Abbiamo incontrato i ragazzi de La Scala Shepard al Mons, dove ogni giovedì il direttore artistico Jacopo Ratini ospita una serata all’insegna dell’ottima musica.
In questa occasione abbiamo fatto due chiacchiere con loro prima dell’inizio del concerto. Da Spaghetti Unplugged ad Eureka, passando per Kahbum: ecco cosa ci hanno raccontato Alberto, Claudia, Lorenzo e David.
Band romana nata nel 2014 fra le strade trasteverine. Da chi è composta La Scala Shepard?
A: Alberto Laruccia, voce e chitarre. Compongo musica e testi. Lorenzo Berretti, basso e sintetizzatori. Compone musica e testi. David Guido Guerriero batteria e drum machine. Sovente compone musica e testi, ma meno sovente dei due sopracitati. Claudia Nanni, voce e synth. Di fatto, molto risicatamente, questo è quanto.
Ok. Se volessimo ampliare il discorso?
A: Se volessimo ampliare il discorso, il nucleo de La Scala si è formato dieci anni fa. Eravamo dei pupi, avevamo tredici/quattordici anni. E siamo io, Lorenzo e David. Suonavamo tutt’altro, suonavamo progressive rock con delle strutture talvolta, insomma, che ad oggi non riprenderemmo mai in mano ma perché ovviamente siamo cresciuti in una certa maniera e siamo arrivati a quel progetto con altri due elementi verso i diciotto anni. C’è stata una separazione e poi è arrivata Claudia. Quindi, da un paio d’anni a questa parte, si lavora insieme. Attivamente forse lo facciamo da gennaio 2016, in maniera molto attiva soprattutto su Roma. Ci sono alcune situazioni che ti permettono di uscire in maniera molto forte e di avere un certo tipo di risonanza: una di queste per noi, fondamentale, è stata Spaghetti Unplugged dal quale siamo usciti a febbraio. Abbiamo suonato lì per la prima volta a fine gennaio del 2016, un anno fa, quando però il primo lavoro auto-prodotto era già uscito sei mesi prima e già aveva avuto un tour auto-organizzato, senza che a Roma qualcuno sapesse chi fossimo e quant’altro, suonato molto molto in strada e molto poco nei locali. Però ci ha permesso di giracchiare un po’. On the road, quasi. Ci ha permesso di fare molta esperienza. Però, quello che La Scala Shepard è, quella che si esibirà su questo palco stasera, è frutto di una crescita avvenuta nel corso dell’ultimo anno. Quella che si esibirà tra qualche mese sarà tutt’altro.
Ad agosto del 2015 avete pubblicato il vostro primo album in studio interamente auto-prodotto, Di passaggio. Mentre lo scorso novembre avete pubblicato Eureka, co-prodotto da MusicRaiser ed Alessandro Martinelli. Parliamone un po’.
L: Il primo disco è stato fatto nel box dove proviamo, è stato registrato lì a costo zero. Gli unici costi che ci sono stati sono stati quelli di stampare il disco fisico. Anche la modalità di distribuzione è stata totalmente a carico nostro, ovvero, suonando in strada vendevamo là i dischi. Oppure durante il tour on the road, insomma. Ogni volta in cui facevamo i buskers… Continuiamo a vendere nei live, però personalmente ritengo che il modo migliore per vendere, almeno dal punto di vista quantitativo, sia per strada. Per strada riesci a prendere molte più persone che passano e che possono essere interessate. Il rapporto è molto più immediato, molto più diretto, l’ascoltatore ci mette molto poco a capire se gli interessa il prodotto o meno. Dal punto di vista invece dei concerti le vendite ci sono, ci danno molta soddisfazione, però sono più difficili. Per assurdo è più difficile convincere il pubblico con un’ora e mezza di live piuttosto che convincerlo con una prima impressione di dieci minuti. Questa seconda modalità, quella della vendita nei live, è iniziata soprattutto da febbraio del 2016 ed è continuata con Eureka. Eureka l’abbiamo praticamente venduto solo nei live o su MusicRaiser. La differenza fondamentale poi dal punto di vista della registrazione è che la registrazione è stata fatta da Giancarlo Barbati, aka Giancane, e lì c’è stato un team di persone che ci hanno seguito, tra le quali Giancane appunto, che ci hanno permesso di fare un salto in avanti. Ci hanno anche insegnato un po’ di cose riguardanti la produzione, cose che noi vorremmo approfondire anche attraverso altre collaborazioni.
