L’amore e la violenza dei Baustelle all’Auditorium Parco della Musica

di Luca.Ferri

Il trio toscano ha chiuso il tour invernale ieri a Roma. Un live che ha ripercorso vecchi successi e tutte le tracce dell’ultimo disco uscito lo scorso 13 gennaio

Piacciano oppure no, due cose rimangono nell’aria dopo un concerto dei Baustelle. Primo, un senso di alienazione dato da uno scambio di energie inconscio, quasi suggerito dal pubblico che si avvicina alla band e che, con l’avanzare delle canzoni, viene ripagato dalla timida riservatezza del gruppo che si tramuta in gratitudine ed empatia crescenti.

In secondo luogo permane il gusto di aver assaporato un’atmosfera musicale particolare, che fatica a trovare un’etichetta e che conserva una sua unicità nel panorama italiano. In un Auditorium Parco della Musica gremito, ieri il trio senese ha chiuso il tour invernale de L’amore e la violenza, disco uscito lo scorso 13 gennaio per Warner Music Italia.

Una scenografia minimale ma moderna e suggestiva, con quattro cubi sullo sfondo a ricreare l’immagine di dadi su cui erano poggiate le strumentazioni più contemporanee. Sei musicisti ad abbracciare Francesco Bianconi, sempre impeccabile nel suo fisico slanciato, definito da lui stesso “chic” e non magro e la splendida Rachele Bastreghi, iperattiva tra tastiere e percussioni.

L’opening – act è stato affidato, come in tutto il tour, ad una piacevole giovane sorpresa, il cantautore toscano Lucio Corsi che in chiave acustica ha eseguito accattivanti bestiari musicali, incastrati tra surrealismi, paradossi e metafore.

La prima parte della scaletta ha riproposto gli estratti dell’ultimo album, in una sala Santa Cecilia ancora timida e un po’ ingessata nelle limitanti poltrone rosse. Ma dopo Love e Il Vangelo di Giovanni è bastato il travolgente pop di Amanda Lear a sciogliere le ugole e a far avvicinare qualche impavido al palco.

Da lì si sono snocciolati tutti i pezzi de L’amore e la violenza, tra sonorità anni ’80, sintetizzatori, sperimentazioni moderne. La tipica aura della band si è alzata sul pubblico, quel tipico contrasto che fin dalla nascita, ormai diciassette anni fa, caratterizza il trio di Montepulciano.

Sì perché è proprio il contrasto la sensazione che si avverte da pubblico, quello scontro paradossale tra concretezza ed ineffabilità, tra quotidiano e surreale, tra sacro e profano. Il potere dei Baustelle è sempre stato quello di evocare ossimori sensitivi, tra chiese e giostre, tra santi e puttane e il binomio che personifica tutto questo è perfetto: Francesco, con il suo charm fatto di ironia sorniona sotto la veste di una timida riservatezza e la maestria vocale e polistrumentista di Rachele che, negli ultimi anni, è esplosa in una grinta brillante. Padrona del palcoscenico, fa gli onori di casa in un dinamismo travolgente spostandosi continuamente tra tastiere, synth e percussioni.

Il volo pindarico continua tra sonorità che si mischiano, si scambiano e si sovrappongono tra pop, folk, rock, elettronica e, senza accorgersene, si torna alle origini: arrivano Charlie fa surf e Un romantico a Milano, che scuotono gli animi e fanno alzare le voci. Ma è in pezzi come Gomma e La guerra è finita che il pubblico esplode, le cinture della compostezza “da teatro” vengono tranciate e i fan, che fino a quel momento avevano lottato per contenere l’entusiasmo, si riversano sotto palco, in una corsa liberatoria verso Francesco e Rachele che li accolgono visibilmente emozionati.

E allora le braccia si alzano, le mani si incrociano, le poltrone si svuotano, i corpi si avvicinano in quella sorta di rito sciamanico, fatto di estasi e di liberazione che solo un live può dare. I Baustelle sanno che questo è un regalo per loro, loro accusati di essere depressi e chiusi, loro che non hanno come impostazione esattamente quella alla Mick Jagger o alla Sid Vicious. Ma è forse una colpa?

Ognuno ha il proprio modo di comunicare e, nonostante negli anni il trio toscano si sia sciolto moltissimo con il pubblico, la cifra distintiva rimane quella di una sorta di pudore, una timidezza reverenziale che non toglie nulla all’espressività perché confida nella naturale intesa che si innesca tra loro e chi vuole coglierne tutta l’interiorità.

L’empatia riservata, priva di orpelli e ostentazioni, ha raggiunto il culmine in pezzi come Bruci la città, toccando la commozione nei due brani regalati da Rachele, La canzone del parco e Aeroplano. Un silenzio di adorazione, un’esecuzione nuda e viscerale, sostenuta dalle doti canore e dai riverberi evocativi della timbrica.

La platea, diventata a quel punto parterre, geme e invoca brani e bis dopo la seconda uscita della band. Con l’amara consapevolezza dell’avvicinarsi della fine del live, arrivano brani come Moda del lento, l’amata Le rane, fino ad arrivare all’inedita Veronica 2 e la cara vecchia Canzone del Riformatorio.

Dopo Altalena Boy con il piacevole saluto di Lucio Leoni, arriva l’epilogo. Una fine, un commiato malinconico annunciato da Francesco come un arrivederci nostalgico, affidato a Piangi Roma che vuole essere un conforto, “un’assurda specie di preghiera, che sembra quasi amore”.

E quello di ieri all’Auditorium Parco della Musica è stato proprio questo, un pianto liberatorio di musica e poesia, di amore e di violenza.

Sabrina Pellegrini

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