Quando si parla di Umberto Maria Giardini – tenendo in considerazione il suo passato sovraffollato di pubblicazioni e partecipazioni in varie opere- si ha la certezza di parlare di qualcuno che sa bene cosa vuole, ha un disegno preciso in mente, e che di certo non si lascia influenzare dalle tendenze di mercato.
Oltre vent’anni di carriera, grandi palchi, sperimentazioni dopo sperimentazioni. Il suo quarto album come Umberto Maria Giardini (quattordicesimo, se contiamo otto album come Moltheni, uno con i Pineda, uno con gli Stella Maris) arriva nelle nostre mani quest’anno, e le aspettative, per quanto alte, vengono pienamente soddisfatte. Ascoltando quest’album due tratti distintivi saltano subito all’orecchio: la scelta stilistica dei testi e lo stile musicale. I testi, criptici ed introversi, non solo costruiscono immagini cupe quanto intime, ma sono composti in modo tale da parlare all’ascoltatore di qualsiasi problema egli abbia. D’altronde il punto forte dei testi criptici è sempre stato questo: chiunque vi si può ritrovare descritto, seppur la canzone parli d’altro. D’altro canto la musica richiama fortemente lo stile degli anni ’90, con una leggera distorsione utile a fondere la chitarra con il resto della musica, accennando venature grunge a volte più lievi a volte più marcate. Testo e musica quindi camminano lungo lo stesso percorso, dando vita ad un lavoro fuori dal suo tempo e destinato ad essere amato o odiato senza via di mezzo. Nel disco aleggia una malinconia tipica del primo indie italiano, quello dei primi Afterhours, Verdena e Ministri per intenderci, e fa sì che nel 2019 si possa ancora parlare di puro indie italiano. Forma Mentis è un lavoro pensato, curato nella minima melodia, che si distacca dal voler piacere, vuole anzi semplicemente essere com’è, o, ancora meglio, com’è giusto che sia. Se ci si fa caso, le canzoni di quest’album si compongono di strutture atipiche, poiché non sono pensate come inerenti ad un genere o ad un mercato che richiede l’applicazione di determinati canoni, bensì sono canzoni uniche, ogni brano è l’evoluzione di sé stesso. Non c’è un ritornello se il contesto non lo necessita, e questo porta ad un’aggregazione di canzoni irripetibile. Il filo conduttore è quel sentimento che lega il buio, lo spazio ed il suo vuoto cosmico, i meandri della coscienza. Quel mistero che fa paura ma cela dentro sé la più grande bellezza. E’ anche questa l’atmosfera del disco, un viaggio nello spazio con i piedi a terra e la testa fra i pianeti. L’alternarsi delle tracce è così coerente da far vivere l’intero album come un’unica grande suite musicale, psichedelica, allucinata. I tempi dilatati, sporchi, tipici del post-rock strumentale, vedono le parole venir poggiate su di essi come un velo leggero, non ci sono due parole cantate nello stesso modo. E’ proprio questo a far di Forma Mentis un bell’album, piaccia o meno è originale, unico. E d’altronde è il frutto di una lunga ricerca, figlio dell’esperienza dell’artista e della sua conoscenza. Il risultato finale è quindi una chicca per chi ama il rock, per chi rimpiange i ’90, è il disco che non si sentiva da un bel po’ di tempo in Italia.