Scrivo ormai per Inside Music da un anno e mezzo, affiancando i miei impegni universitari e produzioni musicali alla scrittura di articoli e review di ambito artistico. Dopo un anno e mezzo mi ritrovo per la prima volta a parlare di una delle band con cui sono cresciuto, cui il live allo stadio olimpico è stato il primo di una lunga serie e le cui canzoni sono state, per me, maestre e compagne nei primi approcci allo strumento (il basso) e alla composizione.
Ironia della sorte al mio primo articolo sui Muse mi ritrovo a confrontarmi con quello che è il lavoro peggiore dei loro diciannove anni di grande carriera. Chiarifichiamo, io non sono un fan delle band. Io sono fan della musica, della buona musica, tendo a non affezionarmi ai complessi quanto più alle loro produzioni.
Ciò mi rende, grazie al cielo, immune dal fanatismo che porta a giustificare l’ingiustificabile o dall’iper criticità da testa dura che potrebbe farmi considerare ciarpame ogni cosa vagamente differente dall’idealizzazione mentale che mi sono formato di un artista.
Insomma, sono un ascoltatore di musica sano di mente, per fortuna. Proprio per questo oggi, a cuor leggero, sono qui a dirvi che con Simulation Theory i Muse hanno toccato il gradino più basso della loro carriera musicale e, vi dirò, il problema non è il genere.
Vadano a quel paese quelli del “se non è rock fa schifo” o “dove ztanno i kitarroni? Ke skifo il pop”. La musica, se fatta bene, è bella al di la del genere di provenienza e riuscire ad apprezzarla nella sua totalità non fa altro che regalarci nuove emozioni, sfumature, punti di vista da cui osservare le cose.
L’arte, per essere vissuta davvero, va raccolta nella sua completezza. Il bello va al di la della classificazione e chi non la pensa così, personalmente, meglio vada a raccoglier le patate più che iniziare a sparare a zero sentenze in un ambito che, realmente, non conosce.
Con Simulation Theory la compagnia del Matteo si spinge su panorami dal gusto prettamente pop ed elettronico. Dimenticatevi il riffing duro di Drones o le sonorità classicheggianti ed epiche di Absolution o The Resistance. Qui si stanno varcando ben altri cancelli, assolutamente legittimi direi, non fosse per il risultato finale.
Di fatto il problema principale riscontrabile nell’ultima fatica della band anglosassone non è tanto il genere di provenienza quanto il modo in cui esso è stato sviluppato. Diciamocelo schiettamente, metà album è apprezzabile e contiene in se anche ottime canzoni. L’altrà metà, invece, sarebbe da gettare nelle latrine per poi tirare lo scarico in modo violento e repentino.
I primi dodici minuti di musica a noi offerti sono di buon livello. Algorithm è un’ottima partenza. Le sonorità oscure e tendenti alla synth wave dark con un leggero stampo vintage conservano, nelle armonie, gli elementi tipici dei primi Muse dando un senso di innovativa freschezza., elemento che permane in The Dark Side.
Ci ritroviamo quindi di fronte a pezzi dal taglio drammatico ed oscuro le cui scelte melodiche, analizzate, riportano ai tempi del glorioso Absolution (basti ascoltare le Alternate Reality Version dei due pezzi, comprese nella deluxe edition, che nella loro natura minimale mostrano con completezza la loro derivazione dal tipico stampo Musiano dei bei tempi).
Con Pressure, terza canzone dell’album, usciamo dalla coltre ombrosa costruita dal sound elettronicamente oscuro delle precedenti per proiettarci in un pezzo dal mood frizzante, movimentato e allegrotto che riporta ai Muse di Drones. Una buona canzone, un riff passabile, un ritornello orecchiabile e trascinante. Un buon momento musicale, per quanto non eccelso.
Da qui in poi, per poter tornare ad ascoltare buona musica, dovremo aspettare la traccia nove. Di fatto nei seguenti venti minuti di musica si sussegue un’accozzaglia di pezzi confusa e priva di personalità. Teniamo a mente, ed è fondamentale nella lettura di questa analisi, quelle che sono le capacità musicali di Bellamy e compagni, musicisti sopraffini e dalle grandi competenze.
Preso atto delle loro capacità effettive, un pezzo che potrebbe sembrare apparentemente passabile potrebbe divenire, effettivamente, un prodotto di spregevole livello. Non dimenticatevelo, Bellamy non è Baby K, a lui è richiesto molto di più.
Detto ciò andiamo avanti.
In Propaganda sembra di ascoltare un pezzo prodotto in collaborazione con Justin Timberlake. Simpatico nelle scelte sonore ma decisamente piatto, poco incisivo, oserei dire quasi noioso. Scorre, non colpisce e non esprime nonostante una discreta strutturazione. Il mordente è totalmente assente, la dinamica è azzerata.
Break it To Me e Something Human sono i due più grandi aborti mai concepiti dalla band anglosassone. Il primo è del tutto sconclusionato, quasi dissonante in maniera del tutto vaga e casuale. Il “riff” di chitarra è fastidioso e riporta a dei Red Hot Chili Peppers con gli strumenti lasciati a scordare sotto la pioggia di novembre.
