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Greta Van Fleet: odiarli (o amarli) non serve a nulla

by InsideMusic
Greta Van Fleet

La coltre nebbiosa si solleva dalla campagna che circonda casa mia regalando un ottimo scenario alla seconda sigaretta del giorno. Già la seconda, è vero, sono in piedi dalle sei, come di prassi succede da due settimane a questa parte. Il lato negativo dell’essere un “musicista” è che poi, gettandoti a capofitto nella lavorazione di un nuovo album, il tempo non basta mai e tutti i restanti impegni perdono il loro aspetto prioritario.

Articoli da scrivere, esami da dare, materie da studiare. Tutto si solleva proprio come la coltre nebbiosa che vedo ora scompaginata dall’insistenza dei raggi solari. Oggi, però, non si fugge. Mi è stato commissionato qualche settimana fa un articolo, quello che sto scrivendo ora. Devo parlare dei Greta Van Fleet.

Una band giovane composta da ragazzi che, a dirla tutta, hanno persino un anno in meno di me e che, nonostante tutto, si ritrovano ora a toccar le vette della musica mondiale. Obiettivo raggiunto, tra l’altro, in tempi brevi, brevissimi oserei dire.

I fratelli Kiszka iniziano a condividere il sogno musicale nel “lontano” 2012. Da li, dopo la pubblicazione più o meno fortunata di una manciata di pezzi arriva il primo EP ufficiale nel 2017, lavoro che aprirà loro “la via del samurai”, o meglio, del successo. Con Black Smoke Rising, infatti, il gruppo americano si fa notare dal mondo discografico iniziando un tour a supporto dei “The Struts” (chi??) e firmando per la Lava Records.

Nel 2018 i Led Zep…ehm scusate, i Greta Van Fleet (ottimo nome, tra l’altro, per una cover band di Calcutta) fanno piombare sul mercato musicale il loro nuovo/vecchio lavoro, Anthem of The Peaceful Army. Da qui il panico.

Greta Van Fleet

Sono della vaga idea che ben pochi degli addetti ai lavori nella scena musicale abbiano ben capito il tipo di fenomeno cui ci ritroviamo di fronte. O forse sono io che, da buon ottuso Capricorno, sono come sempre fiero bastien contraire.

La critica si spezza, il mondo si divide, il campo magnetico stesso della Terra sembra scuotersi di fronte all’abnorme divisione portata nel mondo della musica da questa giovane e sbarbata band. Twix destro e Twix sinistro, a confronto delle due diverse fazioni, sembrano pacifici e paciosi fratelli.

Sull’angolo destro del ring abbiamo chi, analizzandone l’incredibile e prestivo successo, li idolatra affibbiando loro il pesantissimo merito di aver riportato il rock in auge grazie al loro indiscutibile talento (avrei da ridire a riguardo ma ne parleremo più avanti). All’angolo sinistro troviamo invece chi lavora nella controtendenza a tempo pieno sostenendola come ideologia quasi fideistica. Sminuisce, quindi, i Greta e il loro successo, definendoli una semplice copia dei Led Zeppelin (che per carità, su questo hanno anche ragione, in parte).

In entrambi i casi, sinceramente, la sensazione è quella di osservare una sfida tra polli in un sobborgo di Sao Paulo.

Da dove viene, quindi, il successo dei Greta Van Fleet? Da un innato talento? Dalle loro doti e creazioni musicali? È per caso segno manifesto del risveglio del rock? Per coloro che sperano nell’ultima risposta, tornate sulla terra. Non siamo in Game of Thrones e non vi è alcun Dio della luce a riportare in vita i morti. Anche fosse, poi, il rock sarebbe più simile a un Ned Stark che a un Beric Dondarrion.

Il rock è morto, lo è da anni ormai. Lo dico da musicista che nasce nell’ambito rock e metal e che, assiduamente, continua a proseguire la sua vita musicale nell’ambito progressive (avete presente lo sfigato della situazione con tutti dieci cui i compagni di classe tirano palline di carta e tori da monta? Sono io ma grazie al cielo privo dello snobbismo medio dell’ottuso ascoltatore di genere).

“Lorenzo ma cosa dici? Sei pazzo? Come fai a dire che il rock è morto se le band storiche ancora riempiono gli stadi?”. Beh, Gesù Cristo è morto 1985 anni fa, nonostante ciò la sua fan base riempie ancora il pit delle chiese. Let’s talk about it. Un conto è il progresso musicale, un altro sono gli altarini che fideisticamente vengono portati avanti da coloro che sono troppo pigri per vedere dell’altro.

