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I Procol Harum – I profeti del suono orchestrale

by Luca.Ferri
ProcolHarum copertina

I profeti del suono orchestrale: i Procol Harum*

Un ponte. Pochi gruppi riescono ad esprimere il passaggio fra l’esperienza del rock tradizionale ed il rock progressive come i Procol Harum. Già con il successo di “A WhiterShade of Pale”, uno dei manifesti musicali degli anni ’60, contenuto nell’album di esordio “ProcolHarum” (1967), la band inglese inizia a sperimentare nuove sonorità, caratterizzate dall’organo Hammond di Matthew Fischer e dal piano suonato dal cantante Gary Brooker. Ed è esattamente un anno dopo, nel 1968, che esce il disco che dà un forte impulso alla scena prog mondiale: “Shine On Brightly”.

Siamo in un momento di rottura nel mondo musicale; la beat generationsta esaurendo il suo impulso di novità e di interesse e i musicisti dell’epoca si dividono seguendo percorsi diversi alla ricerca del giusto sound, chi verso il rock-blues a stelle e strisce e chi verso le sonorità mistiche orientali. I ProcolHarum, invece, affidano le loro sorti (fortunate) alla musica classica rifacendosi a strumentazioni e composizioni della tradizione, aprendo però ad innovazioni musicali che li pongono come capofila delle future generazioni.

Degli illustri sconosciuti, in un incastro di fortunate combinazioni e intuizioni, stanno gettando le fondamenta strutturali e peculiari della nostra amata Musica Immaginifica o rock barocco, insomma il nostro amato Progressive. In un’intervista rilasciata al Corriere Della Sera datata 30 aprile 2016, in occasione dei 50 anni del gruppo, il leader storico Gary Brooker parlerà proprio dei loro inizi e del motivo per cui si siano orientati verso una musica di questo genere:

«Se penso all’Italia mi viene in mente il melodramma: avete nel sangue le belle melodie. E questa è anche la nostra forza. Quando abbiamo iniziato il genere progressive nemmeno esisteva. All’epoca già giravano Traffic e Pink Floyd, ma noi volevamo uno stile che fosse soltanto nostro e forse questa è la base su cui poggia il progressive».

Gatto. Iniziamo però dall’origine. Dopo aver formato un gruppo chiamato Paramounts, Gary Brooker incontra il paroliere Keith Reid, che scrive un testo onirico e sognante per un motivo già composto dallo stesso tastierista. Questa melodia prevedeva un’intro musicale realizzata accavallando la linea di basso contenuta nel secondo movimento di un asuite per orchestra di Johan Sebastian Bach con una armonia presa da un’altra opera del compositore tedesco. Per esprimere tanta ricercatezza viene scelto il suono dell’organo Hammondaccarezzato da Matthew Fischer e riprodotto da altoparlanti Leslie. Il produttore Danny Cordellsi incaricò ditrovare una piccola casa discografica, che avrebbe consentito la registrazione dell’ LP. Ci siamo, gli ingredienti sono sul tavolo.  Ne manca uno però: un nome. Sempre Cordell trova una soluzione storpiando il nome del suo gatto ProculHarum (esattamente!) in ProcolHarum. Ora gli ingredienti ci sono proprio tutti…

 

A Whiter Shade of Pale. La risultante di tutte queste sinergie artistiche è il capolavoro che avrà un successo mondiale (i ProcolHarum saranno “vittime” di numerose cover, anche in italia: la più famosa è senz’altro “Senza Luce”dei DikDik), caratterizzato da un testo richiamante il sogno (ed ispirato ad un racconto di Chaucer: la scena di Canterbury è sullo sfondo e più avanti ne parleremo) e una consistente componente di musica classica: “A Whiter Shade Of Pale”. Eletta canzone dell’anno nel 1968, la meravigliosa riuscita di questo brano è figlia dell’insieme di due elementi eterogenei, quali il modo di cantare afflitto – di stampo tipicamente blues -del pianista e cantante Gary Brooker e il predominanteleitmotiv, suonato dall’organo Hammond di Matthew Fischer, riuscendo in una realizzazione mai ascoltata finora sulla scena della musica leggera. Il gruppo trasporta tratti dell’opera del già menzionato Bach, realizzando una modificazione melodica di affascinante e coinvolgente bellezza eportando chi ascolta il brano in un mondo soffice e caldo.

 

 

Risplendi brillantemente.  Ma è nel 1968 che i ProcolHarumfanno il loro ingresso trionfale nell’Olimpo della musica con l’album “Shine On Brightly”. Un’opera completa, con numerosi barocchismi e voli di talento, ma soprattutto con costanti citazionidi opere di musica classica; con questa fatica i Procolo Harum si attestano fra i capostipiti del rock barocco o sinfonico.

Un grande album dunque, in cui le diverse anime della band si assemblano perfettamente, dando un risultato eccellente in fatto di sonorità e armonie; al contrariole peculiarità di ogni membro della band sembrano fatte apposta per sposarsi, in un matrimonio di grande bellezza e sound di cui godono le nostre orecchie prima e i nostri spiriti poi. Per realizzare una pietra miliare della musica rock come questa, infatti, non basta scrivere ottimi testi e meravigliose armonie, ma servono soprattutto grandi interpreti:

la voce malinconica e cristallina di Gary Brooker e la presenza costante del suo pianoforte che scivola sulla melodia, il caratteristico suono dell’organo Hammond di Matthew Fisher che rende riconoscibili i brani dei ProcolHarum, la chitarra blues di Robin Trower, tutto questo si incastona perfettamente in una base ritmica curata e degna di ogni riguardograzie all’apporto di Barry Wilson alla batteria ed al basso di David Knights.

Dulcis in fundo, la presenza di un paroliere di eccellenza come Keith Reid, in grado con le sue parole di dare una dimensione ancora più completa ai brani. Degna di particolare menzione la lunga suite divisa in due parti in HeldTwas In I con una durata di ben 17 minuti, una delle prime nella storia del rock. Ennesimo elemento di avanguardia per questo gruppo che ha segnato la storia del musica e ha spalancato le porte alla venuta del progressive.

Grand Finale. Quale migliore conclusione se non un Grand Finale? Questo brano è a chiusura della lunga suite di In Held Twas In I. Un pezzo completamente strumentale (altra caratteristica del movimento prog), in cui solamente verso la fine dell’esecuzione irrompono potenti dei cori con uno stile di canto da opera, per l’appunto. Vi lasciamo con l’ascolto proprio di questo Grand Finale:

P.S. Attenti mentre l’ascoltate, perché potreste diventare “A Whitershade of pale” a causa di tutta questa magnificenza!

di Luca Angelini e Marco Coco

*(“Il Pop Inglese”,Bertoncelli, Fumagalli, Insolera, Arcana Editore, 1974)

 

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