Le strofe con il loro tono arabeggiante sono totalmente fuori luogo ed il pezzo risulta, in conclusione, piatto, scarno, noioso, privo di dinamica e di impatto oltre che confusamente concepito. Insomma, un pezzo alternative brutto a dir poco. Something Human non necessita descrizione, un pezzo dal taglio pop assolutamente banale e noioso che ricorda i Muse solo nell’estrema cura degli arrangiamenti, per il resto non vi è davvero nulla da salvare.
Thought Contagion illude, sembrando una ripresa ma rivelandosi poi, in realtà, nulla di particolare. Buona idea nel complesso, sviluppata però in modo non ottimale. Il pezzo infatti, nonostante un buon ritornello e un riff portante non male, appare monotono, ripetitivo, privo di fantasia. Bastava poco per migliorare la prestazione musicale, quel poco non è stato fatto.
Arriviamo allora a Get Up and Fight. Sono sicneramente stanco di sentirmi dire da Bellamy di alzarmi e lottare. In ogni suo album, da anni, ripete a qualche cristiano questo mantra rendendolo ormai banale, difficile da prendere sul serio, quasi forzato e poco sincero. Il pezzo in se, poi, è davvero poca roba. Basti guardare le vocine campionate a inizio pezzo in pieno stile pop americano degli ultimi tempi. Il ritornello è gradevole, il pezzo appare dinamico ma, ahimè, scontato nelle scelte armoniche e di arrangiamento.
Fortunatamente, però, il supplizio musicale si esaurisce qui. Di fatto Blockades, Dig Down e The Void restituiscono dignità musicale all’ascolto. Le tre canzoni richiamano il tipico stile Muse, che sembrano tornare nel loro corpo, mostrando buone idee sviluppate in modo interessante, specialmente in Blocakdes, oscura, potente, epica e dal taglio teatrale e marciante. La commistione tra elementi elettronici, distorsioni e coralità epiche ci restituisce i Muse dei bei tempi.
Su Dig Down va fatto un appunto. A coloro che la considerano una brutta copia di Madness consiglio di sturarsi le orecchie. Se non riuscite a percepire le differenze di arrangiamento, scelte armoniche e mood musicale complessivo, evidentemente avete problemi di udito. Il pezzo in se è ben strutturato come un costante crescendo ove gli strumenti vanno gradualmente ad aggiungersi nell’intelaiatura musicale con lo scorrere del minutaggio. Pezzo gradevole, giusto nelle scelte di arrangiamento, dotato di piglio e dinamica oltre che di una sana dose di epica teatralità.
The Void è una buona conclusione. Riprende le sonorità elettroniche e dark di inizio album ben miscelate con elementi orchestrali e percussivi. Nonostante, però, la buona idea di base, anche in questo caso pecchiamo di una certa eccessiva “linearità”. Di fatto il pezzo non spicca per dinamica, non si apre e non si eleva di livello rimanendo uguale a se stesso in tutta la sua lunghezza annoiando, tra l’altro, nelle sue fasi finali.
In conclusione, Simulation Theory è un album, ahimè, passabile solo a metà. Di undici canzoni solo sei risultano valide (The Void rientra per rotto della cuffia), risultando comunque anche loro affette da una certa mancanza di ispirazione e fantasia. Il resto dell’album è invece da gettare, immerso nel suo travolgente piattume e pressapochismo compositivo.
Al di la del genere, al di la delle sonorità, ciò che manca a Simulation Theory è un’anima. Salvo pochi pezzi è un album che annoia, che sembra non aver niente da dire o comunicare. Uno scherzo fatto da un annoiato Bellamy che produce un nuovo album per poter tirare avanti la carretta senza troppa applicazione. Le Alternate version di Algorithm e The Dark Side sono la dimostrazione di come, con più impegno, il trio anglosassone sia ancora capace di produrre musica di ottimo livello. Perché, allora, non mettere il medesimo impegno in tutto il lavoro?
Rock, Metal, Pop, Rap, musica elettronica, generi tra loro differenti ma tutti ricchi di bellezza. Al di la del filone di provenienza la bellezza musicale deriva dall’impegno, dall’attenzione e dalla lavorazione. I Muse potevano produrre un grande album pop/elettronico, potevano stupire tutti abbracciando un genere differente e da loro toccato già in passato mostrando la loro competenza, interpretandolo in modo doveroso e curato. Non lo hanno fatto, fallendo miseramente in quanto prodotto.
Simulation Thoery non è un album di passaggio o una sperimentazione. Come per One More Light dei Linkin Park, ci ritroviamo di fronte semplicemente ad un album brutto, concepito male e cresciuto peggio.
Aspetteremo altri tre o quattro anni, allora, per poter sperare di goderci un nuovo mirabolante lavoro di una delle band più originali della storia della musica. Nel mentre ci teniamo quanto di buono prodotto in quest’ultimo lavoro, sperando sia di buon auspicio per un futuro musicalmente più roseo.
Voto – 5
Lorenzo Natali
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