formata da Tony Kakko alla voce, Elias Viljanen alla chitarra, Tommy Portimo (l’amante della doppia cassa, insomma) alla batteria, Marko Paasikoski al basso e alle backing vocals, e infine Henrik Klingenberg come maestro delle sacre tastiere. Ciò che produssero è a tuttora il loro capolavoro ed una perla che-mi auguro-riceva prima o poi il giusto riconoscimento. Cosa che, ovviamente, finora non è avvenuta (qui gli infamanti commenti).
The Days of Grays è un album oscuro. Parla della morte sotto innumerevoli sfaccettature: morte naturale, morte per veleno, morte per omicidio, morte della libertà di pensiero, morte per rogo, morte dell’amore. Lo fa tramite melodie delicate come fiocchi di neve ed orchestrazioni magistrali; compie l’impresa di descrivere la desolazione interiore abbandonando, finalmente, il tono da canzonetta-ma-con-le-chitarre-elettriche che li aveva caratterizzati nei primi album e che, diciamo, già da Reckoning Night aveva stancato. Vede anche la contrapposizione tanto cara al symphonic nordico, beauty and the beast, data la presenza di Johanna Kurkela nei brani Deathaura e Nothing can heal a broken heart. La Kurkela è Juliet, malefica creatura, o vittima di un crudele destino, che è causa e fine di ogni parabola vitale del protagonista di The Days of Grays, che rimane impantanato nel grigio di minuscoli, ma infiniti, loop di dolore.
The Days of Grays dei Sonata Arctica: artwork e tracklist
1.”Everything Fades to Gray (Instrumental)”3:06
2.”Deathaura”7:58
3.”The Last Amazing Grays”5:40
4.”Flag in the Ground”4:08
5.”Breathing”3:55
6.”Zeroes”4:23
7.”The Dead Skin”6:14
8.”Juliet”5:59
9.”No Dream Can Heal a Broken Heart”4:33
10.”As If the World Wasn’t Ending”3:49
11.”The Truth Is Out There”5:03
12.”Everything Fades to Gray (Full Version)”4:32
L’oscura Everything fades to grey introduce il tema dell’album: la dissoluzione nel grigio. Tutto torna al grigio, all’indefinito: è un nulla, un calderone contenente un intruglio misterioso, di archi delicati e di arpeggio sincopato al pianoforte, privo dell’accezione positiva della morte che è presente nelle filosofie non europee. Grande ospite al violoncello è Pertu Kivilaakso degli Apocalyptica, quartetto d’archi finlandese (sì, i 2cellos sono venuti dopo, molto dopo). Life’s but a walking shadow, direbbe Shakespeare, ed in questo fantastico album c’è spazio anche per lui.
L’aura di morte è giò creata: Deathaura, brano che avrebbe dovuto essere la title track. E’ una suite di sette minuti divisa in vari movimenti: premonition, witch hunt, exposing the heaten, envy, the fear, the grudge, the course, the Flames, Endless inquisition. Il brano, dunque, tratta di caccia alle streghe: la strega, o reputata tale, è impersonata da Johanna; anche il suo amato, Tony Kakko, è finito per morire durante l’Inquisizione. È un brano che deve moltissimo alle opere prog di Ayreon, per composizione, e, soprattutto, per come la base musicale si assottigli qualora vengono narrati momenti importanti dai cantanti. Vi sono cambi di ritmo di accordo ad ogni differente movimento, e, finalmente, non c’è abuso della doppia cassa per rimarcare l’aumento di pathòs. Le chitarre forniscono un ottimo supporto, senza però lanciarsi in protagonismi, in quando il brano è decisamente melody-driven. Probabilmente il migliore dai tempi di The End of This Chapter, non venendo sporcato dalla confusa complicatezza dei brani di Unia.
