Il Primo Re, di Matteo Rovere, uscito nei cinema italiani il 31 Gennaio 2019, prodotto da Groenlandia, Gapbusters, Rai Cinema, VOO, BeTV e distribuito da 01 Distribution, vede la partecipazione di Alessandro Borghi e Alessio Lapice come i fratelli che fecero la storia di Roma: Romolo e Remo.
Il fratricidio è uno dei più oscuri crimini che un essere umano possa compiere. Una lama che affonda in un cuore in cui scorre sangue del proprio sangue; assieme a quella vita si spegne l’Amore, si spegne la Gioia; è il tradimento alla propria stessa umana natura.
Può un impero nato su premesse tanto orribili dominare il mondo?
Così è stato. Dietro la leggenda, il film di Matteo Rovere dipinge una storia shakespeariana sulla tragedia personale e famigliare di due fratelli destinati all’eterna gloria o alla damnatio memoriae.
Il Lazio, terra colonizzata eoni prima dagli esuli di Troia – compreso Enea – nell’ottavo secolo avanti Cristo era occupato da miriadi di minuscoli villaggi, di minuscoli popoli di cacciatori, allevatori e agricoltori: Romolo e Remo sono due pastori, sebbene addestrati alla guerra, precocemente strappati alla madre. Delle ascendenze divine non v’è traccia. Ci sono solo due ragazzi inzaccherati, coperti di pelli, poco più che bestie in confronto ai raffinati etruschi che vivevano solo qualche decina di chilometri più a nord nelle loro scomparse città. Il Tevere – furia della natura prima della costruzione delle Cascate delle Marmore – esonda e invade il campo ove i due fratelli pascolavano le greggi. Il duo sopravvive a stento ma viene catturato assieme ad altri esuli dai crudeli cavalieri di Alba (ora Albano nei Castelli Romani, storicamente chiamata Albalonga), e costretti a sfidarsi gli uni con gli altri davanti al sacro fuoco, tenuto in vita dall’altrettanto sacra Vestale. Fuoco che arde in nome della dea trina, la dea della caccia, Diana: qui, con l’inganno, nella terra argillosa e scura della notte, Romolo e Remo si ribellano ai cavalieri, assieme ad altri schiavi; Romolo, però, rimane gravemente ferito. L.a piccola tribù porterà con sé la vestale ed il suo fuoco – una creatura di rosso vestita, ferina, enormi occhi neri di Tania Garribba – e Remo combatterà con tutte le sue forze per tenere in vita il fratello. Impazzendo nel tentativo. L’uomo perderà la sua umanità, accecato da una insensata voglia di vendetta, trucidando un villaggio (quello dei Veliensis), mentre guida i suoi uomini verso la riva sinistra del Tevere.
Come già detto, il fratricidio è fra i più orribili crimini. Il Primo Re tenta di giustificarlo: e ci riesce.
La figura di Remo, interpretata magistralmente dallo splendido Alessio Borghi, è un bronzo di Riace metallico, coriaceo, eppure feroce e guizzante come una freccia; la freccia del paradosso di Zenone, che è ferma e si muove allo stesso tempo. Perché la figura di Remo – mitologica – è cristallizzata in pochi momenti, in cui i grandi occhi azzurri di Borghi si stagliano su un volto sporco di fango per un agguato, insozzato di sangue proprio e altrui. Occhi sbarrati, incapaci di accettare la sconfitta. Un Macbeth senza corona precocemente impazzito: laddove nella tragedia di Shakespeare vi sono le tre streghe nella bruma, qui è la profezia della triste vestale, che fra le lacrime pronuncia il destino che inevitabilmente si compirà. Uno sopravvivrà, sarà ricordato nei secoli a venire, ed il suo regno si estenderà in tutto il mondo conosciuto: governerà genti sconosciute, dovrà diffidare di greci che portano doni. L’altro morrà, e la dannazione eterna si sostituirà alle larve sul suo cadavere. L’interpretazione fisica e potente di Borghi, seconda solo a quella proposta in Sulla mia Pelle, lo consacra come uno dei più talentuosi attori nostrani.
