“Qualunque sia il tuo Impero, ovunque si trovi, qualsiasi nome abbia, ci deve essere da qualche parte un suono che lo farà crollare.”, ce lo aveva presentato così il suo concept tour teatrale, Mannarino. E noi siamo andati a scoprire quale suono facesse crollare anche noi, e il nostro essere, ieri sera – 17 aprile – alla seconda data napoletana del tour, presso il Teatro Augusteo.
Un sold out quasi immediato per la data originaria del 16 aprile, l’esigenza di un raddoppio, sono lontani i tempi in cui Mannarino, nella stessa location, faticava a riempire la sola platea, e per fortuna oserei dire. Da estimatrice storica di Alessandro, ma da non conservatrice e potenziale hater quando uno dei miei beniamini raggiungono il successo, riesco a constatare che l’essenza dell’artista non si è persa, confondendosi nella fama acquisita.
“More is less”, potrebbe essere il sottotitolo alla serata. Poche chiacchiere, tanto teatro e teatralità, tanta musica, tanti musicisti. Una band ricca, sette in tutto i protagonisti a condividere il palco con Mannarino, egli stesso alle chitarre. Tutti con il volto dipinto, a non volersi assomigliare più, dei segni che hanno la leggerezza della piume di una fenice in rinascita, dalle ceneri di un impero appena crollato. Un inizio patriottico – “Roma”, questo omaggio alla sua città da sempre bastone e carota, nonostante i limiti esistenziali di una grande metropoli che la rendono inevitabilmente un bastone per i suoi abitanti, ma quando la chiama “Amor all’incontrario” si percepisce bene quanto questa sia la carota più dolce che il nostro artista riesca a mangiare. Otto canzoni senza pausa, le chiacchiere stanno a zero, stasera si suona. Un Alessandro molto concentrato, spesso in una mise en place caratterizzata dalle mani in tasca, quasi a rimarcare una distanza con i suoi fan, quello era il suo tempo, un momento che serviva a lui per rompere il ghiaccio con se stesso, per smorzare l’emozione e riuscire a mettere un filtro che potesse “proteggerlo” dall’eccessiva esuberanza e calore del pubblico napoletano.
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- 16 Mannarino
- Mannarino Rock in Roma 2017 12
Ma il momento intimistico cessa, cala il velo del primo atto e Alessandro riprende posto sul palco, sulla sua sedia da apparente set acustico, e inizia ad interloquire con il suo pubblico, che – contrariamente all’estasi su Marylou o Babalù – lo ha ascoltato silenziosamente, quasi come si ascolta un uditore in congresso socio politico. Chi conosce il cantastorie romano saprà due punti cardine dell’artista: il suo essere riservato e schivo, e la sua vicinanza ai temi sociali, così come l’amore per quelle terre apparentemente dibattute come il Brasile da cui è appena tornato. E queste due sue peculiarità le riassume perfettamente nel monologo che utilizza fare come escamotage per intrattenere, o meglio educare, il suo pubblico all’ascolto verace della musica, quella che si vive come peso sull’anima e non come mera condivisione social, perchè momenti come questo show sono da vivere “quì e adesso” non “poi e attraverso video impressi su uno schermo”. Complice la presenza di una associazione casertana di inclusione degli immigrati, con un alto tasso di amici oltre Mediterraneo in sala, Alessandro ha affrontato la celeberrima “questione Meridionale”, parlando di fratelli sporchi e indegni, usurpatori del reddito italiano e della più grande invenzione “paracula” della Nazione Italia. Il Regno di Napoli prima, come quello delle Due Sicilie poi, sono storicamente i centri più ricchi d’Europa, ma l’italiano – si sa – è un popolo dalla memoria corta, e adesso le carte in tavola si sono ribaltate, siamo rei di colpe da espiare e – per dirla alla Mannarino – “di petti da battere, di cilici da indossare, e da processioni verso la Madonna dell’Arco da compiere a piedi scalzi e ginocchia rotte!”. Ogni tempo ha le sue schiavitù, e quella attuale sono i cellulari, lo schiavismo verso questo oggetto ricco di contenuti, che “riempie” gli spazi pervasi di noia, ma ci rende sempre e unicamente più soli.
Rotto il ghiaccio, il pubblico è caldo, giù i telefoni e su con le voci, è il momento più emozionale dello show, il cantautore si dibatte in un apparente paradossale dialogo con “i muri” del teatro, facce ricche di espressioni, e spesso, lunghe risate da parte dello stesso. È così che inizia a strimpellare i soli quattro accordi che caratterizzano il brano parlato “Er Carcerato”, in cui i protagonisti sono una zanzara, i muri, un cappellano, un gabbiano e la famosa pena da espiare.
Se finora avessimo avuto dei dubbi sulla scelta della location per un folk così da piazza, come è quello di Mannarino, adesso i dubbi sono stati sciolti integralmente.
Saranno state le sue stesse risate, il pubblico in sibilio, l’entusiasmo sui volti del parterre, ma la tensione sembra allentata, le mani in tasca adesso sono rivolte al pubblico in un incitamento di “alzare le chiappe dalle sedie e iniziare a ballare”. Scaldati così i motori è il momento della title track del concept tour, proviamo a far “crollare l’impero”, raccogliendo le ceneri di tanta interiorità ed utilizzandole come carburante per l’energia che ci servirà per un mix di grandi classici del canta-storie. Ecco il momento di “Tevere Grand Hotel” prima di uscire di scena per poi rientrarvi e cimentarsi in una chiusura in grande e vecchio stile “Me so mbriacato” vs “Serenata Lacrimosa”, ma senza trascurare un momento di romanticismo con “Le Rane”.
In un panorama musicale così costernato di synth, basi così uguali, melodie quasi da karaoke e voci troppo spesso affidate ad auto-tune, l’intensità black, a tratti soul, di Mannarino ti riporta nella tua cameretta, col CD appena acquistato e stessa vocalità. Avevo iniziato con un sottotitolo per descrivere la serata, “More is less”, e questo “meno” è la vera peculiarità dell’artista: meno ghirigori nella voce, meno sonorità distorte e computerizzate anni ottanta, meno artefizi anni novanta, meno gossip, meno parole, più musica e messaggi umani.
Se questo concerto fosse stato messo ai voti, il mio sarebbe stato un nove pieno. Non un dieci, troppo pretenzioso per un artista così poco “pop”, che “popular” non è una parolaccia ma un termometro di gradimento globale, ma un voto così alto per chi – nonostante il successo – mi ha fatta ritrovare esattamente nello stesso posto, con le stesse emozioni di quattro anni fa, quando in sala eravamo un terzo dei presenti.
SCALETTA:
Roma
Marylou
Apriti Cielo
Malamor
Babalù
Rumba Magica / L’ultimo giorno dell’umanità
Deijà
Al Monte
Le Stelle
Er Carcerato
Scendi giù
L’impero
Gli Animali
Arca di Noè
Tevere Grand Hotel
L’onorevole / L’impero
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Le Rane
Me So ‘Mbriacato
Serenata Lacrimosa
A cura di Fabiana Criscuolo
Foto di Giusy Chiumenti