Dopo gli estasianti otto minuti di Deathaura, passiamo al singolo di The Days of Grays, The Last Amazing Greys (non vi ricorda Amazing Grace, l’inno cristiano?), e ne rappresenta uno dei pochi momenti ottimisti. È il discorso dal letto di un moribondo, che si rivolge ad un figlio più giovane, ad un amico, ad una moglie, chiedendo se abbia mancato a qualcosa nella vita, se abbia davvero soddisfatto la sua fame. Sono stato un buon leader? Un buon lupo alpha? Chi ci sarà dopo di me? Riuscirete a cavarvela? Noi siamo gli ultimi grandiosi grigi! Una bella ballata in pieno stile power, con quei cambi di ritmo e middle section che tanto piacciono ora ai nostri: archi di accompagno ed importante parte pianistica.
Ideale prequel di The Last Amazing Grays è la successiva Flag in the Ground poiché tratta della gioventù dell’eroico moribondo. Potrebbe assomigliare- e tanto- ai brani di Silence, come Don’t say a word. Doppia cassa, chitarre pesanti, mid section entusiasmante: Tony raggiunge note elevatissime, come nella classica produzione power. È una lettera che un conquistatore, sulla cui moralità il frontman non si esprime, invia alla sua amatissima moglie, oramai dall’altra parte del mondo. Nel mentre, legge le lettere della donna, che si strugge invece della mancanza del marito. L’uomo non sembra particolarmente colpito da ciò, tutto preso dalle sue avventure, dai suoi nuovi cavalli, dalla sua volontà di piazzare la bandiera sventolante nel suolo di una terra vergine. Chissà se sopravviveranno abbastanza per rivedersi.
In The Days of Grays c’è anche tempo per rallentare. Breathing, infatti, è una lenta ballata che parla della morte che si avverte nel cuore, e ad ogni respiro, durante la crisi di una relazione importante. Lentissima, fatta di solo organo, piano, lente percussioni e qualche chitarra, lascia ampio spazio all’interpretazione attoriale e vocale di Tony, che narra con sconcertante realismo quel sentimento indefinito di desiderio per una vita diversa.
I can not control my life anymore
Feel a need to leave and breathe on my own
I remember all the broken songs of our life
Maybe one more wrong will make it all right
I just really need to be alone now
Ricordo di aver scritto Dancing on the Borderline sul banco del liceo. Il verso iniziale di Zeroes, recita così, e ci si rituffa prepotentemente nel metal, anzi, nella metal opera, già introdotta in Deathaura. Si tratta, a posteriori, purtroppo di un brano abbastanza esagerato, un po’ confuso, in cui uno dei pochi assoli di chitarra dell’album viene sprecato buttandolo nel mezzo di una strofa. L’improvvisa passione per i filtri vocali di Tony Kakko è presente anche nella successiva The Dead Skin. L’idea di base è la stessa di Deathaura, voce, e live accompagnamento di groove e di giro di batteria. Il basso è praticamente assente, donando al tutto un’atmosfera molto sinfonica. Frequenti cambi di ritmo, in un brano che deve moltissimo a Arjen Lucassen. Stavolta Tony è un amante abbandonato che si crogiola nel pensiero del suicidio, come fine di ogni sofferenza, senza però riuscire a compiere nulla: le mie lacrime non toccano neppure più terra.
In The Days of Grays si continua a parlar d’amore perduto col brano migliore dell’album e, compositivamente, il migliore dell’intera discografia dei Sonata Arctica: Juliet.
Avevo anticipato che ci sarebbe stato spazio anche per William Shakespeare, e, infatti, il nono brano è intitolato Juliet, una vera e propria operetta in chiave metal. Tony, di nuovo, legge il diario (in questo caso gli ultimi pensieri coscienti) di una amante abbandonato, come fece in Letter to Dana, epigrafe della tragedia della lotta all’ineluttabilità del fato. Il brano è diviso in sei sezioni, sei accordi fondamentali, dal tono via via più oscuro, arricchendosi, nelle sezioni centrali, di inserti operistici per cui va dato tanto di cappello a Klingenberg, e trova spazio anche il dark cabaret: viene narrato come il protagonista si sia innamorato della maligna Juliet, con la quale aveva meditato, se il loro amore fosse stato impedito dalle rispettive famiglie, un suicidio rituale. Eppure, non c’è lieto fine neppure nella morte: il protagonista beve il veleno, ma Juliet no, e sorride crudele guardandolo agonizzare. Nel tragico ending, che vede ottime backing vocals, quasi ad essere i morti che chiamano il protagonista, canta tutta la sua disperazione dell’uomo perdutamente innamorato, tanto da essere cieco. Juliet è un po’ Lesbia, Tony un Catullo nordico duemila anni più giovane: Odi et Amo.