Di fatto, tolti i Greta Van Fleet, se ci pensiamo un attimo sono poche, davvero poche, le giovani ed emergenti band che nell’ambito sono riuscite ad emergere dalla coltre di fumo negli ultimi anni. Rock e Metal, infatti, campano ormai unicamente nelle accezioni Prog/Core e Alternative, uniche nicchie in cui la musica ancora emerge subendo tra l’altro un evoluzione.

Un genere muore non quando la gente smette di ascoltarlo ma quando smette di progredire e riprodursi. Il rock, per definizione, in tutti i suoi crismi si è esaurito anni e anni fa quando la spinta creativa è giunta a un termine a causa di paletti stilistici ben fissati che ,se superati, porterebbero a trascendere in altro. Aggiungiamo, poi, il grande cambiamento di mentalità del mondo discografico.

Morta è, oramai, la concezione della musica da locale dove l’underground si esibisce creandosi un pubblico. Decesso dovuto all’avvento dell’internet (che per carità, chiudetelo, sta distruggendo la musica) e ad una sostanziale pigrizia di base dell’uomo del secolo ventuno che sembra ormai affondare sempre più con il di dietro nelle poltrone delle rispettive dimore.

Al netto di ciò, mancante un pubblico attivo nell’underground e mancanti le idee per portare avanti un genere musicale esso, inesorabilmente, muore. Le giovani band non nascono più e se nascono rimangono nell’anonimato, il genere non progredisce e non da alla luce nuovi profili in quanto il filone si è esaurito. Fatevene una ragione, il rock è morto, rimane culla dei malinconici che amano sentirsi negli ottanata e settanta dedicandosi all’ascolto forsennato, cosa legittima e sacrosanta ma che ha ben poco a che vedere con il progresso di un genere.

Poi, in questo cimitero per pachidermi, arrivano i Greta Van Fleet che, da Detroit, ci infilano dentro una macchina del tempo accompagnandoci a percepire il leggiadro odore di ascelle e maria della sala prove di Plant e Page ai tempi del loro esplosivo debutto e successo.

Altro che Back to the Future. Uscita 33 del raccordo anulare e passando per Via Del Casal Lombroso si ritorna ai cari e vecchi bei tempi. Nulla di nuovo, nulla di eccezionale, tutto di noto. I Greta Van Fleet sono un negozio di antiquariato ben acchittato con qualche elemento di design utile a svecchiare il tutto, magari con un Air Wick che aiuti a non sentire la puzza di legno vecchio.

Sono perfetti, davvero. Josua Kiszka sembra creato in laboratorio direttamente dalle cellule di Robert Plant. Risultato straordinario, un modo di cantare maturo, ben impostato, impeccabile, ricco di piglio. Una voce eccezionale e delle qualità tecniche che sarebbe letteralmente peccato mortale mettere in dubbio (non fatelo, per il vostro amor proprio).

Greta Van Fleet

Il quartetto americano è tremendamente musicalmente dotato. Interpreta un genere e lo fa bene, alla perfezione, quasi quanto i loro antesignani, forse anche alla pari oserei dire. Musicalmente ineccepibili, i pezzi scorrono, sono gradevoli, hanno piglio e dinamica, sono interessanti e maturi.

Il solo problema è che, non potete dire il contrario, qualche annetto fa abbiamo già sentito tutto. Non stiamo qui parlando di casi come Kasabian e Wolfmother dove l’ispirazione al classico del rock, su tutti i Led Zeppelin, era base per un prodotto comunque composito e dotato di originalità, personalità propria, rampa di lancio per evoluzione musicale.

I Greta Van Fleet sono niente più niente meno che la miglior cover band dei Led Zeppelin della storia della musica. Così bravi da riuscire a fare pezzi inediti da loro composti e continuare a suonare esattamente come loro. Io, sinceramente, non ci riuscirei e non so quanto la cosa sia un pregio o un difetto, forse entrambe le cose.

Come dicevamo prima, però, il pubblico di ambito rock e metal, perdonatemi, è tremendamente pigro e di vecchio stampo. L’essere umano, per natura, non ha mai amato troppo il rischio del nuovo (se non in rari periodi, come quello aperto da Beatles e Jimi Hendrix) trovando sempre nel già conosciuto un riparo sicuro e confortevole. La cosa si afferma ora più che mai.

Qui si inseriscono i Greta Van Fleet, in un ambito dove il grosso delle persone corre ancora dietro a una When The Levee Breaks senza guardarsi attorno, rivolgersi ad altro.

