Le Ragazze Terribili: trent’anni di musica, arte e cultura [Intervista]

di InsideMusic

La Cooperativa Le Ragazze Terribili, celebrati i 30 anni di attività, punta ancora una volta sul grande valore della proposta, declinata fra grandi interpreti e grandi voci della musica italiana, strizzando l’occhio alla novità, all’innovazione e all’evoluzione del cantautorato, senza perdere di vista la scena emergente nazionale e quella isolana sempre ben rappresentata sul palco del festival. Sassari è la scena su cui tutto si muove, i suoi scorci, il suo centro storico e i suoi teatri, dal Nuovo Comunale al Verdi, passando per Palazzo di Città e sino a Largo San Sebastiano e alcortile di Palazzo Ducale. Una città da vivere, da ascoltare, da scoprire e riscoprire anche grazie all’arte ed agli artisti, in pieno ABBABULA style. Scambiamo quattro chiacchiere con Barbara, una delle ragazze terribili.

Ciao Barbara, ti conosciamo come una delle “ragazze terribili”, un nome singolare per descrivere un’organizzazione culturale e di promozione artistica del territorio, tutta al femminile, attiva da trent’anni. Come nasce l’idea di questa cooperativa e dopo tre decenni come è cambiata la sua mission?
Ciao Fabiana, questa cooperativa nasce dall’idea condivisa di un gruppo di amiche giovincelle dato che parliamo di trentun anni fa, che condividevano la passione per i viaggi, i concerti dei loro artisti preferiti insieme al desiderio di poterli portare qui in Sardegna. Eravamo un gruppo di ragazze vivaci e un amico comune ci propose come battesimo del fuoco questo nome e poi alla fine ci è rimasto addosso come una seconda pelle. In un secondo momento tutto è cambiato, alla nascita eravamo una associazione culturale e invece quasi quindici anni fa decidemmo di costituirci in cooperativa perché c’era la necessità di dare una struttura più solida a quello che era diventato ormai un lavoro per tutte noi.

A proposito di cultura e di territorio avrei molte curiosità in merito, la radicazione di un sardo verso la sua terra è sicuramente una delle più forti e genuine della penisola, e la Sardegna stessa è simbolo di battaglie simboliche che combatte in sostegno dei propri diritti (non ultima quella dei pastori sardi di poche settimane fa); quanto questo spirito incide nella scelta di continuare ad investire nello stesso territorio senza farsi assalire dalle manie di espansione?
Molto, incide davvero molto. La lontananza dalla terra ferma si sente qui, nel senso che comunque – malgrado i social, malgrado tutto – viviamo in una terra con confini netti, definiti, che sono quelli del mare, sentiamo questa identità molto forte, molto salda, che poi ci porta a fare delle scelte di produzione artistiche proprio legate al nostro essere così antichi.

In che senso “antichi”, come mai hai scelto questo termine?
Perché ci sentiamo antichi; ogni volta che usciamo per le nostre campagne ci sono terreni che hanno tremila anni che sono un filo conduttore diretto con la nostra storia, col nostro passato e il nostro DNA.

Sulla cultura e sull’esigenza di fare un investimento maggiore vorrei aprire una parentesi a sé. Proprio in Sardegna a marzo si è verificato un episodio di razzismo, una foto bellissima che ritraeva due bambine, di cui una di colore, con gli abiti tradizionali sardi, e colei che l’ha postata, per altro una artista – la cantautrice Claudia Aru – è stata vittima di minacce anche di morte. Ignoranza e razzismo spesso si contrappongono, eppure l’arte dovrebbe unire. Cosa pensi di quell’episodio e soprattutto cosa fa la tua associazione in questo verso?
Innanzitutto conosco bene Claudia, è stata ospite di una delle passate edizioni del festival e la stimo molto sia come artista che come donna perché ha molto coraggio nel portare avanti le sue battaglie che poi sono le nostre battaglie, quelle delle persone che non hanno confini, non hanno colori, non hanno limiti mentali soprattutto. Io credo che quell’episodio sia stata una parentesi molto triste, sintomo dell’aria che respiriamo in questi anni, aria che chiaramente non condivido. Quello che cerchiamo di fare è il nostro lavoro fondamentalmente, che ti assicuro è difficile, perché nonostante si parli tanto di pari opportunità, essere una realtà completamente al femminile ha sempre degli svantaggi e dei limiti quando ti rapporti con il potere, sia musicale che politico, che rimane in mano agli uomini. La nostra esistenza io la vivo un po’ come un presidio costante, ed è impegnativo ma fonte di molto orgoglio continuare ad esserci.

