I Malkovic nascono a Milano nel 2015 da un’idea di Giovanni Pedersini e Elia Pastori, ai quali si è unito al basso Fabio Copeta. Ad ora è uscito il loro primo EP, Buena Sosta, e la cover di Cara di Lucio Dalla.
Trio diretto, si nutrono di post rock ma purtroppo amano cantare e credono ancora nelle chitarre, con un sacco di effetti però. Nel novembre 2016 producono il loro primo EP omonimo con il quale iniziano a farsi notare in giro per la penisola con diverse aperture (Gazebo Penguins, Motta, Valerian Swing, …). A ottobre 2017 Simone Bossini sostituisce Elia alla batteria ed a maggio 2018 hanno visto l’uscita del loro nuovo EP: Buena Sosta.
L’album, uscito per Costello Records, è composto da sei tracce:
Tracklist di Buena Sosta dei Malkovic
1. Colossus
2. Gnavi
3. Russi
4. Buena Sosta
5. Chitarrina
Fortemente caratterizzato da un sound post rock con chiare ispirazioni dai Mogwai o dai più “calmi” Explosions in the Sky, da questi ultimi riprendono l’utilizzo dell’arpeggio di chitarra elettrica. Colossus è una traccia che parte rapida, con un magistrale utilizzo delle due chitarre e del basso, dotata di una bella gestione dei tempi, e, soprattutto, un gran lavoro del batterista Simone Bossini, nel bel finale in crescendo. Il testo, profondamente esistenzialista, si sposa bene con il sound energico ma decadente. Un tuffo nel sound della chitarra di The Edge degli U2 si ha con Gnavi, breve brano di circa due minuti il cui impianto musicale avrebbe forse meritato una maggiore ricchezza, soprattutto per gli ottimi spunti chitarristici che sorreggono un cantato quasi punk, mononota, ed abbastanza incisivo: un po’ Punkreas. Russi è la terza traccia dell’EP, ed è forse la più rock dotata di uno splendido interludio musicale, ma purtroppo soffre degli stessi problemi della precedente: buoni spunti musicali purtroppo non sviluppati, scadendo in una certa “fretta” espressiva.
Buena Sosta è la traccia omonima dell’album, a proposito del cui titolo i Malkovic dicono:
Ogni volta che siamo andati a fare le prove nel parcheggio in cui suonavamo al piano -5, all’entrata compariva la scritta BUONA SOSTA con uno stupendo smile che ci faceva l’occhiolino. A forza di vederlo mi sono convinto che forse quello stupido messaggio di benvenuto cercava di dirmi qualcosa, che per un anno e mezzo mi sono chiesto che cosa resta di quello che viviamo. Non che non me lo sia mai chiesto, è una domanda che accompagna ogni cosa che faccio, sta alla base di tutto, perché purtroppo non riesco a vivere a caso, a fare le cose senza che ci sia un senso per me, un qualcosa che me lo faccia fare e che non sia guidato solo dal caso. È stato un anno e mezzo di morti fisiche e metaforiche, ritorni e partenze continue, colpi da subire e abbracci da dare o non dare mai più, chissà per quanto tempo. Perché le cose cambiano e continueranno a cambiare, ma c’è di fondo qualcosa che posso fermare? Non ho fatto la pace con qualcosa, sono sempre in guerra con me stesso, questa cosa è inaccettabile e niente andrà mai secondo le tue aspettative.
Una traccia che nasce dunque dalla necessità di lasciare un qualcosa di intimo e di profondamente proprio nel mondo, una traccia, una sosta per chi verrà dopo di noi. L’arpeggio iniziale è molto bello, e su di esso si innesta il miglior cantato dell’album, in controtempo rispetto alla base: ciò dimostra che questa band è in grado di sfoggiare ottimi tecnicismi, mescolando il post rock con un ottimo songwriting. Nel refrain dal sentor un po’ Nuovo Cinema Paradiso (“Ho perso gli occhi ma ti vedo meglio”) il basso compie un eccellente lavoro. Il brano propone una tipica accelerazione post rock nel finale con un assolo strumentale che, live, sicuramente, farà un grandioso effetto.
L’ultima traccia dell’album è Chitarrina, ed infatti parte con un arpeggio di chitarra, un pizzicato molto dolce. In questo brano sembra che la “fretta” di agire, di farsi sentire, dei ragazzi milanesi sia leggermente dissipata. Come in un brano dei Godspeed you! Black Emperor, gli strumenti dialogano fra loro, la chitarra è una voce e la batteria, il basso, sono il brusio di sottofondo. C’è qualche distorsione, che però ben si avvicenda col resto. La successione degli accordi è semplice, ma di effetto. All’incirca a metà canzone si ha un cambio di tonalità, come spesso avviene nel genere, e l’idea iniziale viene ripresa ma in un contesto diverso, più oscuro ed interrogativo. C’è qualche pizzico di metal, qualche influenza God is An Astronaut e degli spagnoli Toundra, per una traccia che è la migliore dell’album.
Inoltre, da poco è stata pubblicata la cover di Cara di Lucio Dalla, storico brano del cantautore bolognese, brano universalmente considerato più una poesia in musica che una canzone, che narra dell’amore, anzi, della devozione, di un uomo maturo nei confronti di una ragazza estremamente, un po’ un Humbert con la sua Lolita: la delicatezza che sottende a tutta la canzone viene interrotta da uno slancio di orgoglio maschile, in cui Dalla ricorda alla ragazza, leggiadra come una farfalla, che avrebbe “potuto inchiodarla al muro”. Una storia che ha tutto il sapore della vita vissuta, di uno stralcio di una notte, di un amore mai nato perchè impossibile. Del brano, lungo cinque minuti e composto inizialmente di cinque strofe (o stanze, dovremmo dire, per continuare l’analogia col linguaggio della poesia), e di esse i Malkovic hanno scelto soltanto le ultime tre. La base di Dalla, una delicata chitarra che rendeva protagonista l’impareggiabile capacità espressiva del cantautore, viene trasformata dai Malkovic in un tipico post rock, un arpeggio di chitarra, ma elettrica, cui si aggiunge la batteria (sempre magistrale e puntuale di Bossini). L’interpretazione vocale di Giovanni Pedersini, unita alla mancanza dell’antefatto dovuto alla scelta delle strofe, fornisce un’atmosfera fantasy ed eterea al brano stesso, ovviamente lontana dalla poesia del vissuto narrata da Lucio Dalla. Il finale, con la visione del treno che serpeggia in una stazione illuminata dall’alba, e il narratore che spegne la luce dell’abat jour per andarsene finalmente a dormire dopo una notte passata con quella farfalla, è affidato ad una leggera accelerazione post rock che si è già imparata a conoscere nell’EP. Nel complesso, una cover che non cerca di copiare l’originale ma lo reinterpreta a modo suo: va detto che approcciarsi alla gigantesca personalità di Lucio Dalla è già di per sè un atto di coraggio.
Insomma, potremmo avere davanti un buon compromesso fra il post rock che è spesso mancante in Italia (se si eccettuano i Mokadelic, amatissimi da Stefano Sollima) ed un orecchiabile cantautorato frammisto di molteplici ispirazioni. Una band che ha ancora un ottimo margine di miglioramento, e che speriamo riesca a farsi strada nel panorama contemporaneo.
Giulia Della Pelle