A: Sia chiaro, il seguirci di queste persone non ha costituito una produzione artistica. La produzione artistica di Eureka è stata esclusivamente de La Scala Shepard. Si potrebbe fraintendere, ma si è trattato solo di insegnamenti dati da persone pagate per lavorare esclusivamente alla registrazione che poi magari affezionandosi alle persone piuttosto che al prodotto hanno deciso di dare. Però condividiamo tutti quanti il pensiero di Lorenzo riguardo alla necessità nei prossimi lavori di affiancarsi a delle produzioni artistiche, senza dubbio.
D: Un’aggiunta che vorrei fare sui due lavori è che il primo, Di passaggio, è nato dalla necessità che avevamo proprio all’inizio, quando abbiamo iniziato a suonare insieme avevamo la necessità di buttare giù e di registrare qualcosa perché lo chiedevano i locali, lo chiedeva la gente che ci stava intorno, insomma. Il nome, Di passaggio, è stato proprio scelto a posta. Cioè, sapevamo che quello non fosse un lavoro definitivo. Era proprio un momento ed abbiamo descritto il momento con quel titolo. Avevamo bisogno di tirare fuori quello che eravamo in quel momento e passare oltre.
L: Era più che altro un conoscersi per avere un prodotto finito e per capire quale fosse il ruolo di ognuno di noi. Il gruppo funziona in questa maniera, ognuno ricopre un certo ruolo, si creano certi equilibri. Di passaggio ed Eureka sono stati questo fondamentalmente: la creazione di ruoli.
D: Cioè, Di passaggio è stato un momento, come ha detto Lorenzo, in cui ci stavamo scoprendo, stavamo cercando di capire i ruoli all’interno della band ed il nome Eureka lo abbiamo scelto per dare un nome ad un periodo nostro. Cioè quello durante il quale abbiamo capito, abbiamo scoperto.
Qualcuno lo ha definito appunto “una bella scoperta”.
A: Da un certo punto di vista, per quanto ci riguarda, questo disco è già vecchio. Parlo per me, ma in linea generale noi abbiamo già la necessità di uscire fuori dalla dinamica che abbiamo creato in questo disco, no? Esiste un tema di soddisfazione personale, una volta che un prodotto è finito, e devo dire che c’è stata perché è un prodotto ben fatto. Però forse continua ad essere un po’ incompleto. Diciamo che la cosa che La Scala in generale soffre è l’etichetta folk. La musica folk, o comunque indie-folk…
È una definizione molto ampia…
A: Sì, è ampissima, però appunto per questo ci salva un po’ e quindi indie-folk forse ci può stare. Il folk in Italia è stato altro, è stata Giovanna Marini… È stata gente che ha cantato di lotta politica e quant’altro. Lo sono stati i Modena City Ramblers. Quindi paragonare una cassa in quattro al folk necessariamente è una roba che rompe un po’ i coglioni (per essere poetico). Abbiamo constatato che anche per quanto riguarda questo lavoro, nonostante abbia delle derive un po’ diverse, il singolo è un tentativo di bossa nova. Non ci azzardiamo a dire bossa nova, perché poi fai un viaggio a São Paulo e dici: “Boh, forse non ho mai capito niente della bossa nova!”… Però ci sono effettivamente degli sbalzi, dopodiché evidentemente ci sono delle sonorità che ricordano ancora il folk. Da queste in qualche modo, anche se molto lentamente, ci stiamo cominciando ad allontanare. Sia chiaro, è una scelta molto sentita.
L: Per riassumere molto brevemente, sono stati entrambi dischi di esigenza: il primo appunto per avere un prodotto; il secondo per avere un prodotto degno. La differenza è che il primo è stato composto velocemente e registrato velocemente. Il secondo invece è stato composto velocemente e registrato lentamente. Il prossimo passaggio sarà comporre lentamente e registrare lentamente, in modo tale da riuscire ad essere un po’ meno etichettabili.