Parliamo del Festival adesso, l’Abbabula che è arrivato alla sua ventitreesima edizione e si arricchisce sempre più di nomi altisonanti. Ci racconti la sua genesi?
Esso nasce nel 1996, ha fatto due anni di pausa in questo ventennio legati a periodi difficili, già il nome stesso di Abbabula richiama questo mood perché richiama la contrazione della frase sarda che vuol dire “acqua alla gola”. La sua nascita rappresenta uno di quei passaggi chiave nella nostra storia in cui si annidava il desiderio di mettere qualcosa di fisso, di stabile nella nostra costruzione, e quindi l’idea di un Festival che fosse legato alla musica d’autore, alle espressioni artistiche di autori che noi stimiamo, amiamo che ma che pensiamo possano piacere anche al nostro pubblico. Si è evoluto come festival anche se già nelle prime edizioni avemmo grandi nomi come i Modena, nel 97 in una edizione al femminile ospitammo Carmen Consoli e Cristina Donà.

Qualche settima fa è stata la cosiddetta (e quest’anno anche molto discussa) Festa della Liberazione, la festa della libertà ritrovata per noi come popolo. Sinonimo di libertà è musica, quella che però riesce a liberarsi dalle etichette del genere e dare emozioni incondizionatamente. Nella guerra continua fra indie e mainstream il palco dell’Abbabula ogni anno è il simbolo di tale libertà artistica, come nasce la selezione degli artisti?
Chiaramente innanzitutto è legata alle uscite discografiche che ci permettono di trovare artisti in tour, è legata al fatto che il festival in questi anni si sia costruito una sua identità e così ci vengono proposti degli artisti con molta facilità e infine è legata al nostro gusto e alle nostre passioni. La scelta dell’omaggio ad Ivan Graziani è stata fortemente voluta perché sentivamo forte il bisogno di dare un segno, un omaggio al rispetto che proviamo verso un artista come lui e da li l’idea di contattare Filippo, il figlio e di scegliere come soluzione lo spettacolo con Andrea Scanzi. Poi c’è lo scouting che facciamo sempre, sia con gli artisti locali che andiamo a vedere, ascoltare, sia sugli artisti nazionali.

In ventitré edizioni e un continuo passaggio di big della musica, oltre di talenti in ascesa, ci saranno molti aneddoti che potrete raccontare ai vostri nipotini. Qualcuno che ti va di condividere anche con noi?
Ce n’è uno molto bello che è legato a Fabrizio De Andrè, di cui quest’anno celebriamo i suoi vent’anni dalla sua scomparsa. Quando lo ospitammo fu in un palazzetto dello sport in quel di Sassari e l’episodio che ricordo con particolare affetto è di quando al termine del concerto andammo a salutarlo in camerino e lui era seduto in questo spogliatoio di un palasport così vuoto ed essenziale, lui seduto dietro ad un tavolino con un piatto di farinata genovese che però è anche caratteristica qui di Sassari e di altre località della Sardegna per la forte presenza di genovesi che c’è stata a partire dall’Ottocento, e lui ne approfittò per mangiare questo piatto della memoria post concerto. Quello fu un concerto che ci rischiammo davvero tanto sotto molti punti di vista, anche a livello economico, fu veramente una full immersion nel mondo degli affari che comunque fu abbastanza estraniante per noi.

In conclusione: una frase che possa riassumere il ruolo del direttore artistico di un festival di questa caratura?
Curiosità, sempre essere curiosi, mai dare nulla per scontato e avere sempre la voglia di dare una chance a chiunque, niente va preso e impacchettato con delle etichette immutabili. Non bisogna mai essere stanchi di fare musica

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