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L’Angelo del male: Brightburn, horror e fantascienza in un mix azzardato

by Elena Fioretti
l'angelo del male

Dopo “Avengers” e le varie versioni dei film sull’Uomo Ragno siamo abituati ad accostare la parola “supereroe” al nome Marvel, un universo patinato che comprende e accoglie tutti. Come voce fuori dal coro spunta il produttore e già regista de: “I guardiani della galassia” James Gunn. Gunn, invece, suggerisce un cambio di rotta tentando un esperimento: mescolare due generi, l’horror e la fantascienza, trasportando una narrazione da cinecomics in un mondo dominato da presenze oscure e classici stereotipi del cinema dell’orrore. Ecco nascere il progetto “L’angelo del male: Brightburn” nelle sale dal 23 maggio.

Per guidare la pellicola, Gunn, sceglie il collega David Yarovesky (già regista di “The Hive” nel 2015) e riesce in una campagna pubblicitaria che trasforma un’idea con risorse limitate, in un film con buone premesse.

Sinossi: una coppia qualunque che vive in Kansas, a Brightburn, conduce una vita normalissima e cerca, disperatamente, di concepire un figlio. L’aiuto arriva proprio dal cielo e Tori (Elizabeth Banks) trova in un bosco un piccolo neonato caduto insieme ad una navicella spaziale (che la coppia nasconde nel granaio di famiglia). Il piccolo Brandon (Jackson A. Dunn) cresce come un figlio modello: educato, bravo a scuola, non sembra far trasparire nulla delle sue vere origini che i genitori gli tengono nascoste. Fin qui niente di nuovo, anzi, il richiamo a Superman è alquanto telefonato. All’età di 12 anni, Brandon inizia a percepire la propria diversità, si scopre fortissimo, in grado di distruggere un tosaerba o di spezzare un polso ad una sua amica con la semplice pressione della mano. Contemporaneamente, inizia ad avvertire delle strani voci che lo richiamano verso il granaio. Come tutti i ragazzini le sue reazioni ai rimproveri si fanno sempre più esagerate e i genitori iniziano a preoccuparsi credendo di avere a che fare con un adolescente difficile. Gli stereotipi si susseguono: Brandon viene convocato dal Preside, la mamma lo sostiene con tutta se stessa continuando a ripetere: “È mio figlio, l’ho cresciuto io”, il papà inizia ad insospettirsi chiedendosi da dove venga Brandon. Il culmine arriva quando la mamma di una compagna di Brandon (di cui è probabilmente innamorato) minaccia di non fargli più vedere la figlia.
In Brandon scatta qualcosa che lo trasforma in un supereroe al contrario: con un calzino in testa, come un novello giustiziere, Brandon la coglie di sorpresa nel luogo dove lavora e la uccide in maniera macabra per poi rapire e far scempio del suo corpo. Stessa sorte per lo zio, che viene letteralmente schiacciato nella sua auto, colpevole solo di aver sgridato il nipote. Brandon diventa l’idolo di ogni ragazzino: con la sua potente forza può vendicarsi in maniera terribile di chi gli vieta di giocare o minaccia di rivelare ai genitori cosa combina.
L’atmosfera inquietante è ben resa e il giovane Jackson A. Dunn ha un forte talento nel rendere la duplicità del suo personaggio: così tenero e piccolo ma così terribile e aggressivo. Il problema è nello sviluppo dei personaggi. Gli adulti sono intrisi di cliché e non hanno una crescita ben definita (la madre fedele al figlio oltre ogni logica; il padre burbero che passa dall’amore al sospetto senza una spiegazione; la zia psicologa, interessante all’inizio ma inesistente alla fine; la compagna di Brandon che intuisce qualcosa ma che, per paura, non riesce a spiegarlo). Lo stesso sviluppo emotivo del protagonista appare incomprensibile, perché Brandon uccide? Cosa lo spinge? Una forza innata, un istinto o una minaccia aliena che agisce attraverso di lui?

Il finale ci lascia basiti e delusi. Un film con grandissime premesse che doveva essere innovativo, si rivela banale e stereotipato soprattutto per quanto riguarda la sceneggiatura, nonostante gli sforzi degli attori. Peccato.

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