Un ritorno sicuramente tra i più attesi, quello di un festival tra gli ultimi nati in Italia ma cresciuto esponenzialmente dalla sua prima edizione, nel 2017: il Firenze Rocks ha riaperto i battenti, finalmente.
Come tutti i mega eventi, anche questo festival si porta con sé pro e contro: bella la voglia di condivisione, la marea umana tutta lì per vivere emozioni di concerti strepitosi (quest’anno una line up tra le migliori); meno gratificante l’immensa distanza dal palco per chi non ha il privilegio del pit, col rischio di trovarsi ad un concerto senza sentirsi ad un concerto.
È soprattutto quest’ultimo motivo che quest’anno mi aveva fatto desistere: ho visto Green Day, Red Hot Chili Peppers e Metallica in altri contesti, più o meno fortunati, e non volevo trovarmi ad uscire dall’ippodromo del Visarno con la sensazione di aver visto un live a metà.
Per fortuna poi, con un plot twist degno delle migliori sceneggiature del cinema, e grazie ad una persona speciale, la mia prospettiva sul Firenze Rocks è cambiata, letteralmente.
In un Venerdì 17 che non prometteva niente di buono, ho avuto la possibilità di vedere l’unica tra le band in programma che ancora non avevo mai visto live, I Muse, e di farlo dalla parte degli addetti ai lavori: il backstage.
Firenze Rocks backstage: le “famiglie” e “gli altri”
Soprattutto ho visto le persone, il lavoro, e “l’amor che muove il Firenze Rocks e le altre stelle “(semi cit.).
Ingranaggi fondamentali che non smettono mai di girare, che iniziano a farlo prima che tutto prenda forma per finire dopo l’ultima luce spenta.
Dietro al palco c’è questa sorta di camping-ufficio, dove nessuno si ferma per più di 20 minuti, perché poi, come dice Chiara, “chi ce la fa a ripartire”.
Ritrovarsi nel mezzo a tutto questo, ti fa quasi dimenticare che soli 20 metri più avanti sei davanti allo stage, dove di lì a poco si esibiranno le band più famose del mondo.
Perché, cavolo, ora sei nel cuore del gigante, lo vedi battere, senti i polmoni respirare e finalmente capisci davvero l’agonia che tutto questo ha dovuto soffrire negli ultimi due anni.
Come è possibile che questo mondo sia sparito nel nulla per un tempo così lungo? E se questa macchina incredibile non fosse riuscita a ripartire? Quanta meraviglia si sarebbe persa? E quante di queste persone non sarebbero qui?
Ed è proprio mentre mi pongo quest’ultima domanda che inizio a notare delle differenze. Ci sono piccole “famiglie” tra queste persone che sembrano conoscersi da sempre: i saluti, le risate, anche solo una battuta di sfuggita fa percepire chiaramente chi questo lavoro ce l’ha nel sangue.
Seppur concentrati ognuno nel proprio ruolo, hanno tutti un momento per riconoscersi, per ricordarsi un aneddoto di chissà quanto tempo fa o solo del giorno prima.
Hanno l’umanità e l’umiltà di chi ha lavorato con passione per anni e continua a farlo.
E poi ho notato “gli altri”, quelli che si sono trovati in un ruolo dopo un colloquio perché “un lavoro vale l’altro”, e che fanno parte di realtà numericamente molto più grandi, ma infinitamente più piccole dal lato umano.
Ho visto delle prove di forza, trincerate dietro un laconico “queste sono le direttive”, che in pochi minuti avrebbero fatto perdere la poesia anche a Leopardi.
La differenza abissale tra chi ha per anni portato avanti un lavoro con entusiasmo, fatto di conoscenze e scambi di vita, e l’asettica arroganza di chi sta ricoprendo una posizione senza le attitudini necessarie.
Succede spesso ahimè, quando entrano in campo grandi forze multinazionali, che per carità, sono assolutamente necessarie per far crescere i progetti, ma che troppe volte si dimenticano le basi.
Il concetto fondamentale è uno: in questo settore, prima dei numeri e del profitto serve la scintilla. Servono passione e dedizione. Non bastano i master all’università o questionari compilati bene.
Il rischio altrimenti è quello di implodere.
On stage
Per fortuna, isolati questi piccoli episodi su cui preferisco sorvolare, ho iniziato a godermi l’atmosfera: questo pomeriggio incredibile dove tutto sembrava possibile. Un luogo talmente sospeso nel tempo che quando sono saliti i Placebo sul palco, per qualche minuto siamo rimasti ad ascoltarli da una delle poltrone dell’ospitality. Surreale.
Sentire la voce di Molko, inconfondibile, è stato come tornare indietro nel tempo, e vederlo sul palco, ancora con la luce piena del giorno, rendeva tutto ancora più strano.
I Placebo sono una band che musicalmente ha mantenuto intatta la sua originalità, e che continua a portare on stage lo stile alternative rock che li ha contraddistinti fin dagli esordi. Spogli del look Emo che li ha accompagnati per i primi anni duemila, hanno comunque deliziato i presenti con pezzi incredibili come The Bitter End, Too Many Friends e persino la cover di Running up that hill di Kate Bush.
Poi sono arrivati i Muse, ed è stato forse il momento in cui ho pensato a l’unico “contro” del backstage: sei talmente “dentro” allo spettacolo, che non ne percepisci la completezza.
Il pit gremito non permetteva di inoltrarsi tra la folla, quindi mi sono goduta la vista opposta: l’ippodromo intero che alzava le mani e cantava Hysteria, Time is running out, Madness, Uprising, sovrastando a tratti la voce perfetta di Matt Bellamy, che non ha perso una nota nemmeno per sbaglio.
Fiamme sul palco così vicine da sentirne il calore sul viso e pezzi eseguiti alla perfezione: tutto quello che ci si aspetta da un concerto dei Muse. Superlativo.
Riflessioni
Nel rientrare a casa, oltre a cullarmi nella bellezza di quello che avevo appena vissuto, non ho potuto fare a meno di pensare ancora una volta all’importanza del mondo che si cela oltre la transenna, ed all’insostituibile importanza del cuore che ho visto battere grazie a quelle persone, nonostante tutto.
Una sola parola per chiudere, dedicata a loro: grazie.
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Sono una toscana semplice : un po’ d’arte, vino buono & rock ‘n roll.
“Non come chi vince sempre, ma come chi non si arrende mai”
(Frida Khalo)