I Greta Van Fleet, ottimi musicisti, non fanno successo grazie alla creazione di una fanbase. Semplicemente l’hanno presa in prestito da altri, sfruttandola. Offrono un prodotto vecchio e privo di novità che è ciò che molti ancora hanno voglia di ascoltare, snobbando tutto ciò che può essere nuovo e che porta a una progressione musicale.

I Greta Van Fleet mettono a nudo la grande debolezza dell’essere umano, così profondamente attaccato al seno materno di ciò che era senza riuscire a staccarsene. Qui giunge la domanda, è quindi un successo immeritato? No.

I Greta Van Fleet meritano ogni singolo centesimo che hanno guadagnato fino ad oggi semplicemente in quanto si tratta di giovani musicisti che fanno bene, anzi, magistralmente, il loro lavoro. Ottimi musicisti, ottimi interpreti, fenomenali fotocopiatrici. Il loro successo non è immeritato come un loro insuccesso non sarebbe del tutto giusto semplicemente in quanto, al mondo, ci sta chi ancora dalla musica vuole questo tipo di prodotto.

Quel qualcuno che si illude di poter continuare a veder vivere un genere dimenticandosi che l’arte, prima che fideismo da strapazzo, è progresso. Se l’arte non progredisce, non avanza, non si contamina, allora muore nell’autocelebrazione di se stessa. Questo succede con i Greta Van Fleet. Dopo anni, in una scena musicale ai piani alti sempre più capitalistica e cancerogena, una band di ragazzini riporta in auge il rock facendo tutto quello che non dovrebbe fare, chiudere ulteriori ponti verso il progresso artistico e dando alla gente ciò che crede di volere nella totale pigrizia e mancanza di curiosità, accontentandola e quindi privandola dello stimolo al dirigersi verso il nuovo.

Il quartetto americano non riporta in vita il genere, gli da la stoccata finale. I revival non sono mai un progresso, una nuova nascita. I revival sono celebrazioni di ciò che è andato e mai tornerà e, spesso, distolgono l’attenzione da ciò che è e potrebbe arrivare. Per questo, nella diatriba “Greta si, Greta no” le due parti hanno torto.

Greta si in quanto, i ragazzi, musicalmente si pongono ineccepibili. Greta si in quanto il pubblico li vuole e vuole la musica che producono. Allo stesso tempo, però, Greta no in quanto non innovano, non muovono, non spostano, sono tremendamente sopravvalutati e pongono forse l’ennesimo chiodo sulla cassa da morto dell’arte musicale, sempre più stantia ove il progresso ed il nuovo faticano ad uscire dall’anonimato a causa di un pubblico disattento e distratto che volta lo sguardo altrove. Se il pubblico vuole delle cover, ottime cover, è giusto le riceva.

Greta Van Fleet

Dopo, però, cosa ci inventeremo? Nella vita non si campa con la testa girata dietro le spalle. Si guarda al futuro ricordando il passato come un padre severo, una madre genuina, una preziosa lezione senza cui non saremmo qua. Nulla di più. Camminando con la testa girata, prima o poi, si va a sbattere e questo sembra essere proprio il destino di un arte sempre più improntata nel revival del vecchio e in una produzione marchettaria e commerciale del nuovo più che nello sviluppo sincero dell’opera artistica in se.

In fin dei conti, però, la colpa è proprio di coloro che la musica popolare (rock, metal, pop) l’han resa grande: gli ascoltatori.

Greta si, Greta no, io dico Greta forse. Non sono la band di cui la musica d’ambito ha bisogno, è però la band che ci meritiamo, la band in questo momento necessaria a coloro che vogliono aprire il portafoglio verso precise direzioni. La discografia mondiale lo ha capito, chi ha letto del profitto nei Greta Van Fleet è un luminare della sociologia moderna. In molti vogliono ancora i Led Zeppelin, diamogliene di nuovi. Banconote piovvero dal cielo.

Ci stiamo infilando in un vicolo ceco, una strada buia senza uscita. Siamo, anche questa volta, nel mezzo. Il vero, come sempre, risiede nell’equilibrio.

Torno, allora, alle mie composizioni. Io che li stimo e li capisco mi ritrovo, in ogni caso, dall’altra parte della barricata. Emergente, underground ma su di un piano totalmente diverso per ironia della sorte. Qui chi vuole fare del nuovo deve sudare e anche tanto. Mi piacerebbe essere come i Greta Van Fleet, molto più tempo libero, molte meno sigarette. I polmoni ringrazierebbero. Forse, però, la nebbia del mattina mi ispirerebbe di meno.

Lorenzo Natali

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