C: In realtà, l’altra dinamica che ha un po’ portato all’esigenza di Eureka è stato il fatto di aver perso un elemento a febbraio dell’anno scorso. Avevamo un secondo chitarrista che suonava la chitarra elettrica o l’acustica in determinate occasioni. Ha suonato in Di Passaggio e quando ha deciso di abbandonare il gruppo è nata la necessità di uscire per forza con un nuovo lavoro che dicesse: “Ok, è successo questo però noi stiamo bene, abbiamo trovato un altro suono, ci siamo ritrovati tra di noi ed abbiamo ritrovato un equilibrio”… C’è stato un iniziale tentennamento riguardo al fatto di inserire di nuovo una quinta persona che sostituisse quella che era andata via. Ma sarebbe stato troppo complicato forse ricreare quello che c’è tra di noi che comunque ci conosciamo da anni. Sarebbe stato difficile inserire un elemento nuovo perciò abbiamo fatto prima a radere tutto al suolo e ricominciare da capo.
D: L’uscita di una chitarra elettrica ci ha permesso, tra virgolette, di scoprire che avevamo le carte in tavola per creare un suono completamente diverso. L’uso del synth, da parte di Claudia, è derivante dal fatto che fosse uscito Michele in quel momento. Cioè, dovevamo sopperire a questa mancanza usando dei synth. Lei era l’unica con le mani disponibili. Il nostro sound è nato da un’esigenza e poi è andato a convogliare in quello che siamo attualmente.
Quindi ciò che è successo non è stato del tutto un male…
D: Ci ha fatto scoprire cosa siamo, ecco.
C: Ci ha fatto anche un po’ crescere. Anziché buttarci giù e piangere, ci siamo rimboccati le maniche.
Fra i brani contenuti in questo album ce n’è uno che ha attirato la mia attenzione sin da subito, Non ti fidare mai di un artista. Sicuramente per il titolo. Poi l’ho ascoltato ed ho anche guardato il video. Cosa avete cercato di raccontare? Spiegatemelo.
L: Il video fondamentalmente prende di mira un certo modo di intendere l’arte. Certe volte si tende più a fare equazione anziché a fare qualcosa di creativo, quindi unico. Molto spesso si ricorre a messaggi banali o comunque di facile comprensione/assimilazione da parte del pubblico…
C: …messaggi stereotipati.
L: Questo modo di fare arte è un po’ un prendere per il culo il pubblico. L’artista prende per il culo il pubblico in ogni caso perché nel momento in cui ripropone qualcosa che ha scritto a casa dal vivo non può sentirla quella canzone, non può sentirle quelle parole come quando le ha scritte. De André stesso lo diceva: “Io vorrei dire al pubblico alla fine di ogni concerto che ciò che ha visto è stata una finzione. Il vero sentimento sta nella creazione, tutto il resto è una riproduzione”. Mister T viene preso di mira nel video poiché è il simbolo di quell’arte che ti fa vedere tutto bello e che se segui gli ideali giusti, i valori giusti, vincerai sempre sconfiggendo ogni nemico e bla, bla, bla. Il problema è che non è così, la realtà non è questa. Però è una realtà, quella rappresentata da Mister T, che può attirare un pubblico di bambini e di genitori, soprattutto, che comprano loro tutti questi fumetti dove ci sono tutti questi messaggi ipocriti. Quindi il video tenta di porre Mister T sotto una luce diversa, ovvero nella sua vita reale, come uno stronzo, poiché non pensa ciò che dice e lo dice solo per convenienza.
Parliamo di Kahbum. Si tratta di una serie musicale online che racconta la nascita di una canzone attraverso la collaborazione tra due cantautori o due band… A voi è stato chiesto di fare in dieci giorni una canzone dal titolo Mi hai regalato un poncho, ma non saprei che farne. Avete deciso di ambientarla nella Grande Guerra. Com’è nata l’idea e come l’avete sviluppata in musica?