“I lived only by you,my scorn, my heart, my truth!
My sole reason to die,
there’s no life without you.
These are my final lines, and I close my eyes.”
Nessun sogno può guarire un cuore spezzato. Nothing can heal a broken heart: decimo brano e deciso ritorno alle origini, ma con classe. Stavolta il rimando a Catullo è diretto nelle liriche: one, too, many, one thousand, poisoned kisses. Parzialmente metal ballad, parzialmente soft rock con tanto di chitarra acustica, è sostanzialmente il prologo di Juliet: narra dell’inganno di Lesbia/Juliet nei confronti del protagonista, accecato dalle sue false promesse, cedendo, alla fine, a quei baci avvelenati. Organo e tubular bells sono in As is the world isn’t ending, brano probabilmente evitabile in quanto più o meno versione rallentata in un banalissimo 4/4 di molte altre love ballad dei Sonata Arctica, il cui concept è rubato direttamente dal Carme 5 dell’ottimo Catullo (che evidentemente è più noto in Finlandia che in Italia).
Godiamoci la vita, mia Lesbia, l’amore,
e il mormorio dei vecchi inaciditi
consideriamolo un soldo bucato.
I giorni che muoiono possono tornare,
ma se questa nostra breve luce muore
noi dormiremo un’unica notte senza fine.
Dammi mille baci e ancora cento,
dammene altri mille e ancora cento,
sempre, sempre mille e ancora cento.
E quando alla fine saranno migliaia
per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
perché nessuno possa stringere in malie
un numero di baci cosí grande.
Incomprensibile è la scelta di aggiungere un brano vagamente complottista, per quando godibile, quale The Truth is out there, ricchissimo di cambi di ritmo e di partitura. Un punto abbastanza basso dell’album, citazioni ad X-Files e a Twin Peaks senza molto senso, se non per il fatto che il grigio è il colore degli alieni del primo. The Truth is Out There avrebbe potuto essere un buon brano in un album come Reckoning Night, ma in The Days of Grays stride da morire.
E stride ancor di più con lo splendido ending di The Days of Grays, che conchiude l’intero viaggio terreno e ultraterreno dei finlandesi: Everything fades to grey. Linea pianistica superba e archi in controtempo che vanno ad anticipare la linea vocale: un magistrale elogio alla vita dal letto di morte. Il morente non si rassegna, vorrebbe un giorno in più, e ciò spezza il cuore. È un brano che va a colpire tutti coloro che hanno visto morire una persona amata che però non si era mai arresa, non aveva pace nel cuore al momento del trapasso; che era ancora stolidamente attaccata alla vita: il grigio è così il colore della rabbia, dell’ingiustizia, il colore dei denti della Mietitrice. Colors last a lifetime and then fade to grey. L’esplosione finale consacra dunque The Days of Grays come uno dei più begli album power metal mai realizzati, ma, purtroppo, stroncati dai fan, come spesso succede. Alcuni aspetti, indubbiamente, avrebbero dovuto essere ottimizzati: la scelta della scaletta, così altalenante, costringe l’ascoltatore attento ad immaginare un filo conduttore, in quanto i momenti narrativi vedono sempre l’inversione di prequel-sequel, dando una sensazione di straniamento. Il mio sospetto è, che, però, vi sia una motivazione dietro: nel grigio tutto si mescola; l’infinitesimale vita umana, rispetto alla morte, è solo un momento pallido nel tempo, e dunque non conta il prima e il dopo, in realtà.
In conclusione, The Days of Grays è stato un esperimento, un tentativo di conciliare il prog di Unia col lirismo dei primi Sonata Arctica: un esperimento che ci ha consegnato, anche se non apprezzato, uno dei momenti più alti della discografia power di sempre.
Giulia Della Pelle
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