“Mosche” è il titolo dell’album del cantautore catanzarese Marco Russo.
L’album si snoda in otto tracce caratterizzate da ritmi funky/rap e groove che si intrecciano con una scrittura cantautoriale.
I testi nascono dalla necessità di mettere ordine nel caos emotivo, utilizzando la musica come linguaggio universale per raccontare storie intime e condivisibili.
Il disco “Mosche” è frutto di un periodo di profonda riflessione, intrecciata alle esperienze di vita dell’autore che si è trasferito in una grande città come Roma dalla sua Calabria, esplorando il senso di smarrimento personale e collettivo che si vive in una città così dispersiva, affrontando il peso delle pressioni sociali e il bisogno di rapporti autentici.
In ogni brano, Marco Russo, ha cercato di dare voce ai suoi pensieri pur vestendoli di leggerezza, con arrangiamenti che mescolano strumenti analogici e sintetici, dalla musica black al pop contemporaneo, con un occhio alla tradizione e l’altro rivolto verso sperimentazioni sonore.
È proprio su questo progetto che si incentra la nostra chiacchierata con Marco che, il 2 febbraio dalle 18, presenterà “Mosche” in band allo Studio Miriam a Roma.
L’evento è gratuito, è possibile acquistare i biglietti al seguente link: https://billetto.it/e/marco-russo-live-session-mosche-studio-miriam-biglietti-1157624.
INTERVISTA
Ciao Marco,
parliamo innanzitutto del titolo che hai scelto per il tuo nuovo album: Mosche. Come mai hai scelto un insetto che normalmente ha una connotazione negativa?
Ciao! Ho scelto Mosche perché è un titolo che spiazza. Normalmente questi insetti hanno una connotazione negativa: sono fastidiosi, associati al degrado, a qualcosa di sporco e indesiderato. Ma, se ci pensi, sono anche incredibilmente resistenti, capaci di adattarsi a qualsiasi ambiente e di sopravvivere ovunque.
Nel brano che dà il titolo al disco canto: “Io da qui non vedo altro che mosche che volano libere sopra una vita di merda”.
È un’immagine forte, che sintetizza perfettamente il concetto dell’album.
Le mosche sono ovunque, si muovono nel caos senza preoccuparsi di dove si trovano, e in un certo senso rappresentano la nostra società, il nostro continuo cercare di restare a galla in mezzo a un mondo che spesso sembra andare a rotoli.
Quindi sì, Mosche è un titolo provocatorio, ma anche un invito a guardare oltre le apparenze.
A volte nel caos e nel disordine si può trovare una strana forma di libertà, o almeno un motivo per continuare a volare.
Mosche celebra la vulnerabilità e il coraggio di essere sé stessi, senza compromessi. Cosa ti ha portato a questa consapevolezza?
Mi ha portato a questa consapevolezza l’omogeneità che vedo sempre più spesso nel mondo. Le mode che seguono tutti, i modelli imposti dai social, l’ossessione di aderire a un’estetica o a un modo di pensare prestabilito… sembra quasi che oggi essere sé stessi sia diventato un atto di ribellione.
Io non voglio rincorrere un’immagine o adattarmi a uno standard solo perché funziona. Mosche nasce proprio da questa esigenza: celebrare la vulnerabilità, l’imperfezione, il coraggio di essere autentici senza compromessi.
A un certo punto ho capito che non voglio piacere a tutti, voglio semplicemente essere vero. Perché alla fine, se smetti di essere te stesso per inseguire qualcosa che non ti appartiene, cosa resta? Mosche è un disco che non si piega, che racconta senza filtri e che accetta le fragilità come parte della bellezza di ogni persona.
Il disco unisce ritmi funky e rap a testi cantautorali e, talvolta, critici (mi hai ricordato un po’ Silvestri). La disillusione che si respira, per esempio in “Via con me”, è frutto di uno smarrimento che arriva da lontano “Sono traumi lontani che non passano mai”?
Assolutamente sì. La disillusione di Via Da Me non nasce da un momento preciso, ma da qualcosa di più profondo, che si porta dietro anni di esperienze, di errori, di tentativi andati a vuoto.