A: Kahbum prevede una parte in studio ed una parte live. La parte in studio consiste nell’incontrasi e nello scrivere una canzone in novanta minuti, la parte live da dieci giorni disponibili. Loro decidono il titolo e decidono quali artisti prenderanno parte a questa cosa. Quindi, dopo averci dato il titolo (un titolo sufficientemente indie, fin troppo indie), la situazione andava catapultata. Andava giocata in una certa maniera. Inevitabilmente ogni situazione interessante è un’occasione per mostrare dei lati che in alcuni casi non sono venuti fuori. Ci sono dei lati di noi che non vengono fuori così spesso e c’è un lato di noi che sembra venga fuori molto spesso: quello della spocchia. Invece c’è un lato molto forte, che è quello del prendersi poco sul serio, di essere molto ironici, di prendersi molto per il culo. Il risultato di quel brano è questo: è un esercizio di stile, di fondo. Nel senso che è una gran sega a due mani a noi stessi quindi, se vuoi, è un po’ una cosa spocchiosa però allo stesso tempo denota la capacità di prendersi totalmente per il culo, di saltare da un genere all’altro per quanto possibile. Ci auguriamo che questo format abbia lunga vita, riprenderà con una nuova stagione in studio e continuerà con i live. Però sta funzionando. La nostra preoccupazione principale fu che quella sera ci dissero, dopo aver suonato, che le riprese audio non erano andate a buon fine. Poi fortunatamente sono riusciti a recuperare il video. Però la nostra principale preoccupazione, al di là del fatto di partecipare ad una serata che era molto partecipata di per sé e di farci conoscere da persone che non ci conoscevano, era anche il fatto poi di poter diffondere questa roba qua perché era importante far capire che c’è questo spirito qua…
C: … che siamo dei gran cazzaroni.
A: Sì, c’è lo spirito non ti dico di Elio e le Storie Tese perché esagererei (sono tutt’altra cosa). Lorenzo forse direbbe degli Skiantos, piuttosto. C’è un’incapacità di prendersi sul serio, una volontà di scostarsi da questo pensiero. Farlo per finta.
L’ho percepita questa cosa. Prendete un po’ per il culo tutto e tutti.
C: Sì, noi compresi. Molto spesso la cosa del “noi compresi” non viene vista. Penso faccia parte anche del mestiere, diamo il meglio di noi stessi durante i live, dove abbiamo modo di poter tirare fuori veramente il meglio ed il peggio di noi.
A: Ciò che colpisce di più è l’energia, non sono tutte le chiacchiere che facciamo o quant’altro.
C: Anche il fatto di fare quasi più uno spettacolo anziché un semplice concerto è una cosa che viene naturale. Siamo abituati così.
A: A differenza di molti gruppi che poi ad un certo punto arrivano e di cui si sentono le storie lontane, pensiamo ai Police che hanno fatto una carriera dove per la maggior parte del tempo sono stati uno contro l’altro nella vita privata e poi sul palco dovevano guadagna’ la pagnotta… Non paragono i due generi né tantomeno il modo di tenere il palco per vari motivi, mi sembra evidente, però il fatto che noi nella vita privata ci vediamo molto spesso ed abbiamo un rapporto molto confidenziale ci permette di portare sul palco quella quotidianità cercando di scremarla di quelle robe che la gente potrebbe non capire. Passa il messaggio di presunzione, sicuramente, da una serie di caratteristiche comprese magari le divise militari che indosso. Però, se la divisa militare ha una toppa di Winnie the Pooh, in qualche modo significa che sto prendendo per il culo me, voi, tutti. Giochiamo su questa roba e stiamo sereni.
C’è altro che vorreste aggiungere?
C: Adesso dico una cosa, non so se posso però. Stiamo molto lentamente lavorando all’uscita del prossimo video del prossimo singolo del disco. E ci sarà da aspettarsi quello che non vi aspettate. Niente di prevedibile.
A: Hai l’esclusiva su questa cosa. Ci chiuderemo per un bel po’ di tempo, perché bisognerà tirare fuori un album. Non si gioca più. Cioè, si gioca sempre però con un po’ più di serietà appunto: comporre con calma e registrare con calma.
Adriana Santovito – Foto di Laura Sbarbori
Si appassiona alla musica sin da bambino, scoprendo la vena rock n roll alla tenera età di 8 anni folgorato dall’album EL DIABLO dei Litfiba e PARANOID dei BLACK SABBATH. Nel 2010, insieme a due amici, Alessio Mereu e Alessandro Cherubini fonda il LITFIBA CHANNEL che di li a poco diventerà la radio ufficiale della storica rock band di Piero Pelù e Ghigo Renzulli, all’interno della quale conduce il programma SOGNO RIBELLE scoprendo e intervistando insieme a GRAZIA PISTRITTO band come IL PAN DEL DIAVOLO, BLASTEMA, KUTSO, ILENIA VOLPE, METHARIA, FRANCESCO GUASTI, PAVIC, UROCK. Format portato anche in formato live organizzando serate di vera e propria musica live in alcuni locali di Roma. Nel 2017 dopo tre anni alla direzione di una webzine, decide di fondare e dar vita a INSIDE MUSIC insieme alla socia MARTA CROCE.