Giancarlo Erra, fondatore dei Nosound, band capitolina dal sound inconfondibile, ha composto il suo esordio solista e futura colonna sonora di un documentario: Ends, in uscita il 12 Aprile per Kscope. I Finali.
Orazio diceva che “cambiano soltanto il cielo, non l’animo, quelli che attraversano il mare”. Eppure, gli esseri umani, da sempre, scappano da un luogo da cui credono che i loro problemi abbiano origine: fughe da ragazzini nei boschi, scappatelle negli alberghi per non tornare a casa a dormire, sparizioni con tanto di documenti, arruolamenti nella Legione Straniera francese… E poi, ovviamente, l’evasione più semplice: la fantasia. La fuga nella fantasia, in ciò che le sinapsi elettriche possono creare: gratuita, energeticamente poco dispendiosa, priva dei noiosi vincoli della realtà, in cui non puoi ferirti, non puoi soffrire la fame, non puoi beccarti qualche strana malattia, nessun alieno infame può rapirti. E, infine, vennero le missioni Apollo: nel 1969, cinquant’anni fa, i primi uomini toccarono il suolo della Luna. E le colonie lunari, marziane, sulle lune di Giove, l’esplorazione del sistema planetario di Sirio, sembrarono così vicine da essere toccate con mano – trascurando i raggi cosmici.
Ecco, ora siamo nel 2019, e niente di ciò è avvenuto: la Terra gira sempre sola sul suo asse, la Luna è un sasso sterile, la bomba è tornata, il razzismo e la xenofobia toccano i massimi storici, l’infelicità è divenuta status quo della gioventù, un apostrofo blu fra una canna rollata con gli esercizi sugli integrali non definiti e l’ennesima candidatura di lavoro senza risposta. Ma c’è una forma d’arte che è così pura, così catartica, che può risvegliare quell’antica libertà, quell’infantile illusione: la musica.
Ends, di Giancarlo Erra (qui l’intervista), è il suo esordio solista, dopo tanti, tantissimi anni di Nosound, band italiana trapiantata in mezza Europa che ha recentemente rilasciato il suo ultimo, bellissimo, album: Allow Yourself (qui la recensione).
Il nuovo progetto è ancora più ambizioso del precendente: è colonna sonora di un documentario a cura del filmmaker australiano Dion Johnson, che avrà come tema l’esplorazione delle meraviglie nascoste del nostro mondo. Eccezionale è anche il cast degli strumentisti tutti: il quartetto danese/irlandese composto da Elis Marteinsson (violino), Krista Sverrisdóttir (violino), Nicolaj Nielsen (viola) e Quynh Lephan (violoncello).
Ends, “finali”, è, dunque, un viaggio. È musica che attraversa i continenti, e che ha, con la potenza del suo silenzio, la capacità di evocare grandiosi scenari, coloratissimi o crepuscolari. È, soprattutto, un viaggio di crescita: è la musica che può accompagnare un romanzo di formazione – cosmico – che ancora deve essere scritto, ma che ha già là, nell’iperuranio, tutti i suoi personaggi, che sono fatti di synth persistenti, di archi sincopati, di suoni ruvidi e graffianti. È il racconto di una vita che scorre al contrario, come l’ordine delle tracce, sparso, come sprazzi di vita particolarmente colorata: momenti che hanno significato. I pochi, pochissimi momenti che sono cardine di una vita intera, nei quali il Tempo si fa concreto e rende possibile la sua stessa esistenza.
Partiamo così da End III, che precede End II e End I, in un curioso viaggio a ritroso. Synth sincopati, ripetuti, un battito cardiaco troppo veloce, cui si aggiungono altri suoni, timidi ed ibridi: archi malinconici, pad atmosferici, drum. Eppure, lui, quel beat, rimane una costante su tutto il brano: il fulcro di una qualunque forma di vita, dal più infimo micobatterio a una balenottera azzurra; il fulcro di una storia, che permea End III. E che, qualunque follia la malinconica viola attorno a lui potrà compiere – qualunque triste storia racconterà – lui sarà lì. In End II, il protagonista è il pianoforte: con un arpeggio, apprendiamo che quel suono timido, ibrido, appena nato, di End III è cresciuto – o, forse, era regredito in End III successivamente ai muti eventi narrati in End II – e si è scurito. È confuso: synth roboanti, da Philip Glass più malinconico, si mescolano a un quartetto d’archi e ad un vocalizzo delicatissimo in sottofondo, quasi un vagito. E la voce è solo un altro strumento, attorno a quel pianoforte: quella forma di vita che viene sommersa dal grande Caos che la circonda.
Ecco End I, l’inizio. Un arpeggio semplicissimo ed una viola fin troppo intrusiva, una madre premurosa; una famigliola d’archi che si assiepano attorno al synth appena nato, che agita le braccia al cielo mentre enormi facce si sporgono sulla culla: enormi occhi. E la grandezza evocata dal brano non fa altro che crescere, assieme alla maestosità – da colonna sonora – acquisita; la sorprendente ritmica di drum machine che appare dopo metà brano è l’inizio dell’adolescenza di una forma di vita ancora giovane, e che, dunque, non ha ancora perduto il suo centro; non è ancora stato sbalzato qua e là dalle disgrazie della vita degli adulti.
Dopo End I, l’ordine è perso. E come in un libro di Philip Roth, quale Pastorale Americana, che inizia dalla fine e poi prosegue in ordine sparso, tracciando amare scene di vita senza correlazione se non indeologica, inizia End VII. Eterea e sospesa, rappresenta un momento di malinconia, quella che si insinua nel cuore e che non si riesce ad estirpare, poiché non se ne comprende la genesi: c’è del Max Richter, distillato col contagocce, ma con l’approccio “smorzato” al suono di Nils Frahm. Un’infinita tristezza accoglie l’ascoltatore: sembra di vedere ghiacciai che si sciolgono, foreste che bruciano.
E se si credeva che dopo l’inferno si possa soltanto risalire a riveder le stelle, nel viaggio all’inverso quale Ends di Giancarlo Erra è, si può continuare ad addentrarsi negli abissi: con End V, accordi diminuiti di un organo elettronico, arpeggio ossessivo e pianoforte a farne eco, cui si accoda una viola in un canto disperato. Elettroni con spin semi interi che diventano emozione quando distanti percussioni si aggiungono, ed il pathòs cresce; è la soundtrack di un horror.
C’è ancora spazio, per una speranza, nel micro universo divorato da un dio poco caritatevole creato fino a End V? Sì. Una mite alba appare nel brano più post-rock – genere cui Erra non ha mai fatto finta di non avere una predilezione – di Ends, ossia End IV. Un piano sospeso, archi irish-style appena accennati, e l’aurora che sorge prima timida, dietro colline aspre, ed infine gloriosa. Un Sole che si fa spazio fra nuvole ancora oscure; i suoi raggi, come il violoncello, che esplorano un mondo che, ora, sembra appena nato, dita delicate su un prato verde.
Il mondo ha recuperato una sua fragile integrità, dall’armageddon si è dischiuso un nuovo uovo cosmico, e il nuovo che ne è nato si stiracchia lentamente negli accordi elettronici di End VI. Cosmogonia in musica e appare un synth ad intrufolarsi. E se Ends vuole, come già detto, raccontare una storia, in questi tempi bui, il finale non può che essere felice, gravido di promesse: negli ampi, eterei, spazi, creati da Ends Coda, i cui richiami interni fra gli archi vanno a creare il dinamismo che mancava in End VI, mentre i beat synth in sottofondo creano un’inteleiatura ritmica sulla quale essi giocano; echi neoclassici di Arvo Part sono fortissimi.
Ends è, dunque, l’esperienza di una vita. Di come vorremmo tutti che la nostra fosse. Fatta di alta e bassi, ma incredibilmente centrata, in un nucleo infrangibile ad alta gravità: può avvenire l’Apocalisse attorno al protagonista, ideale, di Ends, eppure lui/lei/esso sarà sempre là. Sempre se stesso. La persistenza di un’identità unica in universi che si susseguono: l’essenza vitale. In conclusione, Ends di Giancarlo Erra è un album pressochè perfetto, ed una soundtrack che non ha nulla da invidiare a ben più blasonati quanto inflazionati maestri hollywoodiani. La musica, una volta rilasciata, appartiene a tutti: dunque, fate di Ends la colonna sonora di almeno, un prezioso, momento della vostra vita.
In Italia Ends verrà presentato a Roma, il 12 Aprile, all’Auditorium Lo Sciamano.