Quando canto ‘Sono traumi lontani che non passano mai’, parlo di quel peso invisibile che ognuno di noi si porta dentro, di quelle cicatrici che, anche se pensi di aver superato, restano lì, pronte a farsi sentire nei momenti di smarrimento. Io di cicatrici ne ho tante, dovute a un’adolescenza molto difficile, per tanto tempo ho pensato che fosse giusto nasconderle, che mostrarle fosse un segno di debolezza, poi ho capito che quelle ferite non erano solo mie, ma accomunavano tante altre persone. E proprio per questo ho voluto parlarne, per dare a tutti la libertà di accettare le proprie fragilità senza vergogna.
Nel disco c’è tanto di questo: la voglia di trovare un equilibrio tra la leggerezza del funk e la riflessione più cruda del cantautorato e del rap. La musica mi ha sempre aiutato a dare un senso a quel caos interiore, e Mosche è anche questo: un racconto senza filtri di quello che significa sentirsi persi, ma continuare a cercare un posto nel mondo.”
“I Pensieri degli Altri” mi ha fatto pensare a quanto sia diversa la vita ora che vivi a Roma. Cosa ti manca di più del Sud in una tua giornata tipo?
“I Pensieri degli Altri” è il brano più vecchio del disco, il primo che ho chiuso.
È un pezzo che per me ha un significato forte, perché parla di quanto sia importante non farsi influenzare troppo dalle opinioni altrui.
Come dico nello special della canzone: “Loro vivranno sempre nei loro panni” ed io ho sempre preferito sbagliare da solo piuttosto che prendere una decisione ascoltando qualcun altro.
Questo non significa che non accetto consigli, anzi, ma alla fine credo che certe scelte debbano partire da dentro, senza il peso delle aspettative esterne.
Per quanto riguarda il Sud, quello che mi manca di più è la sensazione di non essere un numero. A Roma mi capita spesso di sentirmi solo una persona tra tante, uno sconosciuto che si muove in mezzo a una città enorme, è raro incontrare qualcuno per caso e fermarsi a prendere un caffè. Invece, quando torno in Calabria, mi fermo ogni venti metri a salutare qualcuno, a bere una birra con un amico che non vedevo da tempo, lì non mi sento un numero, ma parte di una famiglia, ed è una cosa che al Sud si respira ovunque.
E poi della mia terra mi manca il mio mare, ne conosco ogni fondale, ogni sfumatura di colore. Lì il tempo si ferma, mentre più sali al Nord e più sembra scorrere veloce, forse è per questo che, ogni tanto, sento il bisogno di tornare: per ritrovare quella calma e quella familiarità che solo certi luoghi sanno darti.
Sei un grande appassionato di cinema; In che modo questo ha influenzato la tua narrativa?
Il cinema ha influenzato tantissimo il mio modo di scrivere. Quando compongo una canzone cerco sempre di creare immagini, di raccontare storie che possano essere viste oltre che ascoltate. Mi piace pensare ai miei brani come a delle scene di un film, dove ogni parola e ogni suono contribuiscono a costruire l’atmosfera giusta.
Amo i registi che sanno raccontare la realtà senza filtri, quelli che riescono a trovare poesia anche nelle situazioni più crude. Tarantino, ad esempio, mi ha insegnato l’importanza del ritmo nei dialoghi e della costruzione di personaggi autentici, mentre Sorrentino mi ha influenzato per la sua capacità di rendere ogni immagine potente ed evocativa.
Nel disco ci sono tanti elementi cinematografici, e gran parte del merito va anche a Mario Russo, mio cugino, che oltre a essere musicista è attore.
È stato lui a spingermi a inserire dettagli che rendessero l’ascolto ancora più visivo. Penso a “Aspirapolvere”, con la madre che passa l’aspirapolvere mentre il figlio sta registrando, o a “Lunedì”, con la voce di un uomo che non riesce ad avvicinarsi a una donna per paura di mostrarsi per quello che è.
Il cinema mi ha insegnato che le storie funzionano quando riescono a far immedesimare chi le ascolta, e nella mia musica cerco di fare esattamente questo: raccontare qualcosa che non sia solo mio, ma che ognuno possa sentire come proprio.

Per ogni cosa c’è un posto
ma quello della meraviglia
è solo un po’ più nascosto
(Niccolò Fabi)