Remo, al contrario di Macbeth, non è autore di una tragedia della parola: non si strugge sul suo ruolo nel mondo, ma il potere – la corona, immaginaria, simboleggiata da una pelle di lupo sulle spalle – lo inorgoglisce e rende avido al punto di rendersi tracotante: di volersi sostituire agli dei. Dei che hanno abbandonato i due fratelli; dei che, silenziosi, sovrintendono alle piccole disgrazie di animali raminghi che si uccidono fra di loro. Remo è, invece, un dio di carne, un Marte furioso capace di aggredire il suo unico fratello: cosa sei diventato, Remo? Come Macbeth che deve temere MacDuff, come un Caino – primo uomo mai generato da donna fuori dall’Eden – minacciato dal mite Abele, Remo sprofonda sempre più nell’abisso della sua follia, giungendo a condannare a morte la triste profetessa. È ciò che lo contraddistingue dallo scuro quanto pio Romolo, interpretato da Alessio Lapice: Remo non sa soffrire. Non prova empatia, non può dunque provare pietà. Non conoscendo il dolore, non potrà mai essere un grande re, come lo saranno Adriano, Ottaviano, Claudio, uomini forgiati da vite infelici.
Il Primo Re, per quanto opera pregevolissima ed unicum nel panorama italiano, si rifa a numerosi modelli, più o meno recenti, e soprattutto al filone del nuovo kolossal: riflessivo, lento, in cui la narrazione si disavvolge graniticamente e in cui la scenografia – i paesaggi, la natura, lo sfondo, i muscoli tesi delle comparse e i denti scheggiati – la fa da padrone. Uno su tutti: Noah, di Darren Aronofsky, che narra la tragedia della famiglia del patriarca, e Macbeth di Josh Kurzel. Eppure ha le caratteristiche della tragedia aristotelica, nella sceneggiatura di Rovere, di Filippo Gravino e Francesca Manieri: poche scene salienti, un’ascesa velocissima – un climax – ed una devastante caduta. La colonna sonora di Andrea Farri, a intervistato da noi, è, invece, classica, e splendidamente funzionale alle scene descritte: fra modelli depositati da artisti come Max Richter, per utilizzo drammatico delle orchestrazioni e minimalismo, Farri si destreggia nella difficile missione di musicare un’epoca in cui gli strumenti – quelli greci ed etruschi – ancora non erano arrivati ai barbari latini. E le sole voci dei bambini senza più padri a spezzare il silenzio.
Come già anticipato, il paesaggio è un protagonista de Il Primo Re. In un’Europa che nell’età del ferro era sostanzialmente un’infinita foresta infestata di lupi, punteggiata di paludi, sabbie mobili, e malaria, gli alberi contorti sembrano soldati morti in battaglia ed il sangue si confonde col fango; le foglie parlano col loro fruscio. Tonino Zera, navigato scenografo, già La ragazza nella nebbia del 2017, sceglie con cura le location, spaziando dai monumenti naturali di Manziana, alla Tuscia, al Lazio; natura che è ulteriormente impreziosita dalla puntualissima e caravaggesca fotografia tutta luce naturale di Daniele Ciprì, cui vedremo La Paranza dei Bambini come nuova opera. Con gli abissali scuri dei cieli senza stelle e capanne in fiamme contro alberi contorti, Il Primo Re riproduce un micromondo esistito per millenni e che per troppo tempo, nell’arte, è stato nobilitato. Il montaggio puntualissimo, poi, soprattutto nell’iniziale scena dell’esondazione del Tevere, crea un forte senso di empatia con le disgrazie dei protagonisti.
Dunque, il merito principale de Il Primo Re è l’aderenza alla ricostruzione storica: sporcizia, malattia, superstizione, ferocia, elementi onnipresenti in un mondo pre-civilizzato e all’alba della sua evoluzione. Un mondo in cui gli uomini no, non parlavano italiano, e neppure latino, quello così bello ed armonioso delle Bucoliche di Virgilio: la loro lingua, arcaica, quella di Appio Claudio Cieco era dura, schioccante. Merito dei linguisti dell’università della Sapienza interpellati.
Faber est suae quisque fortunae
Come ne La Passione di Mel Gibson, la rudezza delle scene è imposta qualora necessario, per una resa complessiva che non può lasciare indifferenti e che contribuisce a riportare a dimensione umana la storia di uomini – e donne – che furono traslati sin dalla prima repubblica romana in una dimensione epica.
In conclusione, Il Primo Re è il miglior film italiano degli ultimi dieci anni: una produzione ambiziosa, che ricolloca la gloria della storia della nostra terra molto meglio di come sia stato tentato con serie tv come I Medici, poiché tende ad un unico, semplicissimo, ma spesso dimenticato, scopo. Fare arte.
Lasciate che l’arte sia libera, come fu il biondo Tevere un tempo, e, nella persona di Matteo Rovere, avremo presto altri capolavori.
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