The Book of Souls: Live Chapter. La recensione dell’ultima raccolta targata Iron Maiden

di InsideMusic
Una nuova raccolta live per gli Iron Maiden, storica band britannica.

Quando, a febbraio 2015, fu annunciata la diagnosi di un cancro alla gola a Bruce Dickinson, tutti i fan avevano avuto un sussulto al cuore. L’idea che la voce della Air Raid Siren potesse spegnersi era qualcosa di inaccettabile: il terrore durò poco, infatti già a maggio fu annunciata la completa guarigione del vocalist. Il 4 settembre vide la luce The Book of Souls, sedicesimo album in studio degli Iron Maiden, anche se funestato dalla, a suo dire, ridotta vena creativa di Harris, che subì ben due lutti in fase compositiva.

In verità, The Book of Souls è un doppio album, contenente anche la canzone più lunga mai composta dai Nostri: la conclusiva Empire of the Clouds, che batte il primato di Rime of The Ancient Mariner (qualcosa di bellissimo che coglie appieno l’atmosfera del poema di Coleridge), un brano interamente composto da Dickinson e dedicato al disastro del dirigibile R101, nel 1930. Un’epoca ed una tecnologia estremamente lontane da noi, ma che ci ricorda la passione di Bruce per il volo, in qualunque sua forma.

L’album fu inoltre registrato a Parigi, nel Guillame Tell studios, che vide la nascita di un capolavoro quale Brave New World: le tracce furono frutto di improvvisazioni strumentali, non di attenta rifinitura in pre-realizzativa come nel caso di tutti i precedenti album della band britannica.

L’album fu anticipato dal singolo Speed of Light ad agosto, cui seguì la stessa Empire of the Clouds, l’anno dopo ad aprile. Il tour fu poi rimandato di un anno per permettere a Dickinson una piena ripresa: iniziò infatti a febbraio 2016 e si completò a luglio 2017, toccando i principali palchi del mondo, dal Canada alla Giappone, dal mitologico Wacken ad Albuquerque. In Italia, i Maiden deliziarono Milano, Roma, e Trieste.

 

Ovviamente, Bruce fu alla guida dell’aereo che scarrozzò la band in giro per il mondo: l’Ed Force One, evolutosi in un gigantesco 747 Jumbo Jet adatto a contenere anche tutte le famiglie del mitico sestetto. E, probabilmente, al primo imbarco, per il tour partito da Fort Lauderdale, tutti i musicisti si erano ritrovati con uno spirito differente dal solito: il rischio corso dal frontman è stato enorme, e la pronta guarigione ha del miracoloso. Forse, in quei navigati artisti, si è insinuata, sempre più profondamente, l’idea di lasciare ai posteri qualcosa di sé di ancora più potente, di tangibile: qualcosa che da vecchi e cadenti, quando rivisto, scalda il cuore. E per questo è nato il Live Chapter, una fotografia di quello che potrebbe essere l’ultimo stato di grazia di una band storica ma che, purtroppo, essendo composta da esseri umani, subisce il crudele scorrere del tempo. Come quando si prenota un book fotografico e si scelgono con cura i vestiti che ci fanno sembrare più giovani.

The Book of Souls: Live Chapter riesce nel suo intento.

Cristallizza nel momento la grazia, la perfezione, l’esser famiglia di una band storica e che ha fondato un genere, fondendo il passato con il futuro, con le migliori tracce dell’ultimo album ottimamente suonate. Per questo non è un semplice live, è un vero e proprio greatest hit in miniatura, grazie alla certosina scelta delle migliori performance. Infatti, ciascuna canzone è stata registrata mentre suonata su un palco differente, ed ad un orecchio più attento, si possono riconoscere le differenti attenzioni acustiche che sono state poste per ottimizzare la resa strumentale live. Soprattutto, ciò che colpisce all’ascolto, è la potenza. Vera e propria, pura, priva di fronzoli, ma fatta di energia e bravura, di impegno e di cuore: più del solito, e forse proprio dovuto al pericolo scampato. Le tracce scelte non “scadono” mai in sperimentazioni prog, ma rappresentano l’anima power degli Iron Maiden, ciò che li ha resi famosi: i virtuosismi delle tre chitarre, la batteria incalzante, la melodia, e la voce cristallina di Dickinson. Una vera e propria dimostrazione d’amore ai fans: a tal proposito, il giorno del rilascio dell’album, l’11 novembre, è stato proiettato in diretta Youtube sul canale della band l’intero live. Che dire, aspettiamo con ansia un eventuale DVD (e, vi assicuro, sarò la prima a comprarlo).

Tornando alla scelta delle tracce, come già detto, c’è un’ottima coniugazione passato e presente: si inizia infatti con la prima canzone del nuovo album, registrata a Sidney, ossia If Eternity Should Fail, composta da Dickinson ed in origine prevista per un suo album solista. Se riconosce il gusto per l’epòs già visto in Man of Sorrows, per le commistioni con altri generi (la componente puramente metal è gigantesca): Dickinson canta con voce più scura del solito, ma regge benissimo il passare del tempo. A parer mio, è un miracolo che a 60 anni sia ancora in grado di raggiungere determinate note, ed anzi, avere ancora l’energia di cantare più tracce di fila: un paragone calzante è con Klaus Meine degli Scorpions, che hanno onorato Roma nel 2016.  If Eternity Should Fail non è cantata, purtroppo, dal pubblico, segno che almeno a Sidney era composto prevalentemente da fan di vecchia data. Nel refrain, a volte, si avverte la fatica per la voce di Bruce nel raggiungere tonalità che, da ragazzino, sarebbero state un gioco. È presente, però, un lungo ed esaltante break strumentale dal sound quasi orientaleggiante, segno della perfetta sintonia fra Harris, Murray, Smith e McBrian. Nel finale la voce di Bruce è supportata nella melodia da una chitarra, non presente nella versione studio: un geniale tocco per coprire l’eventuale stanchezza del vocalist.

Si prosegue con un singolo da The Book of Souls, Speed of Light:

 

Il cui video è liberamente disponibile sull’account Youtube della band, filmato a Città del Capo. L’atmosfera del concerto è incredibilmente intima, fra i componenti della band. La canzone in sé è in tipico stile heavy metal Maiden: si lascia ascoltare, ha una gran resa live. Bruce canta con un’energia inesauribile, migliorando perfino rispetto alla versione studio, in cui pareva aver un minor controllo delle vocali negli acuti. Live, infatti, è stato prediletto uno stile più liricheggiante, più di diaframma. I sorrisi da ragazzino del batterista McBrian, in grado di divertirsi ancora così tanto, mi hanno ricordati quelli di un giovane musicista al suo primo live.

Segue Wrathchild (figlio della rabbia), traccia che risale al periodo di Paul di Anno, album Killers del 1981 (tra l’altro, che fine ha fatto?): è in grado di far scatenare gli irlandesi di Dublino. Canzone estremamente nota quanto poco proposta live, fa cantare.

Da Montreal (come ci dice Bruce salutando i canadesi prima che si inizi a suonare) viene Children of the Damned, dall’indimenticabile Number of the Beast, una chicca per gli amanti della fantascienza classica: per chi non lo sapesse, il testo (come molti altri dei Nostri) è ispirato ad un libro distopico, The Midwich Cuckoos di John Wyndham, con protagonisti dei ragazzi dotati di poteri psicocinetici. Bruce Dickinson è qui, semplicemente, impressionante. Non sbaglia un colpo, ed è sempre supportato, in questa bellissima ballata, da Harris e i chitarristi. La performance di batteria sul finale, col suo gigantesco stuolo di timpani e tamburi, priva del ricorso alla doppia cassa, è memorabile: si pensa di essere di fronte ad un energico ragazzino, non ad un classe 1952. I vocalizzi ed i controcori del pubblico sono un’esperienza a cui chiunque amante della Vergine di Ferro non dovrebbe mai e poi rinunciare, come ad un pellegrinaggio.

Anche in Polonia i Maiden sono amatissimi, e a Wroclaw è stata registrata Death or Glory, altra traccia da The Book of Souls: a questo punto va spesa qualche parola sulla traccia in sé. Veicola potenza fuoriuscita da un wormhole direttamente dagli anni ’80. È un po’ un unicum all’interno dell’album, caratterizzato sì da esperienze power, ma anche da una struttura compositiva complessa, con frequenti cambi di ritmo e giri di chitarra mai ripetuti troppo a lungo. Qui, invece, gli stessi tre accordi sono riproposti da tutte e tre le chitarre, e l’assolo gode di una grande semplicità. Insomma, un tuffo nel passato, con un Bruce che canta anche il bridge con grande classe, spingendosi perfino a sporcare un po’ la voce sulle lettere più gutturali.

 

Beh, The Red&The Black (non so se sia un omaggio al romanzo di Stendhal) è la mia traccia preferita da The Book of Souls. Tredici minuti di emozione, anche se di complessità stilistica di difficile fruibilità. Anche i giapponesi di Tokyo sembrano apprezzare, Bruce li coinvolge in vocalizzi maschili dannatamente epici. La voce del vocalist è protagonista della traccia, anche se qui sembra essere, purtroppo, meno in forma, preferendo dar spazio al pubblico. Bruce affonda i bassi, pecca di potenza negli acuti, ci si dimentica un po’ di Harris che se ne resta in angolino col suo basso. Cambi di ritmo progressive, assoli di chitarra ariosi; Smith fa commuovere con la sua Jackson bianca.

Forse El Salvador non era uno stato particolarmente amante dell’heavy metal prima della performance di The Trooper, storia di un soldato nella guerra di Crimea da Piece of Mind del 1983: dal piccolo paese centroamericano proviene infatti la registrazione del grande classico della band. Dickinson canta accarezzando il testo, come una vecchia amante, ed il pubblico canta assieme a lui. La resa live è irreprensibile, dal momento che l’attuale formazione è la stessa che incise per la prima volta la traccia in studio. C’è un gigantesco coraggio in questa prova di giovinezza: sono passati più di trent’anni ma l’amore e la bravura sono rimaste le stesse, semmai aumentate, ed il rischio di fare figuracce è stato elegantemente scongiurato. L’indimenticabile assolo di chitarra ci accompagna alla fine e guida verso Powerslave, riproposta a Trieste per la gioia degli italiani: si divertono ancora a suonare la lunghissima parte strumentale e Bruce ancora a cantare dell’Antico Egitto e di divinità scomparse nella sabbia.

Finisce qui il CD1 di The Book of Souls: Live chapter.

Si riparte fortissimo con un’altra traccia da The Book of Souls, a Newcastle, The Great Unknown. Traccia che parte piano con archi (!!) e percussioni leggere ed è cantata da Bruce con la cura che si dà ad un brano promozionale, a del materiale nuovo di cui si spera il pubblico si innamori. Eppure la traccia risulta un po’ fuori luogo, manca di una chiusura, e purtroppo Bruce fatica terribilmente nelle note più alte, e l’effetto finale, con la chitarra ritmica sempre a supporto, risulta quasi fastidioso. Una traccia che forse, live, sarebbe dovuta esser proposta in un momento più propizio, oppure, semplicemente, una decina d’anni fa, ai tempi di a Matter of Life and Death. Il pubblico, tranne che per qualche “Ooooh” sporadico pare non emozionarsi. Sul finale, il sound appare un po’ vuoto, si crea una sorta di stacco fra le percussioni e le chitarre.

Rimaniamo in inghilterra per la traccia omonima The Book of Souls, traccia che ci viene presentata da Bruce come “la storia della più grande civiltà mai esistita, ora semplicemente sparita”. Il pubblico è trepidante, si battono le mani. Presenti qui dei fiati nell’intro, ma poi si parte con i veri Maiden, con un sound oscuro e pieno che ne fa una delle tracce migliori dell’album in studio. Dickinson non stecca una nota, e la canzone in generale presenta la ciclicità melodica tanto apprezzata e tanto tipica dei Maiden. Infatti, caratteristica principale di essa è la melodia, sempre presente, che spinge Dickinson ad ergersi a cantastorie power, e lo fa con una grandissima tecnica. E diciamolo, archi e tastiera provvidenziali a coprire acuti di vocali aperte che potrebbero risultare ostici.

In Brasile, dall’altra parte del mondo, qualcuno teme il buio. C’è Fear of the Dark, brano di cui mai ci libereremo negli album live e mai vorremmo farlo. Il pubblico ovviamente canta assieme alla chitarra, e Dickinson sussurra come sempre “I’m the man who walks alone..”. Non c’è nulla da fare, non ci sono novità che tengano, rimane una delle tracce più belle e memorabili della band: e dev’essere una grande emozione per i musicisti stessi suonare a distanza di decenni, ancora, con lo stesso effetto galvanizzante sul pubblico, una canzone così.  L’attacco delle chitarre è da brividi come sempre: il terrore del buio e dell’inconoscibile ancora attanaglia.

Rimaniamo in sud America, Buenos Aires, per Iron Maiden, brano vecchissimo risalente al primo omonimo album del 1980, che fu una delle pietre miliari del genere, cantato originariamente da Paul di Anno: traccia che mantiene la sua ferocia inalterata dal tempo e che il pubblico conosce ed ama. Bruce incita la città ad urlare assieme a lui, e la risposta non tarda a farsi sentire. Un’energia che è ancora in grado di unire sconosciuti di ogni età, estrazione sociale e sesso.

Ed andiamo a Wacken (uno dei palchi preferiti dei Maiden), in Germania, per Number of The Beast, brano che non ha bisogno di presentazioni. È una traccia che, al momento, pare essere ostica per Dickinson, che però regge meravigliosamente il confronto col tempo, che, maledetto, vorrebbe farlo invecchiare. Nella registrazione propostaci, le chitarre hanno un ruolo di primo piano, ancor più che nel resto della produzione maideniana: verso metà canzone il vocalist si eclissa per lasciar spazio al pubblico ed agli strumentisti.

Dopodichè, una vera e propria dichiarazione d’amore ai fan (e sì, mi sono sentita chiamata in causa) tramite Blood Brothers, un bellissimo classico moderno da Brave New World. Il pubblico batte le mani a tempo della chitarra e degli archi, un fattore distintivo di tutto l’album. Bruce è ispirato, sembra parlare ad una persona cara, con gentilezza, esattamente come avviene nella canzone, in cui il vocalist parla al padre scomparso, passeggiando per “the garden of life”. Probabilmente, fossi stata a Donington, avrei pianto come una bambina. L’enfasi di Bruce nel cantare è ineguagliata nel resto dell’album, facilmente spiegabile proprio dalla sua recente esperienza con la malattia e con la morte. Blood Brothers è un inno al ciclo della vita e come tale, ad essa, va dato un ruolo di primo piano. Piccole modifiche di arrangiamento sono state fatte rispetto alla versione live: il suono è più pieno, sono presenti backing vocals e le due chitarre soliste risuonano leggermente diverse negli effetti. L’ultimo refrain è cantato assieme al pubblico, la comunione fra la band ed i fan è qualcosa di reale e tangibile.

Si chiude con un’altra perla, Wasted Years, da Rio da Janeiro. Brano arcinoto del 1986, da Somewhere in Time e, di nuovo, la band, sembra incontrare l’amante di un tempo. L’amore e la cura sono la stessa, l’affetto è rimasto immutato. Perfino la voce di Bruce non ha subito il tempo. L’ovazione del pubblico è unanime.

In conclusione, il punto di forza degli Iron Maiden è, ancora, un’ottima coesione e coerenza, sia stilistica che relazionale fra i vari musicisti. Insomma, c’è una gran cura ed un gran ragionamento dietro ogni esibizione, un’attenta preparazione per risultare senza sbavature, come solo l’esperienza sa fare. In più, l’età ha fatto nascere un pizzico di furbizia che di certo non guasta, ma è innegabilmente presente nelle piccole accortezze adottate. Cosa chiedere di più ad una band in attività da trent’anni e ha creato un vero e proprio genere, e stuoli di imitatori più o meno riusciti? Molti diranno che di un altro album live non se ne sentiva il reale bisogno, ma, forse, i Maiden stessi ne sentivano il bisogno. Per ricordare se stessi così. In forma ed innamorati della musica.

Giulia Della Pelle

0

Potrebbe